Sport e transessualità, tra polemiche e soluzioni possibili

Scritto da in data Maggio 30, 2021

La prima volta che mi sono fermata a pensare alla questione transessualità e sport è stata quando ho visto Beautiful Boxer, film del 2003 che racconta la storia vera di una persona kathoey, termine thailandese che indica le persone di genere non definito, spesso tradotto come ladyboy: Parinya Charoenphol/Nong Toom. Nong Toom, nata nel 1981, divenne un personaggio pubblico nel 1998, quando vinse – truccata da donna – un combattimento contro un avversario apparentemente più prestante. Proprio il clamore mediatico intorno a Toom portò curiosità turistica e sportiva intorno alla Thailandia e al Muay Thai, nonostante poi l’interesse per la sua figura sia scemato perché, come raccontato nel film, l’atleta iniziando le cure ormonali iniziò a perdere i combattimenti. Dopo aver avuto accesso alla chirurgia per il cambio di sesso nel 1999 Nong Toom ha ricominciato a combattere (stavolta con donne) solo nel 2003. Ora ha una scuola di Muay Thai e promuove lo sport transessuale. Da quando ho visto il film sono cambiate molte cose nel mondo dello sport, ma non i dubbi e le polemiche sulla partecipazione di chi non si senta di appartenere al genere assegnatogli alla nascita o a chi sia intersessuale.

Il Comitato Internazionale Olimpico

È forse casuale, ma il 2003 − anno di uscita di Beautiful Boxer − è anche l’anno in cui il Comitato Internazionale Olimpico (CIO) ha avuto una prima apertura alle persone non CIS (le persone la cui identità di genere non corrisponde al genere e al sesso biologico) nelle competizioni, permettendo di accedervi – nella propria categoria “identitaria”, quindi del genere cui si ritiene di appartenere − anche a chi avesse cambiato il proprio genere da almeno due anni, con un riconoscimento ufficiale del paese di appartenenza, e seguisse adeguate cure ormonali. Dal 2016 atleti e atlete possono competere nella propria categoria di appartenenza identitaria anche solo con un controllo dei livelli ormonali.

Ciò che decide il CIO deve però passare anche per le varie federazioni sportive, internazionali e nazionali. La situazione è pertanto frammentata e le regole cambiano di paese in paese e di sport in sport. L’ultima federazione che si è adeguata ai parametri “inclusivi”, a livello internazionale, è quella Ciclistica, ma molti passi devono ancora esser fatti.

Soluzioni inclusive

In Italia la Uisp, Unione Italiana Sport per Tutti, è forse l’associazione (al di là di piccole realtà di base, spesso fuori da tornei e campionati) che sta cercando di mettere in campo le soluzioni più inclusive in tal senso. E una prima vittoria si è già vista: Valentina Petrillo, velocista ipovedente trans, potrà gareggiare a Tokyo tra le atlete donne, grazie al via libera del CIP (Comitato Italiano Paralimpico) e della Fispes, e ha già ottenuto buoni risultati al campionato paralimpico di Jesolo nel settembre 2020. Su di lei, peraltro, uscirà a breve un documentario prodotto da Ethnos e da Gruppo Trans, con il sostegno di Uisp e Arcigay.

Uisp, grazie alla collaborazione con l’associazione Gruppo Trans, Rete Lenford, Avvocatura per diritti LGBTI e il Broker Marsh, ha intanto avviato una sperimentazione per l’inclusività di genere. Chi si iscrive in associazioni sportive Uisp può ora tesserarsi con “alias”, senza problemi per quanto riguarda l’assicurazione, utilizzando il nome e il genere che sente di avere. Non ci si ferma però qui: sono stati avviati corsi specificatamente mirati all’inclusività di genere (a Bologna un corso di fitness) e corsi per maturare un’attenzione al linguaggio e alle altre tematiche legate ai diritti lgbtqi* nello sport. Un’attenzione che secondo Manuela Claysset, responsabile per le politiche di genere della Uisp, sarà sempre più necessaria, anche a fronte, per esempio, di una maggiore precisione della scienza nell’individuare generi non strettamente appartenenti alle logiche binarie, ma anche nel definire le potenzialità dei corpi (diverse anche tra persone appartenenti allo stesso genere, ma che vengono messe in discussione solo per le categorie femminili). Tematiche non facili, quelle legate a queste categorie, che sono approdate in Italia già nel 2017, quando la pallavolista brasiliana Tiffany de Abreu (già Rodrigo) è stata la prima persona che dopo una transizione ha giocato in una squadra femminile, la calabra Golem Palmi, all’epoca in serie A2, non senza creare polemiche.

A livello internazionale, invece, non è possibile scordare quanti problemi abbia creato nell’opinione pubblica prima, ma soprattutto nella salute della persona poi, il caso di Caster Semeneya, velocista nata donna ma con un testosterone sopra la norma. Avendola vista vincere troppo le fu imposta una cura ormonale devastante. La risposta a questi casi, secondo Manuela Claysset, è «sperimentare e non essere troppo omologati, ma anche mettere in campo competenze per far capire quali possano essere le soluzioni».

“Ripensare le categorie di genere” nello sport

Quello che Manuela e con lei molte delle persone che si occupano del tema sul campo pensano, è che seppure il problema non sia di facile soluzione, ripensare le categorie di genere è importantissimo, soprattutto per gli sport individuali. Tra questi, è ancora più scivoloso affrontare il tema negli sport di combattimento. La Federazione Pugilistica Italiana (nata nel 1919) ha già fatto una piccola grande rivoluzione ammettendo le donne alle competizioni nel 2001, ma nelle categorie femminili (e non in quelle maschili) viene richiesto un attestato cromosomico a riprova della propria femminilità.

Più facile è creare opportunità, anche di competizione, in scala più o meno larga, per quanto riguarda gli sport di squadra. Nella pallavolo sono previsti da tempo campionati misti, ma in tal senso va anche la sperimentazione di Valentino Di Stefano (Consiglio Direttivo UISP Bologna), che durante il suo servizio civile proprio per la Uisp ha proposto un torneo misto “all gender” di calcio a 7 in cui ci fossero tre persone di un genere e tre di un altro, con portiere a scelta, si offrissero uno spogliatoio maschile, uno femminile e uno all gender (negli impianti con almeno due campi non è difficile ottenerli!) e ci fosse la possibilità di giocare per il genere cui si sentiva di appartenere. Il campionato, purtroppo, non è mai partito per le limitazioni dovute alla pandemia di Coronavirus in corso. Valentino e la Uisp sono però ora al lavoro per un progetto di campionato di calcio a 7 e di pallavolo misti e oltre i generi, gratuiti per le società che vi partecipino, nonché dei tornei misti per bambini dagli 11 ai 14 anni. Ma perché proprio calcio e pallavolo? Secondo Valentino, perché entrambi rappresentano “sport moderni” e molto connotati per genere (anche se nel calcio, con la messa a profitto anche delle squadre femminili, qualcosa sta cambiando). Sono ancora praticamente assenti le squadre di bambini nella pallavolo, per esempio. Valentino ha affermato di pensare «che sia possibile immaginare modalità diverse di partecipazione alle gare, che possano essere studiate le differenze nelle competizioni e nelle prestazioni» per creare nuove categorie e opportunità.

Tornando all’ambito più generale, come puntualizzato da Manuela Claysset, sperimentazioni sull’inclusività di genere ci sono e in alcune parti del mondo, come gli Stati Uniti, addirittura di superamento del binarismo, ma il presupposto perché qualcosa cambi sul serio è che «tutto il mondo sportivo si metta in discussione».

Foto di RF._.studio da Pexels

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