Afghanistan: Sognando l’Europa

Scritto da in data Agosto 30, 2022

KABUL — Quando capiscono che c’è qualcuno che fa domande, si tengono in disparte. Il loro sguardo interrogativo nasconde paura, confusione, ma anche un pizzico di curiosità. Sono così giovani, troppo giovani per essere pronti a fare quello che stanno facendo. Ma forse, quella dell’adolescenza è l’unica età possibile per poter sfidare la vita inconsapevoli. Non hanno filtri, non hanno protezioni, sulle spalle uno zainetto dove si portano un po’ d’acqua, un po’ di cibo, della frutta secca, un cambio di vestiti, la carta di identità se ce l’hanno — che si chiama taskera in Afghanistan — e niente che ricordi loro quello che lasciano. «Le foto le abbiamo sul telefonino», ci dice uno di loro, «foto dei genitori e dei fratelli».

La stazione degli autobus nel quartiere Company, a Kabul Ovest in Afghanistan, è gremita di ragazzini. Ne partono cinquecento al giorno per dirigersi nella provincia di Nimroz, in una cittadina a due soli km dall’Iran. Sono millecento km, quindici ore di bus, per circa millecinquecento afghani, diciassette euro.

Lì, incontreranno il trafficante che gli farà attraversare il confine e poi, a seconda dei soldi che hanno, li porterà verso la loro destinazione. «Voglio andare in Europa perché c’è lavoro», ci dice un ragazzo con un accenno di barba sul mento, la djellaba color tortora pulita e le mani appoggiate ai fianchi. Ma la maggior parte hanno  lasciato l’abito tradizionale per una più occidentale maglietta e jeans. All’inizio parla da solo, poi piano piano anche gli altri si avvicinano. Sono tutti pronti a partire e a inseguire un sogno di cui non hanno alcuna idea di come si trasformerà. Sanno solo che devono attraversare l’Iran, la Turchia, arrivare in Grecia e poi sono sicuri che ovunque andranno, non potrà essere peggio di quello che lasciano.
«Ho ventuno anni, facevo il tassista, ma ora non c’è lavoro e quindi devo partire perché la situazione economica è sempre peggio». Farid parte con quattro altri amici, perché questo viaggio — che durerà tre settimane, se va tutto bene — si cerca di non farlo mai da soli. Lo sai che è pericoloso? Che lungo la strada possono succedere tante cose? «Lo sappiamo, ma non abbiamo altra scelta. Le nostre famiglie sono d’accordo, dobbiamo andare avanti per poterli aiutare e magari un giorno ci rivedremo».
Quel giorno potrebbe essere presto, perché molti che vengono intercettati in Iran, Turchia o Grecia vengono rispediti indietro. O mai più, perché la polizia, il cammino, la fame, il lavoro e soprattutto il mare strappano ogni giorno vite di giovani di cui non si saprà mai il nome, lasciando intere famiglie nel dolore, nel dubbio, nella mancanza e nel desiderio di sapere.

A Nimroz, il trafficante che si conosce grazie al passaparola, spesso è un vero e proprio criminale, ma a volte si tratta di persone che hanno fatto il tragitto per arrivare in Europa e poi hanno capito che è meglio lavorare nel traffico. Quattrocento euro per arrivare un Turchia, altri duemila per arrivare in Europa. Un costo che è almeno il doppio della tariffa di un biglietto aereo che regolarmente porterebbe da Kabul in Italia. I soldi li si raccoglie vendendo tutto quello di vendibile in famiglia, dai mobili alla terra, o chiedendo prestiti in giro.
Che cosa farai quando sarai lì, lo sai che molti non vi vogliono e ci sono tante persone che arrivano da altri posti? «Lo so che sarà difficile, ma non può essere più difficile che stare qui», e ci confessa che è stato deportato cinque giorni prima dalla Turchia. Il viaggio lo aveva già fatto ed è pronto a rifarlo, dice sorridendo. Ma sono tanti soldi? «Si, ma non ho altra scelta» dice, mentre intorno a lui gli altri ragazzi annuiscono. Sanno che dovranno camminare, che dormiranno nei campi, in case fornite dai trafficanti, per strada, se non ci saranno altri posti. E quando arrivate in Europa? È tutto diverso, dalla gente alla  tradizione, e poi la lingua, non c’è neanche il palau (un tipico piatto afghano), loro sorridono: «È vero, ma tutto quello che vogliamo è lavorare e mandare i soldi a casa, far sopravvivere le nostre famiglie, avere un futuro».

La speranza è il motore che fa loro affrontare qualsiasi cosa, incapaci di fermarsi, di arrendersi, di credere che da qualche parte non ci sia un posto migliore. Inseguono i sogni come fanno tutti nel resto del mondo, che sia ricco o povero, che sia democratico o in balia di un regime.

Muhammad si avvicina, emerge dal gruppo, continua a toccarsi la testa come se avesse un tic nervoso, ha lo sguardo dolce di un ragazzino che dovrebbe solo pensare agli studi, invece ci racconta come in Bulgaria è stato fermato dalla polizia, lo hanno fatto stendere a terra e gli hanno lanciato un cane contro che lo ha morso e gli ha fatto molto male. «Prima ho fatto tre mesi in Turchia, poi sono riuscito a entrare in Bulgaria, sono stato arrestato e rimpatriato». E ora ci riprova, dice che Istanbul è la città più bella che abbia mai visto. Ha solo diciassette anni. Non ti mancherà la famiglia? «Si, ma l’obiettivo è andare in Europa, prendere la cittadinanza e far venire la mia famiglia».

«Non c’è lavoro qui, dobbiamo partire», incalza un altro con un berretto da baseball e una camicia verde acido. Ma come fai a trovare lavoro, non hai studiato, non parli la lingua. «Farò qualsiasi cosa, sempre meglio che guardare la mia famiglia morire di fame».

La Wardaq Baba è la principale compagnia di autobus che trasporta gente verso il confine, dieci autobus al giorno, tutti pieni di ragazzi traboccanti di speranza. Ma ce ne sono tanti altri che ritornano, ragazzi respinti già dalla polizia iraniana, che non è conosciuta per la sua tenerezza verso gli illegali afghani. «A volte li buttano nel fiume, molti affogano, chi ce la fa risale sul pullman e torna indietro», ci racconta uno dei responsabili della compagnia, «ma poi ci riprovano appena raccolgono i soldi, e li capisco, bisogna guardare avanti, sono giovani, non possono fermarsi qui e aspettare di morire di fame, è la vita. Qui non c’è più niente, e dal niente si va via».

Ndr: Questa storia è stata raccontata grazie al contributo dei sostenitori di Radio Bullets che hanno finanziato questa missione in Afghanistan, a un anno dalla presa dei talebani. 

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