19 agosto 2019 – Notiziario in genere
Scritto da Radio Bullets in data Agosto 19, 2019
Nove mesi senza Silvia Romano: comincia oggi il processo a uno dei tre uomini arrestati dalla polizia keniota. In Argentina, le poliziotte si rifiutano di reprimere le marce femministe. «Non è un crimine manifestare per la sicurezza e lo sradicamento della violenza contro noi donne». Adolescenti stuprate in Messico: le donne protestano contro la violenza della polizia. E infine: l’intervista diventata virale a Mia Khalifa, ex attrice pornografica libanese naturalizzata statunitense. Questo e molto altro nel webnotiziario in Genere, a cura di Lena Maggiaro e con la voce al microfono di Barbara Schiavulli
Soundtrack: Matshikos – We miss you / Helen Reddy – I am a woman / Cameron Blackard – The scars of your past
Nove mesi senza Silvia
Il 20 agosto saranno 9 mesi dalla sparizione della giovane cooperante italiana Silvia Romano a Chakama, villaggio del Kenya a 80 chilometri da Malindi. Era il 20 novembre del 2018. Silvia Romano, ricostruisce l’Agi, inseguiva un sogno, maturato qui in Italia, e diventando realtà in Kenya dove si è impegnata laddove i bisogni sono più urgenti, con una attenzione ai più deboli. Di lei non si sa più nulla. Le autorità competenti italiane continuano a ribadire che il silenzio di questi mesi non deve ingannare, non deve far pensare che le autorità non si muovano, perché le attività di ricerca e di indagine continuano.
E oggi, lunedì 19 agosto, inizia anche il processo a Ibrahim Adan Omar, uno dei tre arrestati dalla polizia keniota e membro del commando – 8 persone, secondo gli inquirenti – che hanno messo in atto il sequestro della giovane volontaria italiana. L’uomo, al momento dell’arresto è stato trovato in possesso di un fucile mitragliatore Ak 47 e di numerose munizioni.
Da molti parti si levano voci – dall’opinione pubblica alla società civile – affinché si apra qualche squarcio di speranza. E tra le tanti voci, scrive ancora l’Agi, che anche in questi giorni si sono fatte sentire, c’è quella di Nino Sergi, presidente onorario e fondatore di Intersos, una organizzazione umanitaria che opera nei contesti di crisi. Il presidente di Intersos ha inviato una lettera aperta al generale Luciano Carta, responsabile dell’Aise, il servizio di intelligence estero. “Sono passati ormai 9 mesi e di Silvia Romano non abbiamo alcuna certezza – scrive Sergi – Siamo convinti che lo Stato, ed in particolare l’Agenzia da lei diretta e l’unità di crisi della Farnesina, stiate facendo il possibile per la sua ricerca e liberazione, così come per altre persone italiane rapite nel mondo, nella riservatezza che deve in ogni caso essere mantenuta”.
Ecco perché chiede di “rafforzare ulteriormente l’impegno della sua Agenzia affinché siano accelerate, per quanto possibile e in sicurezza, le azioni che riteniamo stiate mettendo a punto per la sua liberazione”. A Sergi, innanzitutto sta a cuore la liberazione della giovane volontaria italiana, ma la sua richiesta di “rafforzamento dell’impegno” – e di rottura del silenzio – delle autorità italiane ha anche un’altra valenza, che lui spiega nella sua lettera aperta: “Anche per fermare scomposte dicerie e iniziative di disturbo che potrebbero ulteriormente complicare la situazione. Siamo infatti preoccupati dei rischi che possono aumentare con il passare dei giorni”.
Le poliziotte argentine
In Argentina, le poliziotte si rifiutano di reprimere le marce femministe. «Non è un crimine manifestare per la sicurezza e lo sradicamento della violenza contro noi donne» dichiarano in un comunicato tradotto in italiano da Dinamo Press.
Sono guidate dall’ufficiale principale di Santa Cruz, Gabriela Macías. Hanno annunciato che la rete che costruiranno sarà volta a «fermare abusi e violazioni contro di noi all’interno delle istituzioni». Il documento, si legge su DinamoPress, è destinato al Ministero della Sicurezza della Nazione [il corrispettivo del Ministero degli Interni italiano]. Contestualmente, chiederanno di non essere inviate ai cortei femministi poiché «non è un reato manifestare per la sicurezza e lo sradicamento della violenza contro noi donne. Riteniamo che non debba essere inviata né la polizia maschile né quella femminile, perché chiedere la cessazione della violenza non è un reato e la nostra presenza non è necessaria. E, se saremo presenti, sarà per alzare il cartello Non Una Di Meno meno, accompagnando, mai reprimendo», si afferma nel comunicato. «Accompagnando, mai reprimendo».
#Argentina, poliziotte si rifiutano di reprimere marce femministe: «In piazza solo per dire #NiUnaMenos»https://t.co/aXiZCImXgq pic.twitter.com/cwdZe8BhdQ
— DinamoPress (@DinamoPress) August 17, 2019
Nella lettera, affermano di essere «totalmente contrarie alla repressione delle organizzazioni femministe» e avvertono: «di fronte a qualsiasi episodio di violenza saremo sempre dalla parte delle donne che sono state represse e chiediamo che denuncino gli abusi di potere». «Non tutte siamo poliziotte per vocazione, alcune lo sono per caso, altre per la povertà, altre perché siamo entrate come psicologhe professioniste e sociologhe, e tutte insieme stiamo dando vita a questa rete», si legge. «Siamo lavoratrici. Il nostro compito non è quello di reprimere ma di formarci e promuovere, in quanto donne, una maggiore prospettiva di genere nelle forze di sicurezza», conclude.
Proteste in Messico
Adolescenti stuprate in Messico: le donne protestano contro la violenza della polizia. Centinaia di donne sono scese in piazza a Città del Messico la settimana scorsa per chiedere protezione alla polizia dopo una serie di recenti casi di violenza sessuale di alto profilo che hanno coinvolto ufficiali. Lo riporta, tra gli altri, la BBC.
La manifestazione, inizialmente pacifica, si è conclusa con alcune manifestanti che hanno appiccato un incendio al secondo piano di un edificio della polizia e hanno vandalizzato una stazione degli autobus.
Le proteste sono state scatenate da due casi recenti: quello di una diciassettenne che ha affermato che quattro poliziotti l’hanno violentata nella loro auto di pattuglia e quello di una sedicenne che ha affermato che un poliziotto l’ha violentata in un museo.
La vita dopo la pornografia
Mia Khalifa, scrive Vice, ex attrice pornografica libanese naturalizzata statunitense, è uno dei più grandi ‘misteri’ dell’industria pornografica degli ultimi anni. È stata nel settore soltanto per tre mesi, alla fine del 2014, e ha girato soltanto 12 scene, ma nonostante questo ancora oggi rimane una delle performer più cercate sui principali aggregatori. Da cinque anni ha completamente abbandonato il porno, e da allora si è sempre mostrata restia a rilasciare dichiarazioni sul suo passato. Almeno fino allo scorso 4 agosto, quando sul canale YouTube della sua life coach, Megan Abbott, è stata caricata una lunga intervista in cui Khalifa sviscera ogni aspetto di quella decisione.
«La scelta di non parlare del mio passato ha danneggiato il mio futuro più che se avessi raccontato tutta quanta la verità, spiega Mia. L’intervista è diventata virale, visto che Khalifa ancora oggi è una delle attrici più cercate sugli aggregatori nonostante la fugacità della sua carriera. Ma anche, prosegue Vice, per la descrizione piuttosto negativa che l’ex pornostar dà della sua esperienza nel settore, e del modo in cui la pornografia le ha complicato la vita e distrutto l’autostima. «Il più grande errore della mia vita”: è così che Khalifa descrive quel periodo, per poi aggiungere: «In realtà, l’errore più grande è stato sfuggire a quella parte della mia vita anziché raccontarla per come è stata.”
Molte delle testate che hanno coperto la notizia si sono concentrate sull’aspetto economico delle dichiarazioni di Khalifa—che ha rivelato di aver guadagnato soltanto 12.000 dollari nonostante tutti la credano milionaria—ma le questioni esaminate sono più ampie, sottolinea Vice.
Dopo aver ripercorso l’infanzia e l’adolescenza—le discriminazioni subite dopo l’11 settembre per le origini libanesi, la voglia di ribellarsi a una famiglia che non si adattava allo stile di vita americano, i problemi nell’accettare il proprio fisico—Khalifa racconta del modo inconsapevole e rapido con cui è entrata in contatto con l’industria del porno. Nel 2014 si era trasferita a Miami, e un talent scout l’aveva notata per strada, lasciandole l’indirizzo di un’agenzia che gestiva pornostar, si legge ancora su Vice.
Deliberately not talking about my past has hurt my future more than speaking my truth ever could. I’m ready to shed light on every questionable moment from my past, because if I own it, it can’t be used against me. https://t.co/xHK7SmhfrY pic.twitter.com/BSITEE2clX
— Mia K. (@miakhalifa) August 8, 2019
Dopo un paio di mesi, Mia girò la scena che l’ha resa iconica nel mondo del porno: un video in cui fa sesso indossando un hijab. Khalifa proviene da una famiglia cattolica, ma per i produttori aveva poca importanza: i suoi lineamenti erano una rarità per l’industria, e volevano capitalizzarli. «Già prima di quella scena ero preoccupata del modo in cui stava cambiando la mia vita , perché alcuni amici avevano scoperto che facevo porno, ma dopo quel video le cose sono degenerate. Tutti i media nazionali e internazionali ne parlavano, sono stata ricoperta di critiche, alcuni paesi musulmani mi hanno messo nella lista delle persone non gradite, e l’ISIS ha pubblicato un mio fotomontaggio con la testa mozzata.”
Nonostante avesse abbandonato il porno subito dopo quella scena, l’attenzione attorno a lei cresceva. Racconta di quanto sia stato difficile trovare un nuovo impiego e di quanto fosse difficile avere una vita sociale normale. «Per anni mi sono rinchiusa in casa. Pensavo: ‘questa persona sconosciuta mi ha visto nuda, e adesso si aspetta di avere un contatto con me solo perché ho fatto la pornostar’. Col tempo la mia più grande paura è diventata quella di non riuscire ad essere altro se non l’ex pornostar.”
L’intervista prosegue spiegando come Mia stia cercando di venire fuori da questa situazione, con la terapia e il lavoro (da anni si occupa di commento sportivo), ma le sue dichiarazioni hanno scatenato diverse polemiche. Alcuni ritengono che stia mentendo sui guadagni ottenuti grazie al porno—e altre, conclude Vice, sul modo in cui ha parlato della pornografia come qualcosa di cui “pentirsi”.
Ecco l’intervista completa
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