6 agosto 2025 – Notiziario Mondo
Scritto da Radio Bullets in data Agosto 6, 2025
- Gaza: Unicef, a Gaza muore un bambino all’ora. Israele vuole la completa sconfitta di Hamas, a costo di occupare la Striscia.
- Rwanda accetta migranti deportati dagli Stati Uniti.
- Olanda prima in Europa a finanziare armi USA per l’Ucraina.
- Danimarca: lo zoo chiede di donare i propri animali domestici per cibare i predatori.
- A Ginevra in corso i negoziati ONU per un trattato globale sulla plastica.
Introduzione al notiziario: Hiroshima 80 anni dopo: la memoria tradita”
Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets a cura di Barbara Schiavulli
Israele e Palestina
Da quando Israele ha lanciato la sua offensiva su Gaza il 7 ottobre 2023, più di 18.000 bambini palestinesi sono stati uccisi, secondo l’ultimo rapporto dell’UNICEF.
Un dato agghiacciante: un bambino morto ogni ora, in quello che l’agenzia delle Nazioni Unite definisce una “crisi umanitaria senza precedenti”.
“Morti per bombardamenti. Morti per malnutrizione. Morti per mancanza di cure”, scrive l’UNICEF su X. In media, 28 bambini al giorno – l’equivalente di una classe scolastica – perdono la vita.
Altri dati aggiornati indicano 60.933 morti totali e oltre 150.000 feriti tra i palestinesi.
Solo nelle ultime 24 ore, otto persone sono morte per fame, tra cui un bambino, portando a 188 il numero di vittime per denutrizione, la metà delle quali sono bambini.
L’inviato di Al Jazeera Aksel Zaimovic racconta che l’infanzia a Gaza è stata sostituita da una “lotta quotidiana per la sopravvivenza”.
Lana, una bambina di 10 anni, ha subito depigmentazione da trauma dopo che un’esplosione ha colpito vicino al suo rifugio.
Kadim, poco più grande, ha dovuto assumersi la responsabilità di sfamare sei familiari dopo che suo padre è rimasto ferito.
“Le scuole sono state colpite deliberatamente, le infrastrutture idriche distrutte, il cibo bloccato. I diritti dell’infanzia sono stati trasformati in armi”, denuncia Zaimovic.
Ahmad Alhendawi, direttore regionale di Save the Children, afferma: “Gaza è oggi un cimitero per i bambini e per i loro sogni. È un incubo ininterrotto per ogni piccolo che vive lì”.
Dal 2 marzo Israele ha ulteriormente ridotto l’accesso agli aiuti: solo 86 camion al giorno, appena il 14% del minimo necessario, secondo le Nazioni Unite.
Oltre 150 organizzazioni umanitarie e esperti ONU chiedono un cessate il fuoco immediato, per evitare che un’intera generazione vada perduta.
Quando l’UNICEF parla di un bambino morto ogni ora, non è solo una statistica: non si capisce come il mondo non faccia nulla. Per il volto di Lana che sbianca per il trauma, per Kadim che diventa padre a dieci anni.
La guerra ha fatto dei bambini il bersaglio. E il mondo – che pure ha leggi, convenzioni, diritti – resta paralizzato, complice nel silenzio.
Se questa non è una soglia da non oltrepassare, allora cosa lo è? Se non ora, quando il dovere di fermare questa carneficina?
■ GAZA: Il Ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, ha riferito che 79 palestinesi sono stati uccisi e 644 sono rimasti feriti negli attacchi israeliani nelle ultime 24 ore. Secondo il Ministero, 52 persone sono state uccise mentre attendevano gli aiuti umanitari.
Martedì sera, il Primo Ministro Netanyahu ha tenuto una consultazione sulla sicurezza con il Capo di Stato Maggiore delle IDF Eyal Zamir, il Ministro della Difesa Israel Katz e il Ministro degli Affari Strategici Ron Dermer per discutere la prosecuzione delle operazioni militari israeliane a Gaza.
Al termine dell’incontro, l’ufficio di Netanyahu ha dichiarato che Zamir ha presentato opzioni per espandere la campagna nella Striscia e che “le IDF sono pronte ad attuare qualsiasi decisione presa dal Gabinetto per la Sicurezza”.
Il Ministro della Difesa Katz ha dichiarato che si assicurerà che le IDF attuino le decisioni del governo in merito alla prossima fase delle operazioni a Gaza.
Ha sottolineato la necessità di una presenza permanente delle IDF in una “zona cuscinetto di sicurezza” in aree strategiche della Striscia per prevenire il contrabbando di armi e futuri attacchi alle comunità israeliane, nonché il contrabbando di armi.
Per la prima volta da quando sono ripresi i combattimenti a marzo, Israele consentirà a un numero limitato di commercianti di Gaza di importare merci nella Striscia, ha affermato l’IDF , aggiungendo che la mossa mira a ridurre la dipendenza dalle organizzazioni internazionali e dalle Nazioni Unite.
110 pacchi di aiuti alimentari sono stati paracadutati a Gaza “nell’ambito della cooperazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Egitto, Germania, Belgio e Francia”.
■ OSTAGGI/CESSATE IL FUOCO: Il ministro israeliano della Cultura e dello Sport Miki Zohar ha dichiarato a Channel 12 News che “ non c’è altra scelta che occupare completamente la Striscia e sconfiggere Hamas”, riconoscendo che la mossa “metterà sicuramente in pericolo gli ostaggi”.
Martedì Israele ha convocato una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere il rilascio degli ostaggi tenuti prigionieri da Hamas a Gaza. La richiesta arriva dopo che il gruppo con sede a Gaza ha diffuso un video che mostra un uomo di 24 anni dall’aspetto emaciato.
Gli ostaggi israeliani suscitarono una diffusa simpatia, ma la difficile situazione degli oltre due milioni di palestinesi che muoiono di fame nell’enclave suscita ancora più sostegno.
I asked the UN Security Council what Secretary-General Guterres tweeted after the horrible images of Evyatar and Rom were released. The answer: Not a word. Deafening silence. I also called out the Russian and Palestinian representatives.
Watch my speech at a special meeting on… pic.twitter.com/IlLdnGGEMY
— Gideon Sa'ar | גדעון סער (@gidonsaar) August 5, 2025
■ CISGIORDANIA: I coloni hanno incendiato un edificio a due piani in una fattoria palestinese a Turmus Ayya, scrivendo con lo spray le parole “Vendetta” e “Prezzo” sui muri, ha detto ad Haaretz Wadi’ Alqam, il proprietario della fattoria .
“Proprio come sempre, non ci saranno arresti”, ha detto, aggiungendo che “l’esercito e la polizia vengono a prendere le dichiarazioni. Mostriamo loro da dove provengono i coloni. Ma non aiutano”.
■ ISRAELE: Un evento di raccolta fondi di Tel Aviv a sostegno dei residenti di Gaza è stato costretto a spostarsi dopo che gli organizzatori hanno ricevuto minacce concrete da attivisti di destra.
La sede originale aveva detto che i biglietti erano esauriti con due settimane di anticipo, ma le minacce sono iniziate dopo un post dell’attivista filo-israeliano Yoseph Haddad .
■ POLONIA: Il primo ministro polacco Donald Tusk ha ribadito il sostegno della Polonia a Israele nella sua lotta contro Hamas in un post su X, ma ha aggiunto che “non starà mai dalla parte dei politici le cui azioni portano alla fame e alla morte di madri e bambini .
Questo deve essere ovvio per le nazioni che insieme hanno attraversato l’inferno della Seconda Guerra Mondiale”.
Il Ministero degli Esteri israeliano ha dichiarato di “respingere fermamente” i commenti di Tusk e di “aspettarsi che la Polonia si astenga dall’usare un linguaggio che distorca la storia”, accusando Varsavia di “disonorare la memoria delle vittime dell’Olocausto”.
Più tardi, martedì, il Ministero ha convocato l’ambasciatore polacco in Israele per un rimprovero ufficiale.
Libano
Martedì si è aperta a Baabda una delicata riunione del governo libanese, con all’ordine del giorno il controllo statale di tutte le armi nel Paese, incluso il disarmo di Hezbollah e di altri gruppi armati non statali.
Presieduto dal presidente Joseph Aoun e con la partecipazione del premier Nawaf Salam, il consiglio dei ministri mira a riaffermare la sovranità del Libano su tutto il suo territorio, un obiettivo che passa anche attraverso il recupero del monopolio statale sull’uso della forza.
Alla vigilia del vertice, Hezbollah ha lanciato un chiaro avvertimento: “Non strumentalizzate la questione del disarmo per creare divisioni interne”, ha detto il parlamentare Ali Fayyad, chiedendo invece unità nazionale contro Israele.
Il gruppo sciita ribadisce la sua posizione: niente disarmo fino a quando Israele non si sarà completamente ritirato dal territorio libanese.
Tel Aviv ha infatti mantenuto cinque avamposti militari al confine, violando i termini del cessate il fuoco raggiunto a novembre 2024 dopo una guerra devastante.
La guerra, iniziata l’8 ottobre 2023 e degenerata in settembre 2024, ha causato oltre 4.000 morti e 17.000 feriti in Libano. Nonostante il cessate il fuoco, gli attacchi israeliani nel sud del Paese proseguono quasi quotidianamente.
Il Libano prova a riprendere in mano la propria sovranità, ma lo fa su un terreno minato.
Il tentativo di disarmare Hezbollah – o anche solo di discuterne – rischia di spaccare ulteriormente un Paese già fragile e polarizzato.
La presenza militare israeliana, che continua a violare gli accordi di cessate il fuoco, fornisce al Partito di Dio un pretesto per mantenere le armi.
Ma il vero nodo è politico: senza una soluzione complessiva al conflitto con Israele e senza garanzie internazionali, ogni tentativo di riportare le armi sotto il controllo dello Stato rischia di incendiare il fronte interno.
Il Libano è stretto tra due fuochi, e la fiamma della guerra non è mai davvero spenta.
Iran
Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha nominato martedì Ali Larijani nuovo segretario generale del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale (SNSC), la più alta autorità di sicurezza del Paese.
Nel decreto di nomina, Pezeshkian affida a Larijani il compito di “monitorare e ridefinire le priorità in materia di sicurezza nazionale”, con particolare attenzione alle minacce emergenti e tecnologiche e alla necessità di un approccio “intelligente e basato sul consenso popolare”.
La nomina arriva dopo una ristrutturazione interna del consiglio, che include anche la creazione di un nuovo Consiglio della Difesa, destinato a operare sotto l’ombrello del SNSC.
Larijani subentra ad Ali-Akbar Ahmadian, in carica dal maggio 2023, che secondo i media locali diventerà ora vicepresidente del governo.
Ex presidente del Parlamento (2008–2020) ed ex segretario dello stesso Consiglio tra il 2005 e il 2007, Larijani è considerato un conservatore pragmatico, vicino al Leader Supremo Ali Khamenei, ma talvolta in sintonia con i riformisti.
La sua candidatura alle presidenziali del 2023 era stata respinta dal Consiglio dei Guardiani. Attualmente è anche membro del Consiglio di Discernimento, organo che media tra Parlamento e vertici religiosi.
Il cambio di leadership nella sicurezza avviene meno di due mesi dopo il conflitto di 12 giorni con Israele, iniziato con un attacco israeliano il 13 giugno e costato oltre 1.000 morti in Iran, tra cui alti ufficiali, scienziati nucleari e civili.
La nomina di Larijani segna quindi un passaggio cruciale nella riorganizzazione post-bellica della sicurezza nazionale.
Riflette una strategia di consolidamento del potere e di adattamento dopo un trauma militare senza precedenti per l’Iran.
Con il Paese ancora scosso dalla guerra-lampo con Israele, la Repubblica islamica affida le redini della sicurezza a una figura navigata, fedele al sistema, ma abbastanza flessibile da dialogare con più anime del regime.
In gioco non c’è solo la difesa militare, ma anche la sopravvivenza politica di un’élite che sa di dover affrontare non solo minacce esterne, ma anche un malcontento interno sempre più difficile da contenere.
Rwanda
Il Rwanda ha accettato di accogliere fino a 250 migranti deportati dagli Stati Uniti, nell’ambito di un più ampio piano dell’amministrazione Trump per convincere alcuni Paesi africani a farsi carico di migranti espulsi e ritenuti non rimpatriabili nei loro Paesi d’origine.
Secondo il governo ruandese, la decisione è motivata da “valori fondati sulla reintegrazione e riabilitazione”, in un Paese che ha vissuto sulla propria pelle la tragedia dello sfollamento, dopo il genocidio del 1994 che ha causato oltre 800.000 morti tra tutsi e hutu.
I colloqui erano stati confermati già a maggio dal ministro degli Esteri ruandese Olivier Nduhungirehe. Un secondo funzionario, rimasto anonimo, ha dichiarato che gli Stati Uniti forniranno supporto economico – senza specificare l’ammontare – destinato anche a programmi di formazione e lavoro per i migranti ospitati.
La scelta del Rwanda arriva mentre l’amministrazione Trump cerca accordi simili con almeno altri 15 Paesi africani, tra cui Sud Sudan ed Eswatini.
Una strategia che punta a esternalizzare le politiche migratorie statunitensi, come dimostrato anche dai 6 milioni di dollari destinati a El Salvador per incarcerare migranti venezuelani e salvadoregni.
Secondo fonti ruandesi, l’accordo è anche un’opportunità per rafforzare le relazioni bilaterali con Washington, pur ammettendo che non si tratta di un rapporto tra pari.
Svizzera
A Ginevra sono iniziate dieci giorni di negoziati sotto l’egida delle Nazioni Unite per raggiungere un trattato internazionale legalmente vincolante contro l’inquinamento da plastica.
L’obiettivo: regolamentare l’intero ciclo di vita della plastica, dalla produzione allo smaltimento, con misure che vadano oltre il semplice riciclo.
UNEP Executive Director @andersen_inger urges negotiators in Geneva at the resumed #INC5 to seize this historic moment: finalize a #PlasticsTreaty that protects people, the planet, and future generations.
Her opening remarks: https://t.co/9RCUq5PyJV pic.twitter.com/W79pkC6qJG
— UN Environment Programme (@UNEP) August 5, 2025
“La crisi della plastica è fuori controllo e la gente è giustamente indignata,” ha detto Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP, l’agenzia ONU che guida i lavori.
“La plastica è ovunque: negli oceani, nei nostri corpi, nella nostra natura. Nessuno vuole convivere con questo inquinamento.”
Il mandato per elaborare un trattato era stato approvato nel 2022, con un obiettivo ambizioso: concludere i lavori entro due anni.
Secondo le proiezioni, la produzione di plastica potrebbe triplicare entro il 2060, con impatti devastanti su salute, ambiente e clima.
Sul tavolo ci sono questioni di giustizia ambientale e salute globale. Shellan Saling, giovane attivista californiana, ha ricordato che la plastica “colpisce la fertilità, la salute mentale e fisica, persino i difetti congeniti. È un problema sistemico.”
L’auspicio è di raggiungere un’intesa “alla Parigi”, cioè un accordo storico, ma con più concretezza. Tuttavia, petrostati e lobby del petrolio, da cui deriva la plastica, continuano a esercitare pressioni per indebolire il trattato.
Katrin Schneeberger, responsabile ambientale svizzera, ha dichiarato che i rifiuti plastici stanno “soffocando i nostri laghi, minacciando la fauna e la salute umana”.
Ma ha anche ammesso che nessun Paese produttore ha proposto un tetto alla produzione, segnale delle difficoltà che attendono i negoziati.
Il documento in discussione, lungo 22 pagine con 32 articoli, è solo un punto di partenza. L’obiettivo finale è un trattato che favorisca l’economia circolare e impedisca che la plastica finisca nell’ambiente.
Andersen ha spiegato: “Alcuni Paesi dovranno ridurre la produzione, altri investire sul riciclo, altri ancora sviluppare alternative.”
Mettiamola così, il mondo è davanti a un bivio: scegliere tra trasformazione sistemica o catastrofe ambientale programmata.
Ma trasformare un’economia globale costruita sulla plastica richiede molto più di buone intenzioni. Serve coraggio politico, serve indipendenza dalle lobby del petrolio, e serve giustizia per chi oggi paga il prezzo più alto dell’inquinamento: le comunità povere, i Paesi vulnerabili, i giovani del futuro.
Il trattato sulla plastica potrebbe essere il prossimo grande passo dopo l’Accordo di Parigi. Ma se non ci sarà una vera volontà di agire, resterà solo una bella promessa soffocata… da un sacchetto.
Olanda
I Paesi Bassi diventeranno il primo Stato europeo a destinare fondi per l’acquisto diretto di armi statunitensi da inviare in Ucraina.
Lo ha annunciato il ministro della Difesa olandese Ruben Brekelmans, dopo un accordo tra il presidente Donald Trump e il segretario generale della NATO, Mark Rutte.
L’Olanda contribuirà con 500 milioni di euro all’iniziativa NATO PURL (Prioritized Ukraine Requirements List), un fondo nato per accelerare la fornitura di armamenti critici a Kyiv.
In particolare, i fondi olandesi saranno destinati all’acquisto di sistemi di difesa aerea Patriot e relativi missili, tra i più avanzati nel contrasto aerei, missili balistici e da crociera.
Durante un incontro alla Casa Bianca con Rutte, Trump ha ribadito che l’Europa comprerà “miliardi di dollari in armi statunitensi per l’Ucraina”, con una distribuzione rapida al fronte.
La mossa risponde anche alle pressioni dei repubblicani, critici verso gli oltre 128 miliardi di dollari già stanziati da Washington.
Il presidente ucraino Zelensky ha ringraziato pubblicamente l’Olanda su X, scrivendo che “l’Ucraina – e l’intera Europa – saranno meglio protette dal terrore russo”.
Il segretario NATO Rutte ha invece invitato gli altri alleati a seguire l’esempio olandese, auspicando “annunci significativi” a breve.
Con quasi 3 miliardi di euro in aiuti militari dal 2022, l’Olanda si conferma tra i maggiori sostenitori europei dell’Ucraina: ha già fornito tank, addestramento per F-16 e ora contribuisce a rafforzare lo “scudo aereo” di Kyiv.
Intanto, l’inviato della Casa Bianca Steve Witkoff si recherà a Mosca per un ultimo tentativo diplomatico, prima della scadenza fissata da Trump per la fine del conflitto. In caso di fallimento, il presidente ha minacciato dazi punitivi contro la Russia e i Paesi che continueranno a commerciare con Mosca.
Il messaggio è chiaro: Trump vuole che l’Europa paghi, ma che lo faccia acquistando Made in USA.
Il riarmo dell’Ucraina passa quindi per il rafforzamento dell’industria bellica americana, in un gioco dove il supporto militare diventa anche leva commerciale e diplomatica.
Ma l’ombra che si allunga è quella della deadline imposta a Putin: se Mosca non cede, Trump promette di alzare il livello dello scontro economico. E, forse, non solo quello.
Danimarca
Uno zoo danese ha acceso un interessante dibattito pubblico dopo aver pubblicato un appello su Facebook rivolto ai cittadini: donare animali indesiderati — come cavie, conigli, galline e persino cavalli — per nutrire i predatori della struttura.
L’annuncio spiega che gli animali, una volta portati allo zoo, verranno eutanasizzati in modo “delicato” da personale qualificato e poi utilizzati come cibo per linci europee, leoni e altri carnivori.
“È un modo per evitare sprechi e promuovere il comportamento naturale degli animali selvatici in cattività”, sostiene lo zoo.
Lo zoo ha specificato che è disposto ad accettare anche cavalli, seppure con alcune condizioni: devono avere passaporto e il proprietario può ottenere una detrazione fiscale in base al peso dell’animale.
La zoologa Thea Loumand Faddersbøll ha chiarito che si tratta spesso di cavalli vecchi, feriti o semplicemente in eccesso, per cui non si trovano alternative.
La campagna ha generato forti reazioni sui social: molti utenti si sono detti inorriditi all’idea di donare animali vivi e sani per farli uccidere, anche se in nome della “natura”.
Altri hanno invece difeso lo zoo, lodandone la trasparenza e la volontà di non sprecare risorse, né artificializzare il comportamento dei predatori.
La zoologa Anette Sofie Warncke Nutzhorn ha spiegato che la pratica esiste da anni, ma viene ora comunicata più apertamente: “Meglio donarli che seppellirli e sprecare la carne.”
Non è la prima volta che gli zoo danesi finiscono sotto i riflettori. Nel 2014, lo zoo di Copenaghen uccise una giraffa sana di due anni, Marius, per evitare l’inbreeding.
Il suo corpo fu sezionato davanti ai visitatori e dato in pasto a leoni e tigri. Più recentemente, anche lo zoo tedesco di Norimberga è stato criticato per aver abbattuto 12 babbuini.
In un mondo dove si riflette sempre più sul benessere animale e sull’etica ambientale, la proposta dello zoo danese mette a nudo un dilemma scomodo: dove finisce l’amore per gli animali, e dove inizia il realismo ecologico?
Per alcuni è crudeltà legalizzata, per altri un ritorno a una logica naturale. Ma forse la vera domanda è: che tipo di rapporto vogliamo avere con gli animali che chiamiamo “domestici”, quando smettono di esserci utili o convenienti?
La risposta, come sempre, dice molto più su di noi che su loro.
Moldavia
In Moldavia, la governatrice della regione autonoma della Gagauzia, Evghenia Gutul, è stata condannata a sette anni di carcere con l’accusa di aver canalizzato fondi dalla Russia verso il partito Shor, formazione politica filorussa bandita nel 2023.
Secondo l’agenzia statale Moldpres, i fatti contestati risalirebbero al periodo 2019-2022, e riguarderebbero trasferimenti illeciti di denaro a favore del partito proibito. Anche Svetlana Popan, ex segretaria del partito, è stata condannata a sei anni. Entrambe sconteranno la pena in un penitenziario semiaperto. La sentenza non è definitiva e potrà essere impugnata.
Gutul ha definito il processo una “farsa politica”, accusando il governo moldavo e la presidente Maia Sandu di usare la giustizia come strumento di repressione.
Il Cremlino ha subito reagito, parlando di una “decisione politicamente motivata”, in un clima già teso in vista delle elezioni parlamentari previste per il 28 settembre, con Sandu che accusa Mosca di voler destabilizzare il Paese.
Gutul, esponente del partito Shor, era stata eletta governatrice della Gagauzia – regione autonoma abitata da circa 120.000 gagauzi, una comunità turcofona e cristiano-ortodossa – nel maggio 2023. È stata arrestata a marzo all’aeroporto di Chisinau e posta agli arresti domiciliari ad aprile.
Questa vicenda si inserisce in uno scontro geopolitico che va ben oltre i confini della Moldavia.
La condanna di Gutul mostra quanto la piccola repubblica ex sovietica sia diventata un campo di battaglia tra influenze contrapposte: da un lato il governo europeista di Maia Sandu, dall’altro le spinte filorusse ancora forti in alcune aree del Paese, come la Gagauzia. A
poco più di un mese dalle elezioni, la posta in gioco è l’indipendenza stessa della Moldavia: tra accuse di ingerenze russe e repressioni politiche, la democrazia moldava rischia di rimanere schiacciata sotto il peso della sua fragile sovranità.
Haiti
Ad Haiti, otto persone, tra cui una bambina di 3 anni e la missionaria irlandese Gena Heraty, sono state rapite domenica mattina presto durante un’incursione armata nell’orfanotrofio Saint-Hélène a Kenscoff, sopra Port-au-Prince.
A confermare il rapimento è stata la rete umanitaria Nuestros Pequeños Hermanos, attiva in quasi due dozzine di Paesi dell’America Latina e impegnata in Haiti con l’assistenza a minori vulnerabili, donne incinte e malati.
L’intera rete, che comprende anche ospedali e programmi sanitari, ha sospeso le attività fino al rilascio incondizionato degli ostaggi.
Heraty, in Haiti dal 1993, è una figura storica dell’aiuto ai bambini orfani e disabili. Kenscoff è da mesi sotto attacco della coalizione criminale Viv Ansanm.
Il rapimento arriva mentre le violenze delle gang continuano a devastare il Paese: secondo l’ONU, tra aprile e giugno sono stati registrati oltre 1.500 morti, 600 feriti, 185 rapimenti e centinaia di casi di violenza sessuale.
Nonostante i tentativi delle forze di sicurezza haitiane e dell’operazione multinazionale a guida keniota, la situazione resta fuori controllo, specialmente nelle zone rurali come l’Artibonite, dove bande armate come Gran Grif hanno ucciso decine di persone e sfollato oltre 90.000 abitanti solo negli ultimi mesi.
Messico
Luis García Villagrán, noto avvocato e attivista per i diritti dei migranti, è stato arrestato martedì a Tapachula, nel sud del Messico, alla vigilia di una marcia diretta a Città del Messico per denunciare le condizioni disumane in cui versano migliaia di migranti bloccati al confine con il Guatemala.
Secondo un funzionario federale, l’arresto sarebbe legato a presunti reati connessi alla sua attività con le carovane migranti, ma i dettagli restano vaghi e le autorità non hanno fornito spiegazioni ufficiali.
García Villagrán è una figura di riferimento per chi da anni chiede corridoi umanitari e condizioni dignitose. Il suo arresto richiama precedenti simili: già nel 2018 e 2019 l’attivista Irineo Mujica era stato fermato in circostanze sospette.
Mujica ha denunciato la criminalizzazione crescente della solidarietà e accusato il governo di reprimere chi difende i diritti umani.
Per molti migranti, come il cubano Jesús Pérez, l’arresto è solo un tentativo di impedire la partenza della carovana.
Ma, afferma, “noi partiremo lo stesso”. Intanto continuano i rastrellamenti della Guardia Nazionale nei luoghi di ritrovo dei migranti: la repressione avanza, ma la protesta non si ferma.
Brasile
L’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro è stato posto agli arresti domiciliari dalla Corte Suprema.
È sotto processo per aver presumibilmente orchestrato un colpo di stato per rimanere in carica dopo essere stato sconfitto alle urne nel 2022.
Il leader dell’estrema destra nega di aver tentato di rovesciare l’attuale presidente del Paese, Luiz Inácio Lula da Silva.
L’amministrazione di Donald Trump ha condannato l’arresto definendolo motivato politicamente e un modo per mettere a tacere l’opposizione.
Pakistan
In Pakistan, la polizia ha arrestato oltre 200 sostenitori dell’ex premier Imran Khan, mentre tentavano di organizzare manifestazioni in tutto il Paese per commemorare il secondo anniversario del suo arresto.
Tra i fermati c’è anche Rehana Dar, 73 anni, esponente del partito PTI e nota per le sue accese critiche contro il governo di Shehbaz Sharif.
È stata vista mentre veniva caricata a forza su un camion della polizia a Lahore.
Secondo il portavoce del PTI Zulfiqar Bukhari, le forze dell’ordine hanno usato manganelli e gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti a Lahore e Karachi.
Il governo ha vietato ogni tipo di raduno nella capitale Islamabad e a Rawalpindi, dove Khan è detenuto dopo diverse condanne che i suoi sostenitori definiscono politicamente motivate. Gran parte degli arresti è avvenuta proprio a Rawalpindi.
La repressione arriva poche ore dopo che la Commissione elettorale ha squalificato Omar Ayub Khan—attuale leader dell’opposizione—e altri membri del PTI, condannati per le proteste scoppiate nel maggio 2023, dopo il primo arresto di Imran Khan per corruzione.
Khan era stato sfiduciato nell’aprile 2022, in un voto parlamentare guidato proprio da Sharif, oggi primo ministro.
A due anni dall’arresto di Imran Khan, il Pakistan mostra un volto sempre più autoritario.
La repressione delle proteste pacifiche, l’uso sistematico delle squalifiche politiche e la militarizzazione dello spazio pubblico segnalano una democrazia sotto assedio. Il governo di Shehbaz Sharif sembra più preoccupato di neutralizzare l’opposizione che di garantire stabilità o giustizia.
Ma la piazza resta viva, e l’arresto di una donna di 73 anni che alza la voce contro il potere è un’immagine che racconta meglio di mille comizi quanto il dissenso in Pakistan non sia ancora stato messo a tacere.
India
Il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato lunedì che intende aumentare “sostanzialmente” i dazi sull’India, accusando New Delhi di acquistare “enormi quantità di petrolio russo” e poi rivenderlo sul mercato internazionale “per trarne profitti ingenti”. Secondo Trump, l’India “non si cura delle vittime ucraine della macchina da guerra russa”.
Il ministero degli Esteri indiano ha respinto con fermezza le accuse, definendole “ingiustificate e irragionevoli”, e ha promesso di “adottare tutte le misure necessarie per proteggere gli interessi nazionali e la sicurezza economica del Paese”.
La Cina, altro grande acquirente di petrolio russo, aveva già rigettato la scorsa settimana le richieste di Washington di ridurre gli acquisti.
Nonostante la sfida verbale, secondo Reuters, le principali raffinerie indiane avrebbero sospeso temporaneamente gli acquisti di greggio russo, in attesa di capire l’evoluzione della situazione.
Ma l’incertezza pesa: l’analista Sreeram Chaulia, della Jindal School of International Affairs, ricorda che con Trump “si può passare dai pugni ai sorrisi da un giorno all’altro”.
Secondo fonti della Casa Bianca citate da AP, gli attacchi di Trump riflettono la sua frustrazione per lo stallo nei negoziati commerciali con l’India. E mentre infuria la guerra in Ucraina, Trump ha fissato un ultimatum a Mosca entro venerdì per fermare i bombardamenti, minacciando nuove sanzioni. Ma il Cremlino, almeno in pubblico, non ha mostrato alcuna intenzione di cedere.
Bangladesh
Un anno dopo la rivolta studentesca che ha costretto alla fuga la storica premier Sheikh Hasina, il leader ad interim il premio Nobel Muhammad Yunus ha letto ufficialmente la “Dichiarazione di luglio”, un documento simbolico che promette unità nazionale, riforme democratiche e un governo inclusivo.
Le prime elezioni post-Hasina sono attese nella prima metà del 2026, ma i partiti non hanno ancora trovato un accordo sulla data.
L’anno scorso, nessuno si aspettava che le proteste riuscissero davvero a rovesciare Hasina, al potere da 16 anni.
Il suo partito, l’Awami League, controllava giustizia, media e forze di sicurezza. Eppure, la premier è stata costretta a dimettersi e rifugiarsi in India, lasciando il Paese in una crisi istituzionale durata giorni.
L’attuale governo di transizione ha promesso giustizia per la repressione delle proteste, ma oggi si trova davanti a sfide crescenti.
I partiti dell’opposizione, uniti durante la rivolta, si sono frammentati. Con l’Awami League ora bandita, il partito di opposizione BNP punta a elezioni anticipate e meno riforme. Al contrario, i movimenti islamisti e civici nati dalle proteste chiedono cambiamenti più radicali, persino una nuova costituzione.
Sul fronte interno, il governo fa fatica a contenere una nuova ondata di criminalità, soprattutto a Dhaka. Sul piano economico, l’impatto imminente di un dazio del 20% sulle esportazioni verso gli USA rischia di colpire duramente il settore tessile.
E le relazioni con l’India sono in crisi: New Delhi rifiuta di estradare Hasina, aggravando la frattura diplomatica.
La “Dichiarazione di luglio” vuole essere un nuovo inizio. Ma dietro le promesse di riforme e democrazia si nasconde una realtà fragile: divisioni politiche, insicurezza, instabilità economica e tensioni regionali.
Il governo ad interim sembra più un equilibrista che un riformatore. Eppure, il Bangladesh ha già dimostrato di saper sorprendere. Un anno fa, nessuno immaginava la caduta di Hasina.
Oggi, anche qui, come nel resto del mondo, nessuno dovrebbe sottovalutare la forza di una popolazione giovane, determinata e sempre più consapevole.
Giappone
Il Giappone ha commemorato oggi l’80° anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima, con una cerimonia silenziosa alle 8:15 del mattino, l’ora esatta in cui il 6 agosto 1945 l’aereo statunitense Enola Gay sganciò la bomba “Little Boy”, uccidendo circa 140.000 persone tra l’esplosione, l’incendio e le radiazioni. Tre giorni dopo, un’altra bomba colpì Nagasaki.
Alla cerimonia erano presenti rappresentanti di 120 Paesi, inclusi per la prima volta Taiwan e Palestina.
Gli Stati Uniti hanno inviato l’ambasciatore, ma Russia e Cina erano assenti. Tra i partecipanti anche i pochi sopravvissuti ancora in vita — i hibakusha — oggi ultraottantenni, che chiedono che la memoria della tragedia serva a impedire nuove catastrofi.
Il sindaco di Hiroshima ha denunciato il crescente riarmo globale, mentre il premier giapponese ha ribadito l’impegno per un mondo senza armi nucleari.
Il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha avvertito che le armi nucleari “sono tornate a essere strumenti di coercizione”.
Ottant’anni dopo, Hiroshima è un monito vivo. Ma mentre i superstiti chiedono disarmo, le potenze nucleari — Russia e Stati Uniti in testa — accumulano testate e tensioni.
Il rischio non è la memoria che sbiadisce. È che la storia si ripeta.
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