Attaccata l’ambasciata americana a Baghdad

Scritto da in data Dicembre 31, 2019

di Barbara Schiavulli
da Baghdad per Radio Bullets

I ragazzi della protesta, che loro preferiscono chiamare rivoluzione, non ci stanno. Non hanno nessuna intenzione di essere identificati con quello che è successo oggi a Baghdad. “Noi non siamo violenti, non confondeteci, loro sono miliziani filo iraniani, sono gli stessi che attaccano noi”, ci dice Firas, 30 anni, (per ragioni di sicurezza omettiamo il suo cognome) uno dello zoccolo duro delle manifestazioni che negli ultimi due mesi hanno paralizzato il paese costringendo il premier a dimettersi e chiedendo riforme totali della politica irachena.

“Ponetevi invece una domanda: come è possibile che in due mesi noi siamo avanzati di 200 metri verso la Zona Verde e sono morte 500 persone, e oggi invece i miliziani hanno fatto irruzione fin oltre il cancello dell’ambasciata americana, trovando tutti i passaggi aperti? Questo perché sono collusi con il governo. Come la polizia guarda noi che moriamo per mano delle milizie, ha guardato loro avanzare fino all’ambasciata”.

America vs Iran e viceversa

Ma andiamo con ordine: sabato 28 dicembre dei razzi sono stati lanciati contro una base militare irachena e un contractor americano è stato ucciso. Gli statunitensi hanno accusato una milizia filo iraniana, i Kata’ib Hezbollah, e domenica – come ritorsione – cinque loro postazioni lungo il confine siriano iracheno (tre in Iraq e due in Siria) sono state bombardate. Il bilancio delle vittime è stato di 25 morti e di una cinquantina di feriti.

Questi miliziani fanno parte di una coalizione di fazioni militanti, PMU, la maggior parte filo iraniane, tutte legate a politici o partiti, messi insieme nel tentativo di ripulirli, in una sorta di paramilitari vicino ai militari iracheni.

Nel frattempo, lunedì il governo iracheno e quello iraniano hanno immediatamente condannato l’attacco americano ritenendolo un’invasione della sovranità irachena che contravviene gli accordi sulla presenza americana (5mila soldati per lo più dediti all’addestramento dell’esercito iracheno).

I funerali oggi

Oggi a Baghdad si sono celebrati i funerali dei miliziani morti domenica, poi il corteo, che piano piano si è ingrandito fino a contenere migliaia di persone – molte delle quali in divisa ma non armate – si è diretto verso la Zona Verde.

La Zona Verde, appunto: una sorta di cittadella fortificata, è il cuore della politica irachena. Qui sorgono le sedi istituzionali e ospitano le ambasciate internazionali. Presidiata, bloccata, difficilissimo avervi accesso, eppure in un caso più unico che raro, i miliziani sono entrati, hanno raggiunto l’immenso edificio dell’ambasciata americana, sono arrivati al cancello, sono entrati, hanno camminato fino al parcheggio, appiccato un paio di fuochi, e scritto sui muri “Via gli americani”, “Via gli aggressori”, e su una finestra della ricezione: “Chiuso in nome della resistenza”. Poi si sono fermati, sotto gli occhi dei marines che dal tetto puntavano i loro fucili.

Centinaia di manifestanti arrabbiati hanno poi issato delle tende fuori dall’ambasciata, e mentre gli animi si facevano sempre più caldi, la folla ha dato fuoco a tre rimorchi usati dalle guardie di sicurezza lungo il muro dell’ambasciata.

Mezzi militari iracheni verso la Zona Verde

La reazione di Trump

Ma se gli aggressori sono arrabbiati, il presidente americano Donald Trump è furioso: e twitta che dietro all’attacco c’è l’Iran. “L’Iran ha ucciso un contractor americano e ha ferito diverse persone. Abbiamo risposto con forza e lo faremo sempre. Ora l’Iran ha orchestrato un attacco contro l’ambasciata americana in Iraq”, dice il presidente. E aggiunge: “Ci aspettiamo che l’Iraq usi le sue forze di sicurezza per proteggere l’ambasciata”.

Di fatto, il ministro degli Interni si è precipitato a placare i manifestanti e a negoziare con loro: Yassin al Yasseri ha ispezionato la scena, e ha detto all’Associated Press che il primo ministro aveva avvertito gli americani che bombardare i miliziani sciiti avrebbe avuto serie conseguenze. “Questa è una – ha detto al Yasseri – questo è un problema e un imbarazzo per il governo”.

Il premier dimissionario, facente funzioni Adel Abdul Mahdi ha spiegato che nei giorni scorsi aveva anche tentato, senza riuscirvi, di fermare il bombardamento americano.

Che fine ha fatto l’ambasciatore americano

A questo punto, per quanto riguarda l’ambasciatore americano Matthew Tueller, le versioni sono diverse: secondo la Reuters, lui e il suo staff sono stati evacuati dal compound, mentre la Nbc e un’emittente araba sostengono che Tueller sia partito alcuni giorni fa.

Funzionari americani hanno invece detto alla Cbs che non c’è stata alcuna evacuazione dell’ambasciata, ma non hanno specificato dove fosse l’ambasciatore. Intanto il premier Mahdi ha invitato i miliziani e i loro sostenitori a fare un passo indietro. Sono arrivati veicoli militari blindati con una trentina di soldati. Nel tardo pomeriggio il Pentagono ha deciso di dispiegare altri soldati americani a protezione della sede diplomatica violata con scritte come “americani terroristi invasori”, “morte all’America”. Tra i manifestanti c’era anche Hashd al Shabi, comandante della milizia dei Faleh al Fayyad e il comandante dei Kata’ib Hezbollah, Abu Mahdi Al Mohandes, insieme ad altri leader delle milizie. “Non vogliamo gli americani in Iraq, sono il diavolo e se ne devono andare”, ha detto Qais al Khazali, capo degli Asaib Ahl al Haq, un’altra fazione PMU, alla Reuters.

I ragazzi di Sadun Street

Intanto dall’altra parte del ponte, Firas riflette sulla rivoluzione. Sulle implicazioni di quello che è successo oggi e sul fatto che, per il momento, loro devono “congelarsi” in attesa di capire quali siano le prossime mosse.

Di fermarsi non se ne parla. Nessuno dei ragazzi che da settimane vive a Sadun Street – ormai un agglomerato di tendoni dove si trova di tutto, dagli angoli di commemorazione per le vittime, alla tenda degli studenti di lingue. Dagli artisti alle ragazze, ai presidi medici. I tuk tuk, diventati i mezzi della protesta. Le Api tutte colorate che frecciano. C’è chi balla, chi legge, chi chiacchiera.

Nessuno ha intenzione di tornare a casa. “Troppe persone sono morte perché noi possiamo anche solo per un attimo arrenderci”, ci dice Harith, 20 anni, studente che con i suoi amici offre libri a chi decide di passare il tempo con loro. “Vogliamo solo avere un futuro migliore, vogliamo che i nostri sogni si realizzino e anche se le nostre famiglie sono preoccupate, questa è la nostra rivoluzione, è il nostro momento”.

Harith e i suoi amici nella tenda del college di lingue

Il momento per cambiare l’Iraq. Un Iraq dove non funziona niente, dove la corruzione è endemica, dove la politica non si interessa della gente. Non vogliono più al governo nessun politico che sia stato parte del sistema negli ultimi 15 anni. E soprattutto non vogliono più che gli stranieri, Iran e Stati Uniti in particolare, tirino i fili di una partita che loro non vogliono giocare.

“Non vogliamo più essere il teatro di battaglia tra l’Iran e gli americani. Loro si stanno battendo qui sulla nostra terra e a pagarne le conseguenze siamo noi. Non va bene”, ci dice Firas nel suo ufficio di loghi dove nel retro c’è un presidio sanitario con tanto di barelle, medicine, ossigeno.

Durante le prime settimane, quando i miliziani filoiraniani, assaltavano loro, quel posto era un via vai di feriti. 17mila feriti dal primo ottobre, quando Baghdad e tutto il sud sono scesi in piazza. 3mila persone arrestate, 58 scomparse, e ancora 500 ragazzi uccisi.

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