20 agosto 2025 – Notiziario Mondo
Scritto da Barbara Schiavulli in data Agosto 20, 2025
- Hamas accetta la proposta di cessate il fuoco, pressioni su Israele. Un altro giornalista ucciso a Gaza dai soldati israeliani. Trump definisce Netanyahu un eroe, e anche se stesso.
- Burkina Faso: dichiarata la coordinatrice delle Nazioni Unite persona non grata.
- Iran, confermata la condanna a morte di un’attivista sindacale. Mentre a Cuba, liberato il dissidente Virgilio Arango.
- Record di operatori umanitari uccisi nel 2024, Gaza e Sudan epicentro degli attacchi.
- El Salvador: a scuola in uniforme.
- Oxford: attacco islamofobo ad una moschea con testa di maiale e bandiera israeliana.
- Afghanistan: autobus contro camion, muoiono 70 deportati dall’Iran
Introduzione al notiziario: La messa in scena della pace
Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets a cura di Barbara Schiavulli
Israele e Palestina
■ OSTAGGI/CESSATE IL FUOCO: Un alto funzionario politico israeliano (una designazione spesso usata dal primo ministro Netanyahu) ha affermato che Israele “chiede il rilascio di tutti i 50 ostaggi secondo i principi stabiliti dal governo per porre fine alla guerra”, ma non ha respinto esplicitamente la proposta di cessate il fuoco accettata da Hamas lunedì.
Il Ministero degli Esteri del Qatar ha affermato che la proposta di cessate il fuoco accettata da Hamas è ” quasi identica ” a quella presentata di recente dall’inviato statunitense per il Medio Oriente Steve Witkoff.
Un alto funzionario di Hamas, Taher al-Nono, ha dichiarato al quotidiano qatariota Al-Arabiya che la proposta include garanzie statunitensi per porre fine alla guerra.
Una fonte egiziana ha confermato a Reuters che la proposta delinea un percorso verso un accordo globale e include un cessate il fuoco di 60 giorni insieme al rilascio graduale degli ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi.
L’Hostages and Missing Families Forum ha affermato che “il popolo… non permetterà al Primo Ministro di sabotare un altro accordo. Netanyahu, il popolo ha deciso: ostaggi, subito! È ora di riportare tutti a casa e porre fine a questo incubo”.
Alcuni membri di estrema destra della coalizione di governo israeliana hanno escluso un accordo di ostaggi proposto con Hamas, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu non ha ancora espresso la sua posizione.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha elogiato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu definendolo un “eroe di guerra”, nonostante il leader israeliano sia ricercato dalla Corte penale internazionale (CPI) per crimini di guerra a Gaza.
“È un brav’uomo. È lì dentro a combattere… È un eroe di guerra, perché abbiamo lavorato insieme. È un eroe di guerra. Credo di esserlo anch’io”, ha detto Trump martedì in un’intervista al conduttore radiofonico conservatore Mark Levin.
■ GAZA: Il Ministero della Salute guidato da Hamas ha dichiarato che 58 palestinesi sono stati uccisi e 343 feriti dal fuoco israeliano nelle ultime 24 ore, portando il bilancio delle vittime nella Striscia dall’inizio della guerra a 62.064.
Un altro giornalista palestinese è stato ucciso dal fuoco israeliano a Gaza. Islam al-Koumi, collaboratore di diverse testate, ha perso la vita lunedì notte quando la sua casa, nel quartiere di Sabra a Gaza City, è stata bombardata da caccia israeliani.
Secondo l’Ufficio stampa del governo di Gaza, il bilancio dei giornalisti palestinesi uccisi dall’inizio della guerra, nell’ottobre 2023, sale così a 239. Le autorità di Gaza parlano di una “assassinio sistematico” dei reporter da parte di Israele e chiedono alle istituzioni internazionali di intervenire.
L’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che “nelle ultime settimane, le autorità israeliane hanno consentito l’ingresso di aiuti solo in quantità ben al di sotto di quelle necessarie per evitare una carestia diffusa “, aggiungendo che il rischio di carestia a Gaza era “una conseguenza diretta della politica del governo israeliano di bloccare gli aiuti umanitari”.
La Gaza Humanitarian Foundation, sostenuta dagli Stati Uniti, ha annunciato un nuovo programma pilota che consentirà alle famiglie di Gaza di prenotare in anticipo i pacchi di aiuti, affermando che i beneficiari idonei saranno invitati da un “operatore locale qualificato” a partecipare al programma pilota, che secondo la GHF mira a “rendere più semplice, dignitoso e ordinato” il processo di raccolta.
GIORDANIA: Il primo ministro giordano Jafar Hassan ha definito martedì la cosiddetta visione del “Grande Israele” un’“illusione”, sottolineando che Tel Aviv è “isolata” a causa delle sue politiche “estremiste”.
■ AUSTRALIA: Il Ministro degli Esteri australiano Penny Wong ha condannato la decisione di Israele di impedire ai funzionari australiani di visitare la Cisgiordania dopo che le autorità australiane hanno revocato lunedì il visto d’ingresso nel paese al parlamentare israeliano di estrema destra Simcha Rothman, aggiungendo che “in un momento in cui dialogo e diplomazia sono più che necessari.
Tuttavia, il governo Netanyahu sta isolando Israele e minando gli sforzi internazionali verso la pace e una soluzione a due stati.”
Dopo la dichiarazione di Wong, Netanyahu ha attaccato il primo ministro australiano Anthony Albanese in un post sul suo account ufficiale X, scrivendo che “la storia ricorderà Albanese per quello che è: un politico debole che ha tradito Israele e abbandonato gli ebrei australiani “.
Operatori umanitari uccisi
Nel 2024 sono stati uccisi 383 operatori umanitari in zone di conflitto: è il numero più alto mai registrato dal 1997. Quasi la metà delle vittime — oltre 180 — si trovava a Gaza, nel pieno del genocidio compiuto da Israele.
Secondo l’ONU, la maggior parte degli uccisi erano operatori locali, attaccati mentre lavoravano o persino nelle loro case. Oltre ai morti, lo scorso anno si sono contati 308 feriti, 125 rapimenti e 45 detenzioni arbitrarie.
Solo a Gaza, uno degli episodi più atroci è avvenuto a Rafah, il 23 marzo, quando 15 medici e soccorritori sono stati uccisi da fuoco israeliano in veicoli chiaramente segnalati: i corpi e le ambulanze sono stati poi sepolti da bulldozer militari.
La mappa della violenza mostra come Gaza e Cisgiordania restino l’epicentro (194 attacchi), seguite dal Sudan (64), Sud Sudan (47), Nigeria (31) e Congo (27). Oltre a Gaza, il Sudan ha visto il peggior aumento: 60 operatori uccisi nel 2024, più del doppio rispetto all’anno precedente.
Crescono anche i numeri in Libano, Etiopia, Siria e Ucraina.
Il capo umanitario dell’ONU, Tom Fletcher, ha definito questi attacchi “un atto di accusa vergognoso contro l’inerzia e l’apatia internazionale”, ribadendo che proteggere civili e soccorritori non è un’opzione, ma un obbligo.
Il dato record non è solo una cifra: è la fotografia di un mondo in cui le leggi di guerra e la protezione degli operatori umanitari vengono sistematicamente calpestate.
Gaza e Sudan incarnano il crollo di ogni limite, ma la tendenza è globale e in crescita. La maggior parte delle vittime sono operatori locali, invisibili all’opinione pubblica, sacrificati in silenzio.
La retorica della comunità internazionale stride con la mancanza di responsabilità e conseguenze per chi commette questi crimini. È il segnale di un sistema multilaterale sempre più svuotato, incapace di garantire nemmeno la sicurezza di chi lavora per salvare vite.
Iran
La Corte Suprema iraniana ha confermato la condanna a morte di Sharifah Mohammadi, attivista del lavoro di 37 anni. Solo un anno fa, la stessa corte aveva annullato la sentenza per mancanza di prove.
Mohammadi, arrestato nel dicembre 2023, è accusato di “ribellione armata” per presunta appartenenza a un gruppo di opposizione. Il suo avvocato, Amir Raeesian, ha annunciato che continuerà a chiedere un nuovo processo.
Secondo l’organizzazione per i diritti umani Hengaw, nei primi sei mesi del 2025 l’Iran ha già eseguito almeno 617 esecuzioni, tra cui quelle di 18 donne e un minore.
Burkina Faso
Il governo del Burkina Faso ha dichiarato “persona non grata” la coordinatrice residente delle Nazioni Unite, Carol Flore-Smereczniak.
La decisione arriva dopo la pubblicazione di un rapporto ufficiale dell’ONU che accusa tanto i gruppi jihadisti quanto le forze governative di abusi contro i minori.
Il documento — intitolato Children and Armed Conflict in Burkina Faso e pubblicato ad aprile — documenta oltre 2.400 gravi violazioni tra il luglio 2022 e il giugno 2024: bambini reclutati come soldati, vittime di violenze sessuali, scuole e ospedali presi di mira. Il governo respinge però queste accuse, definendole prive di prove e basate su informazioni “false e infondate”.
Da oltre dieci anni il Paese combatte un’insurrezione jihadista, insieme a Mali e Niger.
I tre Stati, dopo i recenti colpi di Stato militari, hanno intrapreso una rotta di distacco dall’Occidente, cercando al contempo di controllare le proprie ricche risorse minerarie.
La cacciata della rappresentante ONU non è solo una reazione a un rapporto scomodo: è anche un atto politico.
Le giunte militari del Sahel, sempre più insofferenti alle ingerenze esterne, utilizzano lo scontro con le organizzazioni internazionali per rafforzare la propria legittimità interna e presentarsi come difensori della sovranità nazionale.
Chi protegge davvero i bambini in un conflitto in cui sia i jihadisti sia le forze governative vengono accusati di violenze sistematiche?
Nigeria
Almeno 13 fedeli sono stati uccisi martedì da un gruppo di uomini armati in una moschea nello Stato di Katsina, nel nord-ovest della Nigeria. L’attacco è avvenuto durante le preghiere del mattino.
Secondo le autorità locali, si è trattato di una rappresaglia: due giorni fa, la comunità di Unguwan Mantau aveva teso un’imboscata ai cosiddetti bandits, uccidendone diversi. In risposta, i miliziani hanno colpito i civili nel momento di maggiore vulnerabilità.
Il governo statale ha inviato esercito e polizia per “ripristinare la normalità”, annunciando operazioni aeree e terrestri per stanare i banditi, che durante la stagione delle piogge si nascondono nei campi di coltivazioni. Sono arrivate anche le condoglianze ufficiali alle famiglie delle vittime.
Il banditismo nel nord-ovest e nel centro della Nigeria è ormai una vera e propria guerra non dichiarata: villaggi attaccati, rapimenti per riscatto, razzie sistematiche. La strage di Katsina mostra la dinamica brutale delle vendette, dove le comunità locali, spesso abbandonate a sé stesse, scelgono di difendersi da sole, rischiando poi sanguinose ritorsioni.
Nonostante le promesse del presidente Bola Tinubu di colpire duramente banditi e terroristi, la capacità dello Stato di garantire sicurezza rimane fortemente messa in discussione.
Regno Unito
La comunità musulmana di Oxford si è detta “con il cuore spezzato” dopo un presunto crimine d’odio avvenuto nella notte tra lunedì e martedì.
Un uomo con tuta grigia e passamontagna è stato visto scavalcare il cancello della Central Oxford Mosque: ha attaccato carne di maiale sulle maniglie delle porte e affisso una bandiera israeliana sulla porta centrale.
La sicurezza interna ha allertato la polizia, ma l’aggressore era già fuggito. Sul posto è arrivata la scientifica per raccogliere prove, mentre volontari e l’Imam hanno subito “purificato e ripulito” l’ingresso.
I fiduciari della moschea hanno definito l’atto un “crimine d’odio codardo”, ricordando che già lo scorso anno un contenitore di benzina con la scritta “IDF” era stato lanciato oltre il cancello.
Hanno invitato i residenti a controllare telecamere e videocitofoni e a mantenere la calma: “I crimini d’odio cercano la divisione, noi restiamo uniti”.
L’episodio di Oxford è un esempio del clima crescente di islamofobia e polarizzazione legata al conflitto in Medio Oriente.
L’uso di simboli — il maiale come insulto alla fede musulmana, la bandiera israeliana in un contesto di guerra a Gaza — mostra come le tensioni globali vengano importate e strumentalizzate per colpire comunità locali vulnerabili.
Per le moschee europee, la minaccia non è più episodica ma sistematica, con il rischio di normalizzare attacchi simbolici e intimidazioni che alimentano paura e sfiducia.
La richiesta di “restare uniti” diventa così non solo un appello alla comunità musulmana, ma un messaggio più ampio contro la spirale dell’odio.
Russia e Ucraina
Dopo il vertice del Presidente Trump con il Presidente Vladimir Putin della scorsa settimana e l’incontro di lunedì con il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky e diversi leader dell’UE, il prossimo passo più probabile saranno ulteriori incontri.
I colloqui di lunedì alla Casa Bianca hanno prodotto pochi segnali pubblici di progressi verso la pace in Ucraina.
Trump ha dichiarato di volersi concentrare sull’organizzazione di un incontro tra Putin e Zelensky.
Putin si è detto disposto a parlare con il leader ucraino, sebbene il Cremlino non abbia rilasciato alcuna conferma formale , e ieri il ministro degli Esteri russo ha raffreddato la possibilità di qualsiasi colloquio, secondo i media statali.
Dopo aver lasciato lo Studio Ovale, Zelensky ha affermato: “C’è ancora molto lavoro da fare”.
Zelensky ha affermato che l’Ucraina riceverà 90 miliardi di dollari in armamenti americani , inclusi sistemi di difesa aerea e aerei da guerra di cui c’è un disperato bisogno.
Non è ancora chiaro come l’Ucraina li pagherà. È probabile che gran parte del conto sarà a carico dei paesi europei e degli alleati della NATO.
Gli incontri alla Casa Bianca si sono conclusi senza un accordo formale sulla sicurezza ucraina, e i leader europei si sono affrettati a capire esattamente come sarebbe stato strutturato .
Trump ha affermato che nessuna truppa americana di terra sarebbe stata inviata in Ucraina, ma che gli Stati Uniti avrebbero potuto fornire supporto in altri modi, come il supporto aereo.
Ma senza truppe statunitensi sul terreno, non è chiaro quanto l’America possa scoraggiare la Russia .
Il Primo Ministro britannico Keir Starmer ha chiesto l’invio di una forza internazionale in Ucraina, che potrebbe contare da centinaia a decine di migliaia di soldati.
Trump ha suggerito che la Russia accetterà l’invio di truppe europee, sebbene la Russia abbia spesso respinto l’idea .
Zelensky e altri leader europei hanno imparato a lavorare con Trump. Invece di essere rimproverati e invitati ad andarsene, come è successo a Zelensky durante una visita alla Casa Bianca all’inizio di quest’anno, ha ricevuto un caloroso benvenuto, promesse di vendita di armi dagli Stati Uniti e maggiori sforzi per mediare un incontro faccia a faccia con Putin.
Cuba
Il noto dissidente cubano Virgilio Mantilla Arango, fondatore di una associazione per i diritti umani e attivista nella città di Camagüey, è stato liberato nelle scorse ore dalle autorità dopo aver scontato una pena a quattro anni di prigione per aver partecipato alle proteste dell’11 luglio del 2021 contro il governo castrista.
Lo riferisce la ong Osservatorio Cubano per i Diritti Umani sottolineando che Arango ha trascorso la detenzione “in condizioni inumane” nonostante le “costanti” denunce e le richieste dei familiari.
La ‘dama in bianco’ Leticia Ramos Herrería ha attivato sui social una catena di aiuti per Arango sostenendo che “è appena stato liberato e si trova nella peggiore delle miserie senza neanche un telefono per comunicare”.
Colombia
La Sala penale del Tribunale superiore di Bogotá ha ordinato la liberazione immediata dell’ex presidente colombiano Álvaro Uribe Vélez, annullando la detenzione domiciliare disposta il primo agosto scorso.
Uribe era stato condannato in primo grado a 12 anni di carcere per frode processuale e corruzione, ma la Corte ha stabilito che la misura restrittiva non era giustificata, sottolineando che l’ex capo di Stato aveva sempre collaborato con la giustizia e si era difeso in libertà.
La decisione arriva dopo un’azione di tutela presentata dalla difesa, che ha invocato i diritti fondamentali di libertà, dignità e presunzione di innocenza.
Uribe, figura polarizzante della politica colombiana, torna così libero in attesa dell’appello. La sua condanna era legata a un caso di presunta manipolazione di testimoni contro il senatore Iván Cepeda, che oggi ha commentato: “Rispettiamo la sentenza, ma non la condividiamo”.
La vicenda mette ancora una volta in luce le profonde spaccature della Colombia: da una parte chi considera Uribe il leader che ha affrontato le FARC e garantito sicurezza al Paese, dall’altra chi lo accusa di avere costruito il suo potere intrecciandosi con paramilitari e pratiche illegali.
La sua liberazione alimenterà inevitabilmente il dibattito politico e giudiziario, con riflessi anche sulle prossime sfide istituzionali della Colombia.
El Salvador
In El Salvador, la nuova ministra dell’Istruzione, Scienza e Tecnologia Karla Trigueros ha imposto regole di disciplina rigida alle oltre 5.000 scuole pubbliche del Paese: dal 20 agosto gli studenti dovranno presentarsi con uniformi pulite e tagli di capelli “appropriati”.
La circolare, diffusa ai presidi e pubblicata anche su X, parla di “rafforzamento dell’ordine e della presentazione personale” nelle scuole.
Trigueros, 35 anni, ufficiale dell’Esercito, è stata nominata dal presidente Nayib Bukele solo pochi giorni fa, tra le critiche dei sindacati degli insegnanti che denunciano una progressiva militarizzazione dell’istruzione.
Il presidente, invece, difende la scelta: secondo lui la ministra ha la missione di preparare le nuove generazioni a raggiungere “i più alti standard qualitativi del nuovo El Salvador”. Da quando ha assunto l’incarico, Trigueros ha visitato diverse scuole indossando la divisa mimetica militare.
Le nuove disposizioni non riguardano solo l’ordine esteriore: segnano un passo ulteriore nel progetto di Bukele di imporre una disciplina militare come modello sociale.
Dopo aver trasformato la sicurezza pubblica in una campagna di guerra permanente alle gang, ora il controllo arriva nelle aule, dove si forma il futuro del Paese.
La critica principale è che questa visione riduce la scuola a strumento di addestramento, soffocando pluralismo, autonomia educativa e libertà individuale.
L’immagine della ministra in uniforme nelle classi diventa così il simbolo di un El Salvador che affida anche l’istruzione alla logica del comando e dell’obbedienza.
Argentina
A quasi due anni dall’inizio del suo mandato, il presidente argentino Javier Milei ha avviato oggi ufficialmente la prima delle otto privatizzazioni previste dalla “Legge Base” approvata dal Parlamento nel giugno 2024.
La prima azienda a passare in mani private è AYSA, che gestisce la distribuzione dell’acqua potabile e la rete fognaria nell’area metropolitana di Buenos Aires: oltre 15 milioni di persone servite, 3,3 milioni di utenti residenziali e 350 mila non residenziali.
Il governo ha fissato otto mesi per completare la vendita del 90% delle azioni, lasciando il 10% ai dipendenti.
La compagnia, che ha ridotto del 20% il personale sotto Milei, ha chiuso il 2024 con un utile operativo lordo e vede coinvolte aziende italiane come Webuild e CMC Ravenna nei progetti infrastrutturali. La vendita è stimata intorno ai 500 milioni di dollari.
AYSA è solo la prima: seguiranno le privatizzazioni di Enarsa (energia), Nucleoelectrica (centrali nucleari), Trenes Argentinos e Belgrano Cargas (trasporti ferroviari), Corredores Viales (autostrade) e il giacimento di carbone di Río Turbio.
Con questa mossa Milei imprime la svolta più radicale del suo programma ultraliberista: smantellare lo Stato imprenditore e aprire al capitale privato settori strategici, dall’acqua all’energia nucleare.
I sostenitori vedono in questa scelta una via per attirare investimenti e ridurre il peso fiscale, mentre i critici denunciano il rischio di consegnare servizi essenziali al profitto e di peggiorare l’accesso per i cittadini più vulnerabili.
L’acqua, in particolare, è il banco di prova simbolico: trasformare un bene primario in merce segnerà la traiettoria delle privatizzazioni e il grado di conflittualità sociale che accompagnerà il resto del mandato di Milei.
Afghanistan
Almeno 71 persone, tra cui 17 bambini, hanno perso la vita in un terribile incidente stradale nella provincia occidentale di Herat.
Un autobus si è scontrato con un camion e una motocicletta, prendendo subito fuoco: le immagini sui social mostrano il mezzo avvolto dalle fiamme, i passeggeri intrappolati, la gente che assiste impotente.
د اطفايې مسؤلين په ډير ليږ وخت کي د حادثی ځای ته ورسيدل خو متاسفانه په ژغورلو ونه توانيدل pic.twitter.com/cj3RhQc25H
— Ahmadullah Muttaqi | احمدالله متقي (@Ahmadmuttaqi01) August 19, 2025
Secondo le autorità locali, il pullman trasportava afghani deportati dall’Iran, diretti verso Kabul dopo aver attraversato il confine a Islam Qala, uno dei principali punti di passaggio tra i due Paesi.
Si tratta di una delle peggiori tragedie stradali degli ultimi anni in Afghanistan, ma dietro la notizia c’è molto di più. Le strade disastrate, la mancanza di controlli, la scarsità di mezzi sicuri fanno sì che il Paese abbia un altissimo tasso di incidenti mortali.
Ma in questo caso emerge anche un dramma ulteriore: quello dei migranti forzatamente rimpatriati dall’Iran, costretti a viaggi precari e pericolosi dentro un Paese che non ha né infrastrutture né garanzie di sicurezza per accoglierli.
Una tragedia che unisce povertà, deportazioni e abbandono internazionale, e che dimostra come per molti afghani il viaggio verso casa possa essere mortale quanto la fuga.
Pakistan
Il Pakistan continua a fare i conti con la furia del monsone. Secondo la protezione civile, il bilancio delle vittime è salito a 706 morti e quasi 1.000 feriti dall’inizio della stagione il 26 giugno. Solo nelle ultime 12 ore sono state registrate altre 46 vittime.
La provincia più colpita è quella di Khyber Pakhtunkhwa, con 427 morti e 270 feriti: solo negli ultimi cinque giorni le piogge torrenziali e le inondazioni improvvise hanno provocato la morte di 358 persone. Seguono il Punjab con 164 morti e la regione di Azad Jammu e Kashmir con 9 vittime.
Le inondazioni hanno devastato villaggi interi: quasi 3.000 case danneggiate, di cui oltre 1.000 distrutte, e almeno 1.100 capi di bestiame persi, aggravando la crisi economica e sociale del Paese.
India e Cina
Il primo ministro indiano Narendra Modi ha incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, in visita a Nuova Delhi. Sul tavolo, la riduzione delle truppe lungo il confine himalayano e la possibile ripresa del commercio nelle aree contese.
Il dialogo arriva in un momento particolare: da un lato, le relazioni tra India e Stati Uniti attraversano una fase di tensione dopo l’imposizione di pesanti dazi da parte del presidente Trump; dall’altro, Nuova Delhi e Pechino hanno ripreso a parlarsi dopo anni di gelo, aggravato dallo scontro armato del 2020 in Ladakh che costò la vita a decine di soldati.
Nell’ultimo anno, i due Paesi hanno già firmato un accordo sulle pattuglie di confine e ritirato parte dei rinforzi militari, pur continuando a costruire infrastrutture militari e civili nelle zone contese.
Modi e Xi Jinping, dopo l’incontro dello scorso ottobre in Russia, si vedranno nuovamente a fine mese in Cina per il summit della Shanghai Cooperation Organisation: sarà la prima visita di Modi a Pechino dopo sette anni.
Il disgelo tra India e Cina non nasce solo da un improvviso desiderio di pace: è una mossa strategica. Con i rapporti con Washington incrinati, Modi guarda a Pechino per non restare isolato.
Entrambi i giganti asiatici, dentro BRICS e ora anche più vicini nella SCO, cercano di bilanciare la pressione occidentale rafforzando i propri legami regionali. La distensione resta però fragile: la memoria dello scontro in Ladakh pesa ancora, e la corsa alle infrastrutture militari lungo la frontiera mostra che la diffidenza reciproca non è svanita.
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