30 luglio 2025 – Notiziario Mondo

Scritto da in data Luglio 30, 2025

  • Due Ong israeliane accusano Israele di genocidio. L’Olanda dichiara i ministri Ben-Gvir e Smotrich personae non gratae. Il Regno Unito e Malta riconosceranno la Palestina a settembre se Israele non accetta il cessate il fuoco.
  • Venezuela: sale a 25 milioni di dollari la taglia USA su Nicolás Maduro.
  • Angola: quattro morti nelle proteste a Luanda contro il caro carburante.
  • Cina: villaggi intrappolati dalla pioggia, decine di morti.
  • Addio a Joan Anderson, la donna dietro l’invenzione dimenticata dell’hula hoop

Introduzione al notiziario: Quando tutto è geopolitica, nulla lo è davvero
Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets a cura di Barbara Schiavulli

Israele e Palestina

Due delle più importanti organizzazioni israeliane per i diritti umani, B’Tselem e Physicians for Human Rights-Israel (PHR-Israel), hanno pubblicato rapporti distinti ma convergenti in cui accusano il governo israeliano di genocidio contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza.

È la prima volta che organizzazioni israeliane utilizzano questa definizione in modo così esplicito.

Nel suo report di 88 pagine, B’Tselem documenta uccisioni di massa, deportazioni forzate, fame imposta, e il crollo delle infrastrutture civili, inclusi sanità, istruzione e servizi essenziali.

PHR-Israel, in un’analisi legale di 65 pagine, sostiene che il sistema sanitario di Gaza è stato colpito in modo deliberato, con ospedali bombardati, personale medico ucciso o arrestato, e ostacoli all’ingresso degli aiuti.

Secondo il direttore di PHR-Israel, Guy Shalev, già solo la distruzione dei sistemi vitali di salute e sopravvivenza soddisfa i criteri per il genocidio definiti dalla Convenzione ONU, Articolo II(c).

Le due ONG fanno riferimento ai precedenti internazionali, secondo cui l’intento genocida può essere riferito da schemi di condotta, non solo da dichiarazioni esplicite.

Ma nel caso israeliano, le parole non mancano: leader politici e militari hanno più volte definito i palestinesi di Gaza come “animali umani“, sostenendo che “non ci sono civili“.

Tel Aviv ha respinto le accuse come “infondate”. Il portavoce David Mencer ha dichiarato: “Non c’è intento. E senza intento, non c’è genocidio”, sostenendo che Israele ha inviato “1,9 milioni di tonnellate di aiuti”, tra cui alimenti.

Le accuse arrivano mentre è in corso il procedimento presso la Corte Internazionale di Giustizia, avviato dal Sudafrica, che ha già imposto misure cautelari a Israele per prevenire atti genocidi.

La direttrice di B’Tselem, Yuli Novak, ha ricordato che “il genocidio non è solo una questione legale, è un fenomeno sociale e politico. Riconoscere che il proprio Stato lo stia compiendo è uno strappo nell’identità collettiva”.

 Il cuore di questa notizia non è solo nella forza delle accuse, ma nella loro origine.

Due ONG israeliane, da sempre critiche ma interne al sistema, denunciano apertamente che il proprio governo sta commettendo genocidio.

È una frattura morale enorme, che impone una riflessione alla comunità internazionale.

E non solo su Israele, ma su chi ne è complice per inazione o sostegno attivo.

“Non potrebbe accadere senza l’appoggio dell’Occidente”, ha detto Novak. Ecco perché ogni leader che tace o tergiversa è, a suo modo, parte dell’orrore.

■ OSTAGGI/CESSATE IL FUOCO: Si prevede che il Primo Ministro Netanyahu proporrà al gabinetto di sicurezza israeliano un piano per annettere parti di Gaza, nel tentativo di mantenere nel suo governo il Ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich, secondo quanto riferito da fonti ad Haaretz .

 Secondo il piano, Israele dichiarerà di concedere ad Hamas alcuni giorni per accettare un cessate il fuoco prima che inizi l’annessione parziale.

Le fonti hanno affermato che Israele intende innanzitutto annettere la zona cuscinetto all’interno di Gaza, vicino al confine con Israele , seguita dalle aree nel nord di Gaza adiacenti alle città israeliane di Sderot e Ashkelon.

Il processo proseguirà gradualmente fino all’annessione dell’intera Striscia . Secondo i dettagli presentati da Netanyahu nei colloqui con i ministri, il piano ha ricevuto l’approvazione dell’amministrazione Trump.

■ GAZA: Il Ministero della Salute guidato da Hamas ha affermato che 113 palestinesi sono stati uccisi e 637 feriti nelle ultime 24 ore, con 25 morti mentre cercavano di raggiungere aiuti umanitari.

 Il numero di persone uccise a Gaza dall’inizio della guerra ha superato le 60.000 , ha affermato il Ministero.

L’Integrated Food Security Phase Classification, una delle principali autorità internazionali in materia di crisi alimentari, ha avvertito che ” nella Striscia di Gaza si sta attualmente verificando lo scenario peggiore di carestia “, prevedendo “morti diffuse” in assenza di azioni immediate.

Gaza, “carestia senza precedenti”

Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha dichiarato, in una conferenza in occasione del ventesimo anniversario del ritiro di Israele da Gaza, che l’ idea del reinsediamento ebraico nella Striscia è ormai diventata un “piano di lavoro realistico ” e che l’enclave “è una parte inseparabile della Terra di Israele”.

Smotrich ha aggiunto che resterà nel governo perché “succederanno cose positive”.

Un editoriale del Financial Times ha invitato l’amministrazione Trump e i paesi occidentali a sanzionare il governo israeliano , adottando misure come la sospensione delle vendite di armi e il riconoscimento di uno Stato palestinese, a meno che non “accetti la fine immediata della guerra e un’ondata di aiuti a Gaza”.

L’editoriale ha anche affermato che “anche le nazioni arabe potrebbero fare di più”, minacciando di interrompere i rapporti diplomatici con Israele.

■ CISGIORDANIA: Lunedì sera, coloni israeliani hanno sparato e ucciso l’attivista palestinese Awdah Hathaleen e ne hanno ferito un altro nel villaggio di Umm al-Kheir, sulle colline a sud di Hebron .

Yinon Levi, un colono che è stato documentato mentre sparava con la sua pistola sulla scena, è stato arrestato ed è indagato per omicidio colposo e uso di arma da fuoco.

Martedì, un tribunale israeliano ha rilasciato Levi agli arresti domiciliari . L’anno scorso, Levi è stato inserito nella lista delle sanzioni di diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, a causa del suo coinvolgimento nelle violenze contro i palestinesi in Cisgiordania.

Le sanzioni statunitensi sono state revocate dall’amministrazione Trump a gennaio.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani, solo il 3% delle indagini sugli israeliani coinvolti in violenze motivate a livello nazionale contro i palestinesi porta a condanne per crimini “

■ UE: Il governo olandese ha imposto un divieto d’ingresso ai ministri israeliani di estrema destra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich , affermando che hanno “ripetutamente incitato alla violenza” contro la popolazione palestinese, ha sostenuto con insistenza l’espansione degli insediamenti illegali e ha invocato la pulizia etnica nella Striscia di Gaza.

” Il ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp ha affermato che il governo si è anche impegnato a registrare i due ministri come stranieri indesiderati nel Sistema d’informazione Schengen, che comprende 29 paesi europei.

La Commissione europea ha proposto di sospendere i finanziamenti alle startup israeliane impegnate in attività militari , citando la “grave” situazione umanitaria a Gaza. Le startup perderebbero l’accesso al programma di sovvenzioni Horizon Europe del Consiglio europeo della ricerca.

La proposta deve ancora essere approvata a maggioranza qualificata dai ministri degli Esteri dell’UE.

■ STATO PALESTINESE: Il primo ministro Keir Starmer ha detto al suo gabinetto che il Regno Unito riconoscerà lo Stato di Palestina a settembre, a meno che il governo israeliano non adotti “misure sostanziali” per porre fine alla “spaventosa situazione a Gaza”.

Anche Malta riconoscerà lo Stato di Palestina nella prossima Assemblea generale dell’Onu.

Siria

Dopo settimane di violenze settarie e scontri armati, un team del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) è riuscita ad accedere alla città siriana di Sweida, nel sud del Paese.

È la prima missione ICRC a entrare in città dopo l’ultima ondata di combattimenti, che secondo fonti locali ha causato oltre 1.000 morti.

Lunedì, il team ICRC ha accompagnato un convoglio del Mezzaluna Rossa Araba Siriana (Sarc) che trasportava:

  • 1.000 pacchi alimentari
  • 200 tonnellate di beni di prima necessità
  • Farmaci e materiali sanitari per le strutture locali.

È il terzo convoglio umanitario ad arrivare a Sweida da quando gli scontri sono diminuiti, ma il primo con la presenza internazionale.

La violenza è esplosa a inizio luglio dopo il rapimento di un commerciante druso lungo una strada controllata dal governo. Gli scontri tra fazioni druse e beduine si sono rapidamente estesi, aggravati dall’intervento delle forze governative siriane inviate per sedare il conflitto.

Ma i miliziani drusi, che diffidano delle autorità centrali, le accusano di favorire le milizie beduine e si sono mobilitati per respingerle.

L’accesso agli aiuti è stato bloccato per giorni a causa dei combattimenti tra le forze lealiste e i potentati locali che si oppongono alla centralizzazione del potere da parte del regime.

Gli operatori dell’ICRC hanno visitato l’ospedale nazionale di Sweida e quello di Shahba, entrambi supportati dalla Croce Rossa e travolti da un afflusso massiccio di feriti e cadaveri. La Croce Rossa ha promesso di mantenere attivi i corridoi umanitari e continuare a sostenere il lavoro del Sarc.

La missione a Sweida rivela non solo un’emergenza umanitaria, ma una frattura politica e sociale profondissima. Il regime siriano, nel tentativo di rimettere sotto controllo aree storicamente autonome come quella drusa, si scontra con realtà locali che non si fidano più dello Stato.

L’ingresso della Croce Rossa è una conquista, ma è anche un campanello d’allarme internazionale.

Sweida, troppo spesso ignorata dai riflettori, sta diventando l’epicentro di un conflitto dimenticato e settario, in cui le comunità si massacrano e i civili pagano il prezzo più alto.

Costa d’Avorio

Il presidente ivoriano Alassane Ouattara ha annunciato che si candiderà per un quarto mandato alle elezioni previste in ottobre.

L’annuncio, fatto in diretta televisiva, ha già sollevato forti polemiche: la sua candidatura è contestata, poiché l’attuale costituzione vieterebbe più di due mandati.

Tuttavia, Ouattara, 83 anni, ha riformato la costituzione nel 2016, azzerando di fatto il conteggio dei suoi precedenti mandati.

Una mossa già adottata per legittimare la sua rielezione nel 2020, dopo aver inizialmente promesso di non ricandidarsi.

“Ho ascoltato l’appello del popolo”, ha dichiarato, citando “donne, giovani e cittadini da ogni regione” che lo avrebbero esortato a restare. Ma la realtà è ben più complessa.

Il suo principale rivale, Tidjane Thiam, è stato escluso dalla corsa da un tribunale perché avrebbe posseduto anche la cittadinanza francese al momento della sua candidatura.

 La legge ivoriana vieta ai cittadini con doppia nazionalità di concorrere alla presidenza, anche se Thiam ha nel frattempo rinunciato alla cittadinanza francese.

La decisione ha scatenato proteste e tensioni, in un Paese dove le elezioni sono spesso segnate da violenza e repressione. Nel 2020, l’annuncio del terzo mandato di Ouattara portò a scontri in cui morirono decine di persone.

La ricandidatura di Ouattara è un colpo alla credibilità democratica non solo della Costa d’Avorio, ma di tutta l’Africa occidentale. In una regione già minata da golpe militari e crisi costituzionali, un leader che riscrive le regole per restare al potere indebolisce ulteriormente le istituzioni civili.

Come ha detto l’analista Nat Powell, questa scelta legittima le accuse di ipocrisia rivolte dai regimi militari ai governi eletti: se i presidenti civili aggirano le leggi, su quale base Ecowas può condannare i colpi di Stato?

Angola

Quattro persone sono morte a Luanda, capitale dell’Angola, a seguito dello sciopero dei trasporti per l’aumento del carburante che è degenerato in violente manifestazioni anti governative.

L’ondata di protesta ha portato migliaia di persone in strada che hanno bloccato il traffico e saccheggiato negozi scontrandosi con la polizia.

 “La questione del prezzo del carburante è solo l’ultima goccia che ha riacceso il malcontento popolare…

La gente è stufa. La fame dilaga e i poveri sono sempre più miserabili”, ha detto alla BBC Laura Macedo, un’attivista locale.

 La polizia ha arrestato più di 100 persone e ha condannato gli “atti di terrore urbano”, tra cui la distruzione di 20 autobus.

 Lo sciopero è stato indetto dagli operatori dei taxi collettivi a seguito dell’aumento del 33% del diesel, misura introdotta all’inizio di luglio nell’ambito dei piani di rimozione dei sussidi per il carburante.

Il provvedimento ha portato all’aumento dei prezzi degli alimenti di base e di altri prodotti di prima necessità.

Il presidente João Lourenço ha accusato i manifestanti di usare l’aumento del carburante come pretesto per minare il governo quando il Paese si prepara a celebrare il 50° anniversario dell’indipendenza.

“Anche dopo l’aumento, il prezzo del diesel in Angola rimane intorno ai 40 centesimi di dollaro [al litro], e non ci sono molti Paesi al mondo con prezzi così bassi”, ha detto Lourenço a CNN Portugal in una recente intervista.

Il salario medio mensile in Angola è di appena 70.000 kwanzas (75 dollari) e la promessa della presidenza di aumentarlo a 100.000 kwanzas non si è concretizzata.

Oggi i principali negozi, banche e altre attività commerciali sono rimaste chiuse.

Azerbaijan

In Azerbaigian, il presidente del Center for Torture Prevention Research, Fikrat Jafarli, è stato condannato a 4 mesi di carcere.

La sentenza è stata emessa dal tribunale distrettuale di Binagadi, a Baku, sotto la guida del giudice Zamig Baghirov, al termine di un processo avviato con procedura speciale di accusa privata.

A intentare la causa è stato Elvin Aliyev, avvocato e membro della Commissione Disciplinare dell’Ordine degli Avvocati. Aliyev ha denunciato Jafarli per diffamazione (Art. 147.1 del Codice penale), accusandolo di aver danneggiato la sua reputazione professionale.

L’origine della controversia è un post pubblicato sulla pagina Facebook del centro diretto da Jafarli, in cui si riportava la testimonianza di un ex cliente di Aliyev, attualmente detenuto.

Il detenuto sosteneva che l’avvocato gli avrebbe chiesto 10.500 manat (circa 5.700 euro) in cambio di un risultato legale mai ottenuto, per poi intimidirlo.

Jafarli ha dichiarato che il post non rifletteva la sua opinione personale, ma era la semplice condivisione di un appello già pubblicato online dalla giornalista Arzu Abdulla.

Il difensore dei diritti umani ritiene che il procedimento sia una ritorsione politica, orchestrata dalla leadership dell’Ordine degli Avvocati per punirlo per le sue critiche all’istituzione.

La condanna di Fikrat Jafarli rappresenta un segnale allarmante sullo stato della libertà d’espressione e della tutela dei diritti umani in Azerbaigian.

Un procedimento per diffamazione, basato sulla condivisione di un contenuto social, diventa lo strumento per colpire chi denuncia torture e abusi di potere.

Russia e Ucraina

Un attacco russo contro un istituto penitenziario nell’Ucraina meridionale ha ucciso almeno 16 persone e ne ha ferite decine poco prima di mezzanotte di lunedì, hanno dichiarato funzionari ucraini.

Sembra essere stato l’attacco più mortale contro una prigione ucraina da quando la Russia ha lanciato la sua invasione su vasta scala più di tre anni fa.

L’attacco faceva parte di un’ondata di attacchi diretti a 73 città e villaggi ucraini tra lunedì notte e martedì mattina, ha dichiarato il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy in una nota.

L’attacco è avvenuto solo poche ore dopo che il presidente Donald Trump aveva rinnovato il suo appello al Cremlino affinché porre fine allo spargimento di sangue. Lunedì Trump ha espresso la sua frustrazione per i continui attacchi della Russia contro i civili e per le sconcertanti perdite sul campo di battaglia da entrambe le parti.

Restiamo in Russia, perché Un violento terremoto nella regione russa della Kamchatka – magnitudo 8.7 – ha fatto scattare l’allarme tsunami nell’oceano Pacifico, dal Giappone all’America.

La prima ondata di tsunami ha colpito la zona costiera di Severo-Kuril’sk. Secondo  il New York Times , il sisma è stato probabilmente il sesto più forte nella storia registrata . Il governatore di Sachalin, Valery Limarenko, ha riferito sul suo canale Telegram che la popolazione locale si sta rifugiando sulle alture finché le autorità non revocano l’allerta per le ondate successive.

Il ministero russo per le emergenze ha segnalato solo lievi feriti a causa del terremoto, mentre gli scienziati avvertono che le scosse di assestamento con magnitudo fino a 7,5 potrebbero continuare per un mese.

Stati Uniti

È morta all’età di 101 anni Joan Anderson, la donna che diede il nome all’hula hoop e contribuì in modo decisivo, ma mai riconosciuto, al suo successo planetario.

Negli anni ’50, durante una visita in Australia, sua terra natale, Anderson vide gruppi di persone che facevano ruotare anelli di legno intorno alla vita.

Affascinata dal fenomeno, spedì uno di quegli strani oggetti negli Stati Uniti, dove viveva con il marito, l’ex pilota dell’esercito americano Wayne Anderson.

Fu lei a chiamarlo “hula hoop”, ispirandosi alla danza hawaiana. E fu lei e il marito a mostrarlo per la prima volta ai dirigenti della Wham-O, gigante dei giocattoli.

Ne nacque un fenomeno mondiale: milioni di pezzi venduti, un’icona pop nata quasi per caso.

Ma Joan non ottenne mai il riconoscimento per la sua idea. Un “gentlemen’s agreement” con la Wham-O non venne mai formalizzato e, dopo anni di rinvii e promesse, la coppia ottenne solo un modesto risarcimento in seguito a una causa legale.

 Nei racconti ufficiali, il suo nome venne ridotto a quello di una “amica australiana” non meglio identificata. “Non ero una semplice amica. Era la mia idea”, disse con amarezza nel documentario Hula Girl, che nel 2018 le restituì almeno in parte la sua storia.

La storia di Joan Anderson è quella di una donna invisibile in un mondo maschile, dove le idee, anche quelle che cambiano la cultura pop, possono essere rubate con una stretta di mano.

Il suo hula hoop ha fatto il giro del mondo, ma il suo nome ha dovuto aspettare un secolo per riemergere. Come tante altre donne, non fu dimenticata: fu cancellata.

Joan è morta il 14 luglio in una casa di riposo a Carlsbad, in California. Lascia tre figli e sei nipoti. Aveva vissuto, come ha detto la sua famiglia, “una vita meravigliosa”.

Una sparatoria in un grattacielo di Park Avenue, a pochi passi da Grand Central e dal Rockefeller Center, ha lasciato dietro di sé quattro vittime e un Paese che si interroga ancora una volta su salute mentale, violenza armata e responsabilità collettive.

L’attacco mancato alla NFL

Shane Tamura, 42 anni, ex giocatore di football liceale con precedenti psichiatrici, ha aperto il fuoco nella hall del palazzo che ospita la sede della NFL e altri colossi come Blackstone. Secondo la polizia, intendeva raggiungere gli uffici della National Football League per colpire quella che considerava la responsabile della sua malattia: la CTE, una forma degenerativa cerebrale causata da traumi ripetuti alla testa. Ma ha preso l’ascensore sbagliato.

Le vittime

Tra i quattro uccisi c’è Didarul Islam, agente NYPD fuori servizio, immigrato dal Bangladesh, che stava lavorando come addetto alla sicurezza privata. Islam è stato colpito mentre cercava di intervenire. Con lui sono morti anche un dirigente di Blackstone, Wesley LePatner, e una guardia giurata, Aland Etienne. Una dipendente della NFL è rimasta gravemente ferita.

Il movente: una lettera e un grido postumo

Nel portafogli di Tamura, una lettera di tre pagine: scuse, disperazione, la richiesta che il suo cervello venga studiato per la CTE e l’accusa alla NFL di aver nascosto i rischi del football per profitto. Un riferimento diretto anche al suicidio dell’ex giocatore Terry Long, affetto dalla stessa malattia.

Trump interviene, ma evita la questione di fondo

Il presidente Trump ha espresso cordoglio, definendo Tamura un “crazed lunatic”. Nessun riferimento però al problema ben più complesso e strutturale della sanità mentale, né alla responsabilità delle grandi leghe sportive nel tutelare i propri atleti.

Commento: il dolore che arriva troppo tardi

Questa tragedia mette a nudo più di un fallimento. Un uomo ha viaggiato da Las Vegas a New York con un fucile, convinto di essere vittima di un sistema. Non c’è giustificazione possibile, ma non si può ignorare l’urlo che viene dopo il silenzio: Tamura parlava di CTE, di malattia mentale, di sentirsi abbandonato.

Il problema non è solo la sicurezza o l’accesso alle armi. È un sistema – sportivo, sanitario, giudiziario – che troppo spesso riconosce i danni solo dopo che il sangue è già stato versato.

Venezuela

Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha annunciato un aumento fino a 25 milioni di dollari della ricompensa per chi fornisca informazioni utili alla cattura di Nicolás Maduro, presidente del Venezuela. La stessa taglia è stata estesa anche al ministro dell’Interno, Diosdado Cabello, e al ministro della Difesa, Vladimir Padrino.

L’annuncio, diffuso sui canali social del governo statunitense, arriva dopo la designazione del “Cártel de los Soles” come organizzazione terroristica globale. Secondo Washington, il cartello sarebbe una struttura criminale interna allo Stato venezuelano, composta da alti funzionari e coinvolta nel traffico internazionale di droga.

Nel profilo pubblicato dal Tesoro, Maduro viene indicato come “leader del Cártel de los Soles”.

 Il report sostiene che avrebbe trattato spedizioni di cocaina con le FARC colombiane, offrendo armi in cambio di droga.

Maduro era già stato incriminato nel marzo 2020 dalla procura del Distretto Sud di New York per narcoterrorismo, traffico internazionale di stupefacenti e possesso di armi da guerra. All’epoca la ricompensa era fissata a 15 milioni di dollari.

Con questa mossa, gli Stati Uniti alzano la posta in un confronto che ormai non è più solo politico ma apertamente criminale.

La designazione di Maduro come capo di un’organizzazione terroristica narcotrafficante spinge il Venezuela fuori dal perimetro della diplomazia convenzionale, e dentro quello degli “stati canaglia” da perseguire con ogni mezzo.

Ma resta una domanda cruciale: se davvero Maduro è un narcoterrorista internazionale, come si concilia questa accusa con i negoziati in corso, le aperture petrolifere e il riavvicinamento diplomatico timidamente tentato da Washington negli ultimi anni?

Gli Stati Uniti sembrano oscillare tra pragmatismo e intransigenza, e intanto il popolo venezuelano resta ostaggio di una crisi che è sempre più politica, economica e ora anche giudiziaria.

Thailandia e Cambogia

Dopo giorni di scontri lungo il confine che hanno causato almeno 41 morti e oltre 260.000 sfollati, Thailandia e Cambogia hanno concordato un cessate il fuoco “incondizionato” lunedì, durante un incontro a Kuala Lumpur.

La tregua, spinta dalla forte pressione diplomatica ed economica degli Stati Uniti, è entrata formalmente in vigore a mezzanotte.

Nonostante l’accordo, Bangkok ha accusato Phnom Penh di aver violato il cessate il fuoco lanciando attacchi martedì mattina. La Cambogia ha smentito, dichiarando che nessun colpo è stato sparato.

Solo dopo un incontro tra comandanti militari sul campo, la situazione si è stabilizzata e le truppe sono state invitate a evitare movimenti e escalation.

La Thailandia ha presentato formali proteste a Malaysia, Stati Uniti e Cina. Intanto, alcuni sfollati hanno iniziato a fare ritorno alle proprie abitazioni, ma tra i residenti lungo il confine permane una forte diffidenza.

Il cessate il fuoco è stato mediato dal premier malese Anwar Ibrahim e sostenuto direttamente dal presidente Donald Trump, che ha minacciato entrambi i Paesi di bloccare nuovi accordi commerciali in caso di prosecuzione dei combattimenti.

 Una tassa del 36% sulle esportazioni di Thailandia e Cambogia dovrebbe entrare in vigore venerdì, nel quadro della guerra dei dazi rilanciata da Washington.

Trump, in telefonate separate ai leader di entrambi i Paesi, ha elogiato la tregua e promesso che gli Stati Uniti, insieme alla Malesia, parteciperanno al monitoraggio del cessate il fuoco. In cambio, ha lasciato intendere che gli accordi tariffari con Bangkok potrebbero essere ammorbiditi.

Cina

Pechino è sotto shock. Dopo giorni di piogge torrenziali, la capitale cinese e le aree circostanti fanno i conti con un disastro senza precedenti: almeno 38 morti, villaggi isolati, case spazzate via e decine di migliaia di persone sfollate.

Nel solo distretto montuoso di Miyun, a nord-est della capitale, sono caduti oltre 54 centimetri di pioggia, provocando frane e inondazioni che hanno travolto case, strade e ponti. A Yanqing si contano due vittime, mentre una frana ha ucciso otto persone nella provincia di Hebei.

“È stato troppo improvviso”, ha raccontato Chen Jinlan, una sopravvissuta costretta a camminare per 40 minuti tra i resti del suo villaggio per raggiungere la figlia. Molti residenti non hanno ricevuto alcun avviso preventivo, e nelle zone rurali centinaia di persone sono rimaste isolate per giorni, senza elettricità, acqua o cibo.

Nel villaggio di Yangjiatai, nella provincia di Hebei, frane e smottamenti hanno isolato intere comunità. Secondo la 25enne Wang Haha, alcuni sono riusciti a fuggire guadando le acque o scalando i pendii montani. Ma molti sono ancora bloccati.

Più di 80.000 persone sono state evacuate nella periferia della capitale, mentre 136 villaggi hanno perso l’energia elettrica. Le autorità hanno avviato lo scarico controllato dell’enorme bacino di Miyun, preoccupando i residenti delle zone limitrofe, che temono ulteriori allagamenti.

Xi Jinping ordina il massimo impegno nei soccorsi, mentre si intensifica la censura online: su Weibo, i post su morti, dighe e omissioni vengono oscurati, sostituiti da video ufficiali di salvataggi eroici e dichiarazioni governative.

L’anno scorso, Pechino ha registrato le piogge più intense da 140 anni. Ma come allora, anche oggi i danni maggiori sono nelle province vicine, sacrificate per proteggere la capitale.

Nel 2023, lo Stato aprì intenzionalmente le dighe a Hebei per “proteggere Pechino” creando una sorta di fossato umano: una decisione che provocò rabbia e accuse di abbandono istituzionale.

Giappone

A 14 anni dal triplice meltdown nucleare seguito al devastante tsunami del 2011, la rimozione completa del combustibile nucleare fuso dalla centrale di Fukushima Daiichi viene rinviata ancora.

Secondo la Tokyo Electric Power Company (TEPCO), la rimozione su larga scala del materiale radioattivo non inizierà prima del 2037, spostando in avanti di almeno un decennio le operazioni più critiche del processo di smantellamento.

Il motivo? Serviranno dai 12 ai 15 anni solo per abbassare i livelli di radiazione nel reattore numero 3, costruire le infrastrutture necessarie e mettere in sicurezza l’area. Si parla di almeno 880 tonnellate di combustibile fuso mescolato a rottami metallici e strutture crollate, intrappolati nei tre reattori compromessi.

La scadenza ufficiale per la disattivazione completa del sito – fissata al 2051 – resta formalmente in piedi, ma persino TEPCO ammette che sarà difficile rispettarla. Il test per la rimozione di un minuscolo campione, previsto nel 2021, è già avvenuto con tre anni di ritardo.

E molti esperti stimano che l’intero processo potrebbe richiedere più di un secolo.

Fukushima ci ricorda che gli incidenti nucleari non finiscono con l’emergenza iniziale.

Ogni ritardo, ogni tonnellata ancora da rimuovere, è una ferita aperta nel tessuto ambientale e sociale del Giappone. La gestione della crisi da parte di TEPCO è stata sin dall’inizio oggetto di critiche, e oggi si conferma quanto le promesse di “ritorno alla normalità” siano spesso più narrative politiche che impegni concreti.

Il costo umano, economico e ambientale resta incalcolabile. Eppure, nel mondo, si continua a rilanciare sul nucleare.

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