13 novembre 2020 – Notiziario Africa
Scritto da Giusy Baioni in data Novembre 13, 2020
Ascolta il podcast
- Ghana: morto l’ex presidente Jerry Rawlings (n copertina)
- Etiopia: situazione ancora tesa nel Tigray
- Mozambico: l’Onu chiede un’indagine sui massacri
- Angola: la polizia reprime le manifestazioni di piazza
- Repubblica democratica del Congo: appello dell’arcivescovo di Beni – “non dimenticateci”
Questo e molto altro nel notiziario Africa di Radio Bullets, a cura di Giusy Baioni. Musiche di Walter Sguazzin
Ghana
Si è spento ieri all’età di 73 anni l’ex presidente del Ghana Jerry Rawlings. Per due decenni era stato alla guida del Paese, dal 1981 al 2001. La sua morte giunge a meno di un mese dalle elezioni, in calendario per il prossimo dicembre, alle quali è candidata la moglie.
Giunto al potere con un colpo di stato nel 1979, ha però poi guidato il Paese ristabilendo le libertà democratiche e cedendo il potere al governo civile di Limann. Scontento della sua gestione, che riteneva corrotta, lo rovescia nel 1981 mettendosi alla guida del Paese. Viene adottata una nuova costituzione, ristabilito multipartitismo e libertà di stampa. Rawlings è eletto nel 1992 e nel 1996. Proprio la Costituzione gli impedisce di presentarsi per un terzo mandato e così passa il potere in modo pacifico all’inizio del 2001. E basterebbe questo a renderlo un esempio per diversi leaders africani contemporanei. Leader carismatico, conserva l’immagine di rivoluzionario integro, dà battaglia alla corruzione e alla malagestione della cosa pubblica.
«L’Africa ha perduto un pilastro del panafricanismo e un carismatico uomo di stato» ha commentato ieri Moussa Faki Mahamat, il presidente della Commissione dell’Unione Africana. Tre settimane fa era morta a 101 anni sua madre. La moglie, Nana Konadu Agyeman-Rawlings, 72 anni, è candidata alle prossime presidenziali del 7 dicembre.
La notizia giunge a due giorni dalla morte di un altro ex presidente africano, Amadou Toumani Touré, che fu capo di stato in Mali dal 2002 al 2012.
Etiopia
Resta tesa e confusa la situazione in Etiopia. Il primo ministro Abyi Ahmed ha annunciato che la regione settentrionale del Tigray sarebbe stata “liberata” dopo una settimana di combattimenti. Le Nazioni Unite invece lanciano l’allarme sulla difficile situazione umanitaria, che si sta deteriorando ogni giorno di più. Con i media e le comunicazioni bloccati, è estremamente difficile una verifica indipendente sulla situazione nel Tigray. Pare che i combattimenti sul terreno stiano proseguendo su entrambi i versanti, così come i bombardamenti di siti strategici quali depositi di armi e carburante, con vittime il cui numero resta difficile da stabilire. Il governo pare non volersi fermare fino a che il TPLF (Tigray People’s Liberation Front) non sarà disarmato.
Secondo Amnesty, le vittime potrebbero essere centinaia e afferma di aver compiuto una «verifica digitale di foto e video raccapriccianti di corpi sparsi per la città o portati via», aggiungendo che si tratterebbe di civili. Sempre secondo Amnesty, testimoni parlano di ferite da arma da taglio, e in alcuni casi gli attacchi sarebbero stati compiuti da forze leali al TPLF.
The United Nations has expressed concerned at the developing refugee crisis developing in the Ethiopia. The countries military declared has defeated local forces in the west of Tigray state, according to Prime Minister Abiy Ahmed on Thursday. Adam Reed reports. pic.twitter.com/hBKMxzEBy5
— Reuters Africa (@ReutersAfrica) November 12, 2020
Intanto, il ministro della Difesa etiope, Kenea Yadeta, ha negato le accuse mosse martedì dal presidente tigrino, secondo cui l’Eritrea starebbe sostenendo l’Etiopia contro il Tigray People’s Liberation Front. Preoccupa anche la situazione dei rifugiati: potrebbero essere anche 200 mila a decidere di spostarsi in Sudan. Unione Europea, Unione Africana e altri hanno chiesto al premier Ahmed di raggiungere un immediato cessate-il-fuoco e di fermare l’escalation, per non destabilizzare ulteriormente il Corno d’Africa.
Sudan
Sono almeno undicimila gli etiopi che nelle ultime 48 ore hanno varcato il confine con il Sudan. L’Alto Commissariato per i Rifugiati si attende una fuga di massa. Per ora la maggior parte degli sfollati si concentra attorno alla città frontaliera di Hamdaiyet, in Sudan, sulla tripla frontiera fra Sudan, Etiopia ed Eritrea.
A piedi o su camion dell’esercito sudanese, migliaia di sfollati entrano in territorio sudanese. Alcuni hanno camminato per giorni. La Commissione sudanese per i rifugiati teme che, se le ostilità continueranno, almeno duecentomila persone possano affluire in Sudan.
Angola
La polizia angolana ha sparato con proiettili veri e con gas lacrimogeni contro le proteste giovanili. È avvenuto mercoledì nella capitale Luanda. Le proteste proseguono da settimane in Angola, contro la povertà e contro il governo, a causa anche dell’altissimo tasso di disoccupazione, del costo della vita e della corruzione dilagante. I manifestanti chiedono anche lo svolgimento delle elezioni locali, rimandate a causa della pandemia.
Burkina Faso
14 soldati burkinabé sono stati uccisi mercoledì in un’imboscata da parte di probabili jihadisti dello Stato Islamico. Il fatto si verifica quando manca poco più di una settimana al voto, previsto per il 22 novembre.
Egitto
Otto peacekeepers sono morti nella caduta di un elicottero nella penisola del Sinai. Si tratta di sei statunitensi, un francese e un ceco, tutti militari. Si sarebbe trattato di un guasto meccanico all’apparecchio. I militari facevano parte della Multinational Force and Observers (MFO), installata per monitorare la smilitarizzazione del Sinai durante gli accordi di pace fra Egitto e Israele nel 1979.
Mozambico
Di fronte alla negazione della nuova strage di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, le Nazioni Unite chiedono alle autorità un’indagine seria e imparziale. Sarebbero almeno cinquanta le vittime dell’ultimo attacco di milizie islamiste legate all’ISIS, fra cui donne e bambini. Decapitati. Il segretario generale António Guterres è intervenuto personalmente per chiedere indagini. Sarebbero oltre duemila le vittime della violenza jihadista scatenatasi nel nord del Mozambico dal 2017. Intanto, in rete in molti gridano allo scandalo per l’insufficiente copertura mediatica mondiale dei fatti, paragonandola con le vittime francesi o austriache per le quali si sono versati fiumi d’inchiostro.
Islamists behead more than 50 people on a football pitch in #Mozambique. Yes, that's 50, not just two like in France. Africans are children of lesser Gods, isn't it? https://t.co/OZklCxZwqS
— Tarek Fatah (@TarekFatah) November 10, 2020
Costa d’Avorio
Sono almeno una dozzina le vittime di questa settimana in Costa d’Avorio, cui si sommano decine di feriti, in diverse località centro-orientali del Paese. Da agosto, sono state uccise oltre cinquanta persone a causa delle violenze politiche. Secondo l’UNHCR, migliaia di ivoriani si sono rifugiati oltre confine, in Liberia, Ghana, Guinea e Togo.
Dopo le elezioni del 31 ottobre, che hanno confermato per la terza volta Alassane Ouattara, la situazione resta tesa. Intanto, mercoledì 11 novembre Ouattara ha incontrato il presidente della coalizione dell’opposizione, Henri Konan Bédié. «Abbiamo convenuto che la pace è la cosa più cara per entrambi e per tutti gli ivoriani», ha dichiarato il presidente al termine, senza ulteriori dettagli. I due non si incontravano da oltre due anni.
Guinea
Anche in Guinea la situazione post-elettorale resta tesa. Dopo la rielezione dell’ottantaduenne Alpha Condé, la polizia ha lanciato un’operazione contro i politici e gli attivisti dell’opposizione. Arrestato il vicepresidente del principale partito di opposizione, l’Union of Democratic Forces of Guinea (UFDG). Oltre cento i fermati, per lo più attivisti.
Sudafrica
Ace Magashule, segretario generale dell’ANC, lo storico African National Congress di Mandela, partito attualmente al potere in Sudafrica, è stato arrestato con l’accusa di corruzione. Voci di un possibile mandato d’arresto si rincorrevano da settimane. Si tratta di un affare di contratti pubblici risalente a quando era ancora governatore della provincia di Free State. I fatti risalgono al 2014 e riguardano un contratto per la rimozione dell’amianto in un quartiere povero, per un ammontare di 15 milioni di dollari.
Repubblica del Congo
«Davanti al silenzio vergognoso e di indifferenza delle autorità competenti ci sentiamo abbandonati. Ma abbiamo la speranza che tutto il mondo, in nome dell’umanità che condividiamo, ascolti il nostro messaggio e ciascuno possa fare qualcosa per cambiare questa situazione. Qui la povera gente soffre e viene ammazzata, senza che ci sia una voce che consoli e metta fine a questo calvario che stiamo vivendo da anni». L’accorato appello giunge da mons. Melchisedech Sikuli Paluku, vescovo di Butembo-Beni, nella martoriata regione del Nord Kivu. Il prelato ha diffuso un videomessaggio, dopo l’ennesimo massacro di civili: 19 persone massacrate lo scorso fine settimana in una parrocchia. «Solo in un anno si calcolano quasi un migliaio di persone trucidate. I media del nostro Paese non ne parlano – aggiunge mons. Sikuli −. L’impressione che la popolazione ha di fronte a questa situazione è che lo Stato non esista».
Ricordando che i massacri si ripetono dal 2014, il vescovo afferma che per le autorità «conta la spartizione del potere e non la protezione della popolazione. Così siamo stati spinti a mandare al di fuori del nostro Paese questo video che esprime la sofferenza di tutti noi. Presentiamo questa nostra sofferenza che dura da troppo tempo ma con la speranza che il nostro grido sia ascoltato». Infine, l’auspicio che «anche nel nostro Paese il nostro governo si impegni per mettere fine a questo calvario».
Il CEPADHO (Centre d’Etude pour la Promotion de la Paix, la Democratie et les Droits de l’Homme), che da tempo monitora e denuncia i fatti con rapporti puntuali, registra almeno 1.030 civili massacrati dalle presunte ADF nel corso degli ultimi 12 mesi. L’Organizzazione rinnova l’appello all’esercito e ai caschi blu della MONUSCO per un rinnovato impegno nella lotta contro i gruppi armati.
Burundi
Il segretario generale dell’ONU ha reso pubblico, martedì 10 novembre, un rapporto molto atteso in Burundi. Il rapporto è volutamente morbido, per salvaguardare il dialogo con il potere. Giunge a seguito di una missione d’alto livello che nel settembre scorso si era recata in Burundi per monitorare la situazione sotto la nuova presidenza di Évariste Ndayishimiye.
Antonio Guterres raccomanda al Consiglio di sicurezza di mantenere lo status quo fino al 2021 e giudica il processo elettorale dello scorso maggio come «nel complesso pacifico». Una posizione diplomatica che ha scontentato le opposizioni. Il Paese è infatti tutt’ora luogo di numerose pesanti violazioni dei diritti umani.
Nigeria
Sono trascorsi 25 anni da quel 10 novembre 1995, quando l’attivista Ken Saro-Wiwa veniva impiccato dal governo centrale per la sua lotta in difesa del delta del Niger dall’inquinamento da petrolio. «Accuso Shell di razzismo perché quello che fa in Nigeria, e nella terra Ogoni, non lo farebbe in altre parti del mondo»: questa l‘accusa che Ken Saro-Wiwa lanciò davanti ai giudici che lo condannarono all’impiccagione, dopo lunghi giorni di detenzione e di torture psicologiche e fisiche, in una caserma di Port Harcourt in Nigeria. Con lui furono impiccati 8 suoi compagni.
Scriveva nel suo testamento:
«Signor Presidente, tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali e intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale. Non siamo sotto processo solo io e i miei compagni. Qui è sotto processo la Shell. Ma questa compagnia non è oggi sul banco degli imputati. Verrà però certamente quel giorno e le lezioni che emergono da questo processo potranno essere usate come prove contro di essa, perché io vi dico senza alcun dubbio che la guerra che la compagnia ha scatenato contro l’ecosistema della regione del delta sarà prima o poi giudicata e che i crimini di questa guerra saranno debitamente puniti. Così come saranno puniti i crimini compiuti dalla compagnia nella guerra diretta contro il popolo Ogoni».
Sono trascorsi venticinque anni, ma tali parole paiono scritte oggi.
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