108 stupa
Scritto da Eleonora Viganò in data Luglio 25, 2019
L’antica capitale Karakorum durò per 40 anni nel suo splendore: è stata distrutta con la caduta dell’Impero – la nuova capitale fu spostata nell’attuale Bejing – e dalle macerie è stato costruito il tempio buddhista più antico e importante di tutta la Mongolia. Distrutto ancora dalle purghe staliniane, convertito a museo e solo nel 1990 riabilitato per il culto, i 108 stupa delle mura accolgono chiunque vi arrivi a partire dal niente di terra ed erba, fanno brillare e fremere l’aria circostante: imponenti, bianchi, immobili.
La coppia italiana
Ci incontriamo davanti all’agenzia: io reduce da qualche giorno nel parco nazionale del Terelj tra le gher senza luce né acqua, con i formaggi a seccare sul tetto spiovente della tenda; loro da un tour di una settimana sui monti Altaj, aspri, isolati e con la possibilità di avere in regalo incontri intensi. Viaggiamo su una jeep, le strade sono sterrate, tutte buche, saliscendi, sassi e terra. Sono piste, più che strade.
Sono tesa, sono stata io a suggerire Karakorum. Loro si sono recati in agenzia mentre io ero ancora forse a Olkhon o a Ulan Ude, hanno scelto il giro, che comprende anche la statua di Gengis Khan e un mini Gobi sul cammello e hanno prenotato anche per me, senza esserci mai visti prima. Saliamo sulla jeep, non ricordo se ho parlato subito a raffica o se sono stata fin troppo zitta. Credo di aver detto più volte che non amo i tour, per renderlo esplicito. Inizialmente parliamo di Santiago, dove per un soffio non ci siamo incontrati e parliamo di noi, cosa facciamo per vivere, dove abitiamo. Qualcosa si sa già grazie ai social, luogo dove ci siamo in realtà conosciuti prima di vederci fisicamente a Ulan Bator.
Loro sono di Firenze: lei lavora in un’azienda mentre lui è fotografo. Parlo nella mia lingua dopo quasi tre settimane. Un tour, qualche restrizione, orari, una jeep, un cammello, una coppia di italiani: cosa potrebbe andare peggio di così?
La città perfetta
L’autista guida veloce, troppo veloce, tanto da rischiare di ribaltarci. Tommaso gli dice di calmarsi. L’autoradio diffonde una musica metal o pop in lingua mongola: c’è una canzone che ci piace ma io non sarò più in grado di ritrovarla. Ogni tanto lungo la strada incontriamo delle “sculture”. Si chiamano ovoo e sono costruzioni di rito sciamanico fatte di pietre o legname, arricchite da foulard azzurri o colorati e spesso pieni di offerte come soldi, cibo, bevande… Quando si incontrano lungo il cammino ci si deve girare intorno tre volte in senso orario: porta bene, ovviamente.
Non ricordo quanto tempo ci sia voluto per arrivare a Karakorum o Kharkhorin: anzi in realtà non stiamo andando lì, a essere precisi. L’antica capitale voluta dal figlio di Gengis Khan a metà del XIII secolo non esiste più e se chiedessimo di andare davvero a Kharkhorin, quella attuale, troveremmo una città fredda costruita in stampo sovietico. Quello che davvero ci interessa è invece il tempio di Erdene Zuu: costruito a partire dalle macerie dell’antica capitale, il cui splendore perdurò per circa 40 anni prima di essere distrutta.
Quando la guida spiega, resto affascinata dalla descrizione di questa città quasi utopica, con quattro porte e per ciascuna porta un mercato e con ben 12 confessioni religiose differenti che convivevano grazie alla tolleranza dei regnanti. Altra particolarità: non era abitata in realtà dalla popolazione mongola – che occupava invece il territorio circostante con le gher – quanto più da commercianti, artigiani, studiosi e religiosi prigionieri di guerra. Quattro sculture di tartaruga delimitavano i confini della capitale come simbolo di eternità. La città, però, non fu propriamente eterna e, poco prima della distruzione dell’impero, la capitale venne spostata in quella che attualmente è conosciuta come Bejing, Pechino.
Il tempio di Erdene Zuu
La storia di queste pietre però non si ferma, dalla loro distruzione viene fatto costruire il tempio buddhista più antico di tutta la Mongolia e anche il più importante: fino a 100 templi, 300 gher e un migliaio di monaci durante il suo massimo splendore. Le purghe staliniane distrussero ogni cosa, tranne le mura, tre templi. Qualche statua e altri oggetti vennero nascosi. I monaci furono deportati.
Nel 1965 riaprì come museo, mentre solo nel 1990 ritornò a essere un luogo di culto. Ora due templi interni sono funzionanti, ci sono i monaci e si possono ascoltare preghiere o comprare il mala del colore che si desidera, incensi e altri oggetti religiosi.
Prima di vedere tutto questo, però, ci accompagnano alle nostre tende, distribuite come in un campeggio di buon livello. Sono vere, ovviamente, ma senza esserlo davvero: sono camere di albergo, che sfruttano la curiosità dei turisti – più che legittima e identica alla mia – di vedere e sperimentare una notte nella gher. Prima di cenare, decidiamo di vedere le mura del tempio dall’esterno, per il tramonto. Tommaso ha uno zaino enorme con dentro ogni strumento per poter scattare. Conosce i tempi, gli orari, le condizioni meterologiche che ci sono e ci saranno. Sa dove posizionarsi e come farlo. Usa il cavalletto, osserva, riflette, aspetta. Scatta e aspetta.
Quando siamo davanti alle mura, quando una parte dei 108 stupa le cui linee di contorno si appiccicano al cielo aranciato e azzurro, quando la pianura verde, una tavola piatta e immobile che sembra quasi un mare senza onde, ci si presenta davanti come un tappeto rosso, quando il bianco risalta, quando l’altezza delle mura ci ingloba e ci riduce a formiche: solo in quel momento ci lasciamo andare alla meraviglia.
Karakorum è magica, anzi il tempio è magico. È magico osservare Tommaso al lavoro.
È magica l’aria rarefatta e fresca. Sono magici i colori caldi, soffusi, come di miele, l’imponenza di un tempio antico, morto e vitale allo stesso tempo e la sensazione di una città fantasma intorno, presente sotto il mantello verde, quasi pulsante anche se invisibile. Siamo minuscoli.
«Hai scelto bene», mi dice Tommaso. Respiro con un sorriso. Dopo le foto e il tramonto andiamo a cena, parlando senza forzature. Continuiamo a parlare di noi, di viaggi fatti e da fare, di sogni. Sono affascinata dalla fotografia e dalla sua lentezza.
Little Gobi e Gengis Khan
Il nostro piccolo viaggio nel viaggio prosegue verso un deserto che sembra quasi finto. Little Gobi, lo chiamano, ma non ha niente di ciò che si potrebbe pensare: metà tappeto erboso e metà sabbia, metà sole e metà nuvoloni neri che ci hanno impedito di proseguire a lungo sul cammello, costringendoci a una ritirata. Infine la statua equestre di Gengis Khan in acciaio: un colosso moderno alto 40 metri considerando la base su cui appoggia. Saliamo in cima per osservare lontano intorno a noi, per toccarla, per vedere la spada e qualche dettaglio da vicino. L’iniziale aria annoiata e di sufficienza che ci aveva portati lì si è trasformata in stupore. Nonostante l’eccesso, il trash, quella statua è bella.
La famiglia nomade si è spostata
Diretti verso la nostra famiglia ospitante, la seconda sera o terza sera non si arrivava più da nessuna parte. Il vuoto, la steppa, la jeep. Noi. L’autista che tergiversa, si ferma, forse ha persino bussato a qualche gher per chiedere, torna indietro. La famiglia nomade si è spostata. Io sono eccitata all’idea di questo piccolo imprevisto nel prevedibile, Francesca e Tommaso la prendono meno bene. Alla fine ci trovano alloggio in un’altra famiglia, poco socievole – o meglio – timida e riservata, dove ceniamo alla buona con una zuppa. Siamo senza luce, siamo in una vera gher allestita in emergenza per noi. Ricordo, in modo nitido e distinto, una bambina che fa volare un aquilone.
In copertina, foto di Eleonora Viganò
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