Benvenuta a Kandahar

Scritto da in data Gennaio 12, 2023

A mezzanotte di ieri sono arrivata a Dubai. Carica di roba e di aspettative, come sempre accade quando parto per l’Afghanistan. Un paese dove non amo andare d’inverno perché fa talmente freddo che le nostre vacanze estive di due mesi loro ce le hanno a gennaio e febbraio. Persino la guerra, in questi vent’anni, si sospendeva e riprendeva con l’offensiva di primavera dei talebani. Ma non si poteva non venire adesso a raccontare la discesa verso il baratro in cui stanno rotolando le donne afghane.

Sono cinque lunghe ore di attesa nell’aeroporto brutto di Dubai, che non è quello che conoscono tutti, lo scintillante Terminal 3 dove si vendono diamanti e computer come fossero caramelle. Esco dall’aeroporto bello, prendo un taxi, che per soli cinque minuti mi chiede pure la mancia, e approdo in quello dei poveri. Ci sono tutti i voli ritenuti un po’ sfigatelli: Muscat, Katmandu, Kabul per l’appunto. La gente trascina scatole di cartone stracolme, valigie rattoppate, coperte così sintetiche che ti sembra di potere dare loro fuoco anche solo con lo sguardo. Per due ore e mezzo me ne sto bivaccata in attesa che apra il check-in. Sono stanca, whatsapp mi tiene compagnia ma poi temo mi si scarichi il telefono.

Alle 2:35 apre il mio banco e, non so da dove siano spuntati, davanti avrò almeno centocinquanta talebani o presunti tali. Tutti uomini. Neanche ho tirato fuori il velo. Mi godo gli ultimi momenti di libertà dei capelli. A Dubai non è affatto obbligatorio. E loro non sono armati. E io sono molto stanca. So che non si dovrebbe, ma poi penso che il rispetto di una fila è proporzionato al rispetto che si ha delle persone che la fanno, e poi di quello che loro hanno per te. Lo faccio perché so di poterlo fare. Perché so che nessuno dirà nulla. Perché non sono nel loro ambiente mentre io, per quanto lontano da casa, sono nel mio. Piglio e li supero tutti, con il carrello, la valigia rosa, lo zaino e il computer. Non ho intenzione di farmi altre due ore di attesa in piedi con questi che mi fissano. Scavalco tutti, penso che sono i miei ultimi barlumi di resistenza prima di arrivare a Kabul: in questo momento sono tutte le donne che li vorrebbero superare, e così passo.

Uno fa un accenno e mi volto con lo sguardo più tagliente che mi esce… e si zittisce. Nessuno dice nulla. Mi metto davanti a tutti e, in un modo prepotente che di solito imputo agli uomini, neanche mi volto a guardarli. Faccio il check-in e vado al controllo. Lo so che non si fa, inutile sollevare un sopracciglio e arricciare il naso. L’ho fatto, e se questo fa di me una brutta persona, sopravviverò.

Arrivo al gate. Il volo è alle 5:30, ho altre due ore in compagnia di un mal di testa feroce. Mi metto seduta in mezzo a una fiumana di maschi, alcuni sono in ciabatte e mi chiedono come possano sopportare il freddo a Kabul, mentre io, vestita da astronauta sto schiattando a Dubai dove, in piena notte, ci sono 22 gradi. I miei scarponcini con il peluchetto dentro non sono l’ideale, ma già mi proietto nel prossimo futuro afghano. Penso anche ai tre milioni e mezzo di sfollati che non hanno vestiti, calze, coperte, a volte neanche un tetto sulla testa.

Saliamo. Come al solito, quando c’è una donna sola la mettono nei posti avanti dell’economica. Ovviamente un afghano ha già occupato il mio posto, sono sicura che non sa leggere i nomi occidentali. Lo stewart − non ci sono hostess − lo fa spostare. Mi siedo sulla soglia di un coma, dolorante tra mal di testa e quell’odore di montone che impregna l’aria. Non ci sono donne. Sono l’unica occidentale. Affondo nel paesaggio. Vorrei dormire, ma i telefonini squillano anche in volo e nessuno riesce a spiegare loro che andrebbero spenti. Ho due ore di volo e poi dovrò correre al ministero degli Affari Esteri, quello dove ieri un attentatore suicida dell’Isis si è fatto esplodere. Hanno rivendicato l’attentato. Si suppone che loro vogliano colpire i talebani, ma sono morti, come spesso accade, dei civili. Penso a tutte le volte che ho varcato quell’entrata, e a tutte le entrate che ho varcato che hanno cercato di fare esplodere. E penso a tutte quelle persone che vivono così ogni giorno della loro vita.

Arriva una colazione di “plastica”, mangio perché non so cosa fare, guardo quel mantello di nuvole che ci sta sotto, fitto come un materasso. Siamo nel sole, ma sotto non si vedono le enormi montagne che sovrastano il paese degli aquiloni. Mi appisolo un momento, anche se so che stiamo scendendo, ho un raggio di sole che mi accompagna e me lo godo. Arriva l’annuncio… non capisco nulla, tranne un Kandahar… e poi altro. Penso che stia dicendo che stiamo passando una delle più importanti città dell’Afghanistan, roccaforte dei talebani, luogo dove anni fa feci un reportage da paura. Mercato della droga. Una delle città dove si è combattuto di più. Qui vive il leader supremo dei talebani, quello che le donne le vorrebbe tutte a casa, sposate a dodici anni, a fare le sante mogli dei talebani. Non mi piace quel posto. Lì è dove nasce e dove muore il pensiero talebano. Siamo a sud, circa 600 km da Kabul.

L’aereo comincia la discesa. Batte terra. Un bell’atterraggio morbido. Però non ho visto l’immensa Kabul, i palazzoni, le piste trafficate, le macchine, i resti di vecchi elicotteri da guerra: vedo una distesa di terra color zafferano. E poi una scritta. Non è l’aeroporto di Kabul. Siamo a Kandahar. Chiedo al mio vicino, che mi guarda non capendo. Chiedo a quello accanto e niente. Sono un uccellino sordo tra le tigri. Non ci capiamo. Un’incomprensione ben più ampia della lingua. Mi sbraccio verso uno steward, mentre penso di essere salita sul volo sbagliato. E mentre il mio cervello valuta tutte le mosse successive. Macchina? Chi conosco qui? L’uomo in divisa mi spiega che a causa del mal tempo a Kabul, ci siamo dovuti fermare a Kandahar, che sbarcheremo e aspetteremo. E allora aspettiamo. Questo viaggio è più attesa che volo. E quando atterro, è pure nel posto sbagliato.

Ovviamente, nell’aeroporto di Kandahar non c’è wifi. Ho una macchina che mi aspetta a Kabul. Esco dall’aereo e vengo investita dal freddo polare. Scendo, cercando di scandagliare le persone illudendomi di poter riconoscere qualcuno che sappia qualche parola d’inglese. Alcuni hanno il turbante e i capelli lunghi, altri sono vestiti così leggeri che non capisco come possano non morire sul colpo. Uno mi sembra molto in stile occidentale. Parli inglese? «Si, certo». Meno male, che sta succedendo? «Staremo un paio d’ore e poi ci diranno di ripartire. Dovresti sederti nel reparto donne», mi spiega entrando in aeroporto. Sono così visibile in mezzo a loro. Mi sono tirata su il velo, ma fatica a essere disciplinato. Intravedo delle donne, tutte vestite di bianco. Hanno una piccola saletta, sono stipate. Gli uomini comodamente seduti sulle sedie, le donne a terra sui tappeti. Non mi avrete mai. Respiro nella mascherina, che ho cambiato da poco ma che indosso da Roma.

Mi butto nel bagno, piastrelle bianche rovinate e una fila interminabile di donne rumorose. Le interrogo fino a quando una mi dice di parlare un po’ di inglese. Tornano dall’Arabia Saudita dove erano andate per il pellegrinaggio alla Mecca, anche loro andavano a Kabul ma sono state dirottate per il mal tempo. Insieme, scoprirò poi, ad altri voli. C’è qualcosa nei “bagni delle donne”, qualcosa di antropologico, o forse è solo il posto dove gli uomini non possono entrare e loro si sentono al sicuro. E quindi parlano, come se quello che si dice là dentro restasse lì. E ora qui. Mi chiedono da dove vengo e cosa faccio. E appena dico giornalista, una sbotta «i talebani sono cattivi». Faceva la maestra, ora non fa nulla. Anche un’altra lavorava e ora consola le figlie che non vanno più a scuola. Aspetto il mio turno e il bagno fa schifo. Talmente schifo che non vorresti mai stare lì. Loro si lavano le mani e i piedi nel lavandino. Sono tutte donne adulte, alcune anche in carne, ma sollevano il piede lo infilano nel lavandino come se niente fosse, poi si rimettono il calzino e, sempre ridacchiando, escono. Mi raccontano, a gesti e mozzichi di frasi, quanto sia diventata triste e difficile la loro vita. Mi lavo le mani ed esco anche io, mi stanno intorno come a volermi proteggere dagli sguardi dei maschi. «Sono animali, vogliono solo sposarsi due o tre donne», dice una che mi sorprende con la sua franchezza.

Ma mi ributto nella parte maschile e affronto gli sguardi di disapprovazione. Ho i pantaloni con le tasche, gli scarponi, un giaccone di lana irlandese. Sembro in un limbo tra loro e le donne. Mi siedo accanto a quello che parla inglese. Mi dice che due, che io avevo già adocchiato, parlavano già a Dubai del mio velo cadente. Ma qui l’ho messo, sono in regola. Non possono dire nulla. Ma io posso pensare a dove li manderei. Anche se in quel momento mi sembra che ci sia io, dove li vorrei mandare. Il tipo mi racconta che vive a Londra dal 2007, lavora come traduttore ma sta tornando a Kabul perché il padre è morto e voleva essere seppellito nel suo paese. Gli chiedo cosa pensa della situazione, mi dice che è disperato, che per fortuna le sue sorelle sono all’estero. Che lui torna solo per seppellire il padre e recuperare la madre che era già in Afghanistan quando il padre è morto in Austria, dove vivevano. Ma questa cosa delle donne, perché gli afghani non fanno niente? «Credimi, da uomo mi vergogno, ma lo capisco anche, in Afghanistan non ci sono risposte semplici».

Le divisioni etniche, le guerre, la povertà, la paura di morire, niente aiuta. Passa un’ora, risaliamo a bordo. Pare che il cielo si sia aperto, e dall’alto finalmente si vedono le montagne di Kabul. Un’ora di volo a guardare tra le cime più alte del mondo. Mi hanno spostato in prima classe perché in fondo sono gentili. All’aeroporto di Kabul è la baraonda, tutti i voli dirottati stanno arrivando insieme. Gente, facchini, valigie. E io ho fretta. Vedo uno che conosco da sempre. Mi trova la valigia, corro al parcheggio, salto in macchina e vado in hotel. Ho una lunga conversazione con l’autista, mi parla della preoccupazione per le due sorelle, andavano all’università, ora sono a casa a piangere, giocano con il telefonino, guardano film: a questo si è ridotto il mondo delle giovani donne. Un crimine contro l’umanità, privare le ragazze della gioia di crescere, sperimentare, imparare. Lui è hazara, lo chiamano il popolo gentile, la minoranza sciita perseguitata da tutti, ma quella che più di altri ha investito nell’istruzione, che oggi non aiuta. Mi racconta dei suoi genitori e del loro matrimonio combinato, di come è difficile tirare avanti e di come loro, che sono solo sei figli, neanche tanti per la media afghana, arrancano.

Lui è l’unico maschio e deve badare a tutti. Il traffico ingestibile di Kabul è quasi rassicurante, riconosco tutto. Ormai è troppo tardi per prendere l’accredito al ministero, vado nel mio albergo e mi metto a scrivere. Sono cinque ore in ritardo sull’arrivo, non dormo da trentasei ore. Però sono tutta intera anche se infreddolita, stanca morta ma accolta da chi lavora qui e conosco da anni, è come se tornassi a casa. Kandahar, con le sue donne in bianco e gli uomini barbuti, me la sono già dimenticata. E ora di mettersi a lavorare. Per poi scoprire che l’Afghanistan è anche quello che ho vissuto oggi.

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