La mano di Maometto

Scritto da in data Marzo 25, 2019

La storia di Jeelani, dalla NBA a senzatetto

Per un’esperienza più coinvolgente, invece di leggere ascoltate il podcast 

Gli inizi

Abdul Jeelani nasce come Gary Cole nel 1954 a Bells e cambia nome in Abdul Jeelani dopo aver abbracciato la fede musulmana. Cresce a Racine nel Wisconsin, come molti americani, sviluppa fin da bambino una grande passione per la pallacanestro, aiutato da un fisico prestante, cui aggiunge una eleganza ed una leggerezza fuori dal comune. Inizia a giocare nell’high school a Washington Park ed entra poi alla University of Wisconsin Parkside dove dal 1972 al 1976 è assoluto protagonista e stabilisce il record della squadra sia per punti realizzati (2.262) che per rimbalzi catturati (1.237). Nel ‘76, finita l’università, si dichiara eleggibile per il draft NBA, una sorta di lotteria che si svolge ogni anno, durante la quale tutte le franchigie NBA possono accaparrarsi giovani talenti in uscita dal college. Jeelani viene scelto al terzo giro dai Cleveland Cavaliers, attuali campioni in carica NBA, ma viene tagliato pochissimo tempo dopo. Scaricato dai Cavaliers, Jeelani si accasa a Detroit ma anche qui viene scartato senza troppi complimenti. Non certo un grande inizio di carriera tra i professionisti per Jeelani che, a questo punto, voglioso di mostrare le sue abilità, decide di cambiare radicalmente aria e di venire in Italia dove sostiene un periodo di prova alla Fernet Tonic di Bologna, ma non convince il tecnico Beppe Lamberti. È allora il coach dell’Eldorado Lazio Giancarlo Asteo a portarlo a Roma e farlo esordire nel campionato di serie B con la maglia della Eldorado.

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Jeelani arriva a Roma nel 1977 e si mette subito in luce nel campionato Italiano salvando la squadra laziale dalla retrocessione facendo registrare più di 32 punti di media a partita. Durante l’estate torna negli Stati Uniti e si converte all’islam cambiando nome: Gary Cole diventa ufficialmente Abdul Quadir Jeelani. Nel corso della sua seconda stagione laziale, Jeelani riesce addirittura a migliorarsi e trascina la squadra di Asteo alla promozione in serie A. Il talento di Jeelani, un ragazzone di 207 cm per più di 90kg, è sprecato per il campionato Italiano tant’è che viene richiamato oltreoceano prima dai Portland Trail Blazers, con i quali disputa 77 partite segnando 737 punti e, l’anno successivo, dai Dallas Mavericks squadra neonata per cui segna il primo storico canestro nella NBA. Terminata la stagione, Jeelani ha in mano un contratto non garantito da 100mila dollari ma ecco che arriva l’Ing. Boris il quale, a nome della Libertas Livorno, mette sul piatto un faraonico quadriennale da 750mila dollari: così Jeelani decide di tornare nel Belpaese, diventando immediatamente l’idolo del PalaMacchia, storico palazzetto di Livorno, e meritandosi, per la sua fede religiosa e l’abilità tecnica, l’appellativo “La mano di Maometto”.

“La scelta più difficile della mia vita, ma sembrava che stesse iniziando qualcosa di speciale”

dirà in una delle sue ultime interviste. Conquista la promozione in Serie A già al primo anno e indossa la maglia livornese per altre 3 stagioni, nelle quali da spettacolo in tutte le palestre dello Stivale senza mai scendere sotto la media di 20 punti a partita; chi ha avuto la fortuna di vederlo giocare lo definisce, ancora oggi, uno dei più forti giocatori stranieri mai approdati nel campionato italiano, un pivot di grande potenza dotato di un’eleganza e una grazia rara per un giocatore della sua stazza. Dopo tre anni – e quasi 6000 punti, sommando le sue esperienze italiane – nel 1985 si trasferisce in Spagna dove gioca prima con il Saski Baskonia e poi con il Caja de Alava. Nel 1987 si ritira definitivamente dai parquet e ritorna negli Stati Uniti.

Una storia come un’altra, penserete voi; nulla di così eclatante o speciale. E invece no perché la particolarità nella storia di Abdul Jeelani inizia proprio alla fine della sua carriera nella pallacanestro.

L’inizio della discesa e il riscatto sociale

Quasi inevitabilmente la vita di un atleta viene sempre rappresentata tutta rosa e fiori: fai il mestiere che ti piace, ti pagano – e pure molto! – e, se sei un atleta di successo puoi contare sull’appoggio dei sostenitori ed impari, ti piaccia o no, a vivere al centro dell’attenzione. Arrivi a fine carriera, solitamente fra i 30 e i 40 anni, appagato. Hai fatto della tua vita quello che volevi: il tuo sogno e i tuoi sforzi sono stati ripagati. Sembra assurdo ma c’è il rischio concreto di ritrovarsi spaesati e senza obiettivi; forse è proprio questo che è successo ad Abdul Jeelani il quale, tornato negli Stati Uniti, comincia a lavorare per la Johnson Wax, un’azienda di prodotti per pavimenti e, in poco tempo, oltre ad un doppio divorzio, si trova a far fronte a problemi legati ad alcol, droga e salute (si opera per tre volte per cercare di curare un tumore alla prostata). Nel 2009 Jeelani perde anche il lavoro di supervisore alla produzione nella sua azienda e accumula un debito di quasi 4000 dollari. I due anni successivi sono forse i più difficili e la luce in fondo al tunnel non si vede: Jeelani, infatti,  è costretto a vivere ad Halo il centro per homeless di Racine; il caso vuole – e guardate che quando il caso ci si mette crea combinazioni impensabili – che mentre sta pranzando alla mensa, entrino un gruppo di dirigenti della Johnson Wax, proprio la sua ex azienda, e che fra di loro ci sia un italiano, ma non un italiano qualsiasi bensì un livornese, appassionato di pallacanestro, che ben conosce “la mano di Maometto”. Jeelani gli chiede di lanciare un messaggio di aiuto in suo nome attraverso la pagina Facebook dei suoi fan e la sua Livorno risponde: i tifosi della Libertas raccolgono e inviano a Jeelani 3.700 dollari. Ma non è finita qui: l’angelo custode di Abdul Jeelani risponde al nome di Simone Santi, presidente della Lazio Basket, da anni impegnato anche nel sociale con un progetto di integrazione ed aiuti nei confronti dei meno fortunati. Leggendo un articolo di giornale del Corriere dello Sport a firma di Andrea Barocci sulla sfortunata sorte di Jeelani, a Simone Santi torna vivo in mente il ricordo di quel ragazzone elegante ed aggraziato capace di esaltare e mandare in visibilio le folle nei palazzetti dello sport italiani. Dopo aver contattato la struttura Halo per verificare che vi fossero tutte le condizioni per un rientro di Jeelani in Italia Santi, durante una telefonata, illustra a Jeelani il “Progetto Colors”, un’iniziativa attiva nelle periferie di Roma e in un orfanotrofio ai margini di Maputo, in Mozambico, che vuole offrire, con il basket, uno strumento di crescita e di integrazione. Santi gli propone un ruolo centrale in questo nobile progetto e Jeelani accetta.

Dopo aver risolto alcune faccende burocratiche, il 14 gennaio 2011 La Mano di Maometto torna a predicare basket in Italia, non più sul parquet, ma dalla panchina, in un importante tentativo di donare una speranza a chi, come i ragazzi meno fortunati della periferia romana, ne ha fortemente bisogno. Prima di tornare negli Stati Uniti a causa del peggioramento della malattia alla prostata, Jeelani trascorre un mese nella sua Livorno dove riabbraccia molti dei suoi ex compagni e rimette persino le scarpe da basket per partecipare ad un memorial intitolato “Un canestro contro l’indifferenza” fra Libertas Livorno e la Pallacanestro Livorno, cui partecipano anche membri della nazionale artisti della pallacanestro. Nel 2013 Jeelani torna a Racine e il 24 ottobre dello stesso anno entra a fare parte della Hall of Fame del Racine County Sports. Nonostante i problemi di salute, negli ultimi anni Abdul ha continuato il suo impegno di “maestro di basket” a favore di bimbi e ragazzi in una struttura di Racine.

Il 3 agosto del 2016, Abdul Jeelani cede definitivamente alla malattia e muore in ospedale. La notizia della sua scomparsa raggiunge il mondo del basket suscitando un’ondata di commozione in Italia, in Spagna e negli Stati Uniti. Oltre che per il suo innato talento Jeelani verrà ricordato per la sua incredibile storia.

Ascolta anche: Enes Kanter – Il grido di uno sportivo 

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