L’austerità, una politica economica disastrosa

Scritto da in data Ottobre 19, 2020

Uno degli incipit più belli della storia della letteratura è il seguente:

«Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo».

Molti l’avranno riconosciuto, è l’inizio di Anna Karenina, uno dei romanzi più belli della letteratura russa, scritto da Leone Tolstoi o come si direbbe in russo Lev Nikolajevic Tolstoj, autore straordinario dotato di un’incredibile finezza psicologica che rende le sue opere narrative attuali e godibilissime anche se ambientate nella Russia dell’Ottocento, un’epoca storica molto lontana.

Per un’esperienza più coinvolgente, invece di leggere ascoltate il podcast 

Parafrasando Tolstoj potremmo dire che come «ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» anche «ogni crisi economica devastante è devastante a modo suo».

Due crisi in dodici anni

Negli ultimi 12 anni siamo stati travolti da due crisi economiche, quella causata dalla finanza nel 2008 e quella causata dal coronavirus nel 2020.

Ora, gli ottimisti ci raccontano sempre la storiella che ogni crisi è anche un’opportunità per cambiare e migliorare. Chi vuole fare bella figura ci racconta che nelle lingue orientali, in cinese e in giapponese, la parola crisi si scrive unendo due kanji, cioè due ideogrammi dei quali il primo significa “pericolo” ma il secondo significa “opportunità”. Questa affermazione che si sente spesso, che suona molto bene e che risulta molto suggestiva, in realtà viene confutata da chi il cinese o il giapponese lo conosce per davvero: sarebbe un’interpretazione fatta con finalità motivazionali frutto però di una traduzione sbagliata. A ulteriore dimostrazione di queste interpretazioni suggestive ma farlocche in Giappone si racconta invece che la parola “crisi” deriverebbe dal greco “kairos” che significava opportunità. Ma anche questa è una bufala, perché la parola crisi non deriva dal greco kairos (καιρός), ma dal greco krisis (κρίσις) che significava scelta, decisione, e che deriva a sua volta dal verbo krino (κρίνω) che significava separare.

Quindi, come spesso accade, ognuno se la canta e se la suona come meglio gli aggrada. Noi che alle storielle degli ottimisti non abbiamo mai dato eccessivo credito ricordiamo, come recita un vecchio detto: «un pessimista è semplicemente un ottimista ben informato».

E allora vediamo di mettere in fila, in questa puntata, una serie di informazioni sulle crisi che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo.

La crisi del 2008 nasce negli Stati Uniti nel settore finanziario e nell’arco di pochi mesi si trasmette in un mondo globalizzato, con grande rapidità, a tutto il sistema finanziario internazionale. Dal 2009 la crisi dalla finanza si riverbera anche sull’economia reale.

In Cina quella crisi fu affrontata con estrema decisione. Già nella primavera del 2009 furono messi a disposizione dell’economia reale, quindi di famiglie e imprese, l’equivalente di quasi 600 miliardi di dollari e fu dato impulso agli investimenti pubblici per contrastare il ciclo economico negativo.

Facciamo una piccola digressione didattica: cosa significa politiche economiche cicliche e anticicliche?

Politiche economiche cicliche e anticicliche

Come sappiamo il sistema capitalistico ha un andamento non lineare ma ondivago. Ci sono fasi di crescita che si alternano a fasi di decrescita. Quando arriva una fase di decrescita, e quindi di crisi, solitamente i governi intervengono con politiche economiche cosiddette anticicliche, cioè che tentano di contrastare il ciclo economico negativo. Per fare un esempio semplice, se si riduce la domanda privata di beni e servizi e si riducono gli investimenti delle aziende private, i governi intervengono aumentando la spesa pubblica e gli investimenti pubblici.

Sostanzialmente è quello che fece il governo cinese: a fronte di una riduzione della domanda aggregata causata dalla crisi prima finanziaria e poi economica, sviluppò politiche tipicamente anticicliche, pompando liquidità nel sistema economico e aumentando la spesa pubblica.

Anche gli Stati Uniti fecero politiche economiche espansive e quindi anticicliche, accantonando momentaneamente la grande narrazione neoliberista secondo la quale unico metro di riferimento per ogni decisione doveva essere il mercato e lo Stato doveva astenersi da qualunque intervento per non creare distorsioni, inefficienze e sprechi nella straordinaria e indiscutibile capacità auto regolatoria del mercato. Purtroppo il mercato lasciato libero aveva combinato un gran pasticcio e quindi nell’autunno del 2008 prima il Presidente George Bush e, a partire da gennaio 2009, il nuovo Presidente Barack Obama furono costretti a rimboccarsi le maniche e a pompare anche loro centinaia di miliardi di risorse pubbliche nell’economia e nel settore finanziario per evitare che l’intero sistema capitalistico si schiantasse.

Politiche analoghe, cioè politiche economiche e monetarie espansive, anticicliche, furono adottate un po’ da tutti i Paesi del mondo con un’unica eccezione, l’Unione Europea e l’area Euro.

I Paesi europei affrontarono la crisi facendo l’esatto contrario di quello che facevano tutti gli altri: adottarono politiche economiche pro cicliche, che cioè favorivano e amplificavano il ciclo economico negativo. A quelle politiche fu dato un nome apposito: “austerità”.

Grazie a quelle politiche soltanto l’Unione Europea è riuscita ad avere quella che gli economisti chiamano “W Recession”, una recessione con due picchi negativi.

Ora, c’è una vecchia barzelletta che racconta la storia di un automobilista che imbocca contromano l’autostrada e si chiede stupito: ma perché tutti mi vengono addosso?

Forse la barzelletta non è delle migliori o forse a Bruxelles l’ironia non è una delle virtù più praticate, sta di fatto che mentre tutto il mondo affronta la crisi del 2008 con misure espansive, l’Unione Europea è l’unica che decide di affrontarla con politiche restrittive.

Il MES e la logica del vincolo esterno

L’austerità dell’Unione Europea: perché questa scelta?

La domanda sorge spontanea: come mai? O noi europei siamo i più furbi di tutti oppure siamo i più fessi. A giudicare dai risultati economici è più probabile la seconda spiegazione: l’area Euro è stata, negli ultimi dieci anni, l’area del pianeta che è cresciuta meno sia pur con differenze da Paese a Paese. La scelta di affrontare la crisi con l’austerità non si è rivelata una scelta azzeccata. Ma cerchiamo di capire il perché.

Dobbiamo fare qualche passettino indietro e capire innanzitutto la natura della crisi del 2008, nata nel settore finanziario quindi nel settore privato e non in quello pubblico. Quello che era cresciuto nel decennio precedente al 2008 era il debito privato: il credito facile aveva consentito un aumento abnorme del livello del debito di famiglie e imprese, producendo, in molti Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, delle bolle immobiliari.

Ma come mai c’era stato questo boom del debito privato? Una ragione l’abbiamo già vista in alcune puntate precedenti. La rivoluzione neoliberista aveva portato all’eliminazione di tutta una serie di vincoli e controlli sul sistema bancario e finanziario, per cui fare credito era diventato più facile e meno costoso. Inoltre, a fronte di politiche di compressione salariale, l’unico modo per mantenere un livello adeguato di domanda aggregata era quello di favorire l’indebitamento. Un duplice sistema per tenere sotto controllo le classi lavoratrici. Da un lato ti tengo sotto controllo aumentando la concorrenza, riducendo le tutele e i diritti, indebolendo i sindacati; dall’altro lato ti tengo sotto controllo facendoti indebitare. La società dei consumi offre a ciascuno di noi quotidianamente mille occasioni di acquisto di prodotti e servizi sempre nuovi, più suggestivi, più indispensabili, almeno così ci fa credere la pubblicità. Se i salari reali non crescono molti possono farsi irretire dalla facilità con la quale si può comprare a rate. Il debito compensava il gap esistente tra aspirazioni di consumo dei lavoratori e redditi. Se i salari non crescono, per mantenere un’adeguata domanda di beni e servizi e quindi anche di profitti, occorre aumentare la possibilità d’indebitarsi. Ma nel lungo termine il meccanismo s’inceppa e a quel punto si va incontro alla crisi come accadde negli Stati Uniti con i mutui subprime.

Cose simili erano accadute anche in Europa. In quegli anni, prima del 2008, anche in Italia era scoppiata una piccola bolla immobiliare. In quel periodo era facilissimo ottenere mutui dalle banche, anche al 100% del valore dell’immobile. Inoltre, con l’adozione dell’Euro, i tassi d’interesse si erano ridotti e molte famiglie contrassero mutui per acquistare la seconda o la terza casa, così come molte aziende contrassero mutui per acquistare i capannoni o prestiti per acquistare i macchinari. Sembrava il mondo di Bengodi. Ma, dall’autunno del 2008, con il fallimento della banca Lehman Brothers, tutti i nodi vengono al pettine e l’enorme massa di debiti travolge il sistema bancario. Molti Paesi anche europei sono costretti a intervenire per salvare le loro banche. In Olanda 3 delle 4 principali banche vengono nazionalizzate, la stessa cosa accade nel Regno Unito, in Islanda, in Irlanda, in Francia e in Germania. Centinaia di miliardi di soldi pubblici, soldi dei contribuenti, vengono impiegati per evitare il fallimento delle banche. Il ritornello che si ripeteva in quei giorni era che le banche erano “to big to fail”, troppo grandi per fallire.

A quel punto l’Unione Europea si trovò a un punto cruciale della sua storia. L’Euro, la valuta comune, era una sorta di gabbia che teneva assieme paesi ed economie molto diverse e non consentiva più riaggiustamenti degli squilibri attraverso l’utilizzo del cambio, attraverso quindi svalutazioni e rivalutazioni. Per affrontare la crisi si sarebbe potuto fare un salto in avanti nel processo di integrazione sia economica che politica, introducendo, per esempio, meccanismi compensativi tra le varie aree dell’Unione per ridurre gli squilibri, trasformando la BCE in una vera e propria banca centrale con il ruolo di prestatore di ultima istanza, cominciando a mettere in comune anche i debiti emettendo gli Eurobond. In pratica si sarebbe dovuta aggiungere alla gamba del mercato e della valuta comune la gamba della solidarietà, presupposto imprescindibile per creare anche un’unità politica.

Perché non lo si fece? Lo abbiamo spiegato nelle puntate precedenti, per una ragione semplice: i tedeschi e la gran parte dei Paesi del centro e del nord Europa erano contrari, la loro visione di ciò che avrebbe dovuto essere l’Europa era profondamente diversa dalla visione inutilmente romantica di molti politici e opinionisti italiani.

Ma c’era anche una fondamentale ragione pratica: la Germania era il Paese che stava traendo i maggiori benefici dall’Unione Europea e dall’Euro così come erano stati strutturati, e quindi non avevano alcun interesse o incentivo a cambiare. Dall’adozione dell’Euro al 2008 l’avanzo commerciale della Germania nei confronti degli altri Paesi dell’Unione Europea era triplicato. Quegli avanzi commerciali creavano un surplus finanziario che i tedeschi investivano in buona parte negli altri Paesi dell’area Euro, soprattutto quelli mediterranei, guadagnandoci una seconda volta.

Ma tra il 2009 e il 2010 esplode il problema della Grecia − ne abbiamo parlato in una puntata precedente. La crisi greca ripropone in maniera ancora più drammatica la questione sopra esposta: o l’Unione Europea fa un passo avanti deciso verso forme più sostanziali di integrazione oppure rischia di disintegrarsi. I tedeschi comprendono il pericolo e impongono una nuova via d’uscita.

Una campagna di disinformazione

A quel punto comincia un’incredibile campagna di disinformazione che prende inizio da un’intervista rilasciata verso la fine del 2010 dal ministro tedesco dell’economia Wolfgang Schäuble, il quale detta la linea politica all’intera Unione Europea. In sintesi, dice, il problema non sono i debiti privati ma gli elevati debiti pubblici di Paesi come Grecia e Italia che vanno messi sotto controllo riducendo la spesa pubblica e quindi applicando politiche di austerità. Quei Paesi hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità.

Il primo Paese che viene preso di mira è la Grecia che viene bastonato a dovere per dare l’esempio secondo la vecchia logica: colpirne uno per educarne cento!

Poi arrivò il turno dell’Italia e cominciò il balletto degli spread e delle turbolenze sui mercati finanziari. L’Italia rischiava il default, così si diceva.

Gli italiani, che hanno altre qualità ma non sono certo un popolo portato per le rivoluzioni, tanto è vero che non ne abbiamo mai fatta nessuna, compresero il messaggio e si adeguarono, alcuni persino entusiasticamente, ai nuovi diktat e, prima che ci mandassero la Trojka, decidemmo di farcela da soli una sorta di “trojka all’amatriciana”. Fu mobilitato un austero professore di economia della Bocconi, Mario Monti, e gli fu dato l’incarico di guidare un governo cosiddetto “tecnico”, cioè un governo, finalmente, di competenti: la gran parte erano professori universitari, perché come si sa, quando c’è da confezionare una bella fregatura è bene mettere al comando qualcuno che ne sa e ne capisce. Il governo tecnico, con l’appoggio di tutto l’arco costituzionale, si prese la briga di bastonare ben bene gli italiani con riforme pensionistiche, tagli di spesa pubblica, aumenti di tassazione. Monti fu definito, con la retorica che si conviene ai momenti solenni “un salvatore della patria”. I risultati di quel “salvataggio” furono molto negativi dal punto di vista economico, il PIL scese, migliaia di aziende fallirono, la disoccupazione aumentò e persino il debito pubblico, che avrebbe dovuto scendere, salì e non di poco.

Ovviamente occorreva poi giustificare quei sacrifici e così furono armate le corazzate dell’informazione legate ai grandi gruppi finanziario-politico-editoriali affinché sfornassero le più inverosimili corbellerie.

Hanno cominciato raccontandoci che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, poi ci hanno detto che i nostri giovani non trovano lavoro perché sono viziati e bamboccioni; che i nostri pensionati hanno pensioni troppo generose; che siamo un popolo di cicale che sperperano i soldi a differenza dei molto frugali e previdenti popoli del centro e nord Europa; che non si può fare spesa pubblica in Italia perché tutti i soldi pubblici finiscono in mazzette e corruzione; che non si può fare spesa pubblica perché ci sono centinaia di miliardi di evasione fiscale; che c’è la crisi perché le nostre aziende sono troppo piccole e improduttive e infine abbiamo dovuto persino dar credito ad alcuni economisti che hanno teorizzato la cosiddetta “austerità espansiva”, un evidente ossimoro, che, senza tema di smentite, possiamo archiviare nel reparto delle baggianate.

Le politiche di austerità imposte dalla Germania, Paese creditore, ai Paesi del Sud Europa − Grecia, Spagna, Italia, Paesi debitori − sono servite in sostanza a tutelare e recuperare i crediti tedeschi. Alle banche greche i soldi chi glieli aveva prestati? Alle banche spagnole, che avevano alimentato una paurosa bolla immobiliare, i soldi chi glieli aveva prestati? Quanti soldi le banche germaniche avevano investito in titoli del debito pubblico italiano, piuttosto appetibili dato il più elevato tasso di interesse corrisposto, e a cosa è servito il governo Monti se non a consentire ai tedeschi di disinvestire in Italia e recuperare parte dei propri crediti?

Ben 60 miliardi sono stati sfilati a partire dal 2012 ai contribuenti italiani e sono finiti per finanziare i famigerati fondi salvastati, in pratica per salvare le banche del nord Europa, il “virtuoso” Nord Europa, che poi si presenta a darci lezioncine con l’indice puntato.

Le politiche di austerità hanno allargato gli squilibri tra i vari Paesi dell’Eurozona che si sono presentati all’appuntamento con la nuova crisi nel 2020, quella causata dal coronavirus, ancor più deboli e divisi con il rischio concreto che l’intera costruzione europea finisca gambe all’aria. Ma a questo punto, dopo il solito balletto di insulti e accuse reciproche, si è arrivati a un nuovo accordo politico chiamato Recovery Fund, ancora in alto mare. Ma di questo argomento parleremo nella prossima puntata.

Recovery fund: l’Italia al bivio

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