Palestina: Le leonesse di Jenin

Scritto da in data Gennaio 9, 2024

JENIN (Cisgiordania) – Lo chiamano ‘la piccola Gaza‘, il campo profughi di Jenin. Ed è il posto più martoriato al di fuori dell’enclave palestinese. Venne fondato nel 1953 quando il campo originario della zona venne distrutto da una tormenta di neve.

15mila abitanti in un insieme di palazzine desolanti che si susseguono una accanto all’altra, lungo strade che sembrano formare un labirinto di viuzze. Dopo le ultime incursioni dei soldati israeliani, quelle strade sono distrutte e manca l’elettricità. Stanno provando a ripristinarla, insieme alla connessione wifi, ma gli israeliani hanno già avvertito che è tutto inutile, perché torneranno presto. Forse stasera, forse domani.

Prima del 7 ottobre i soldati israeliani irrompevano nel campo tre, quattro volte al mese. Ora ogni due tre giorni. I residenti sono esausti e impauriti. Vanno a caccia di combattenti: in realtà per uno ricercato ne prendono tanti altri che non c’entrano nulla.

Qui non c’è Hamas: sono per lo più ragazzi che si uniscono alla Jihad Islamica, un movimento che ha l’obiettivo di liberare la Palestina. Ed è qui che vivono e resistono, motivo per il quale Israele ha fatto irruzione nel campo più di qualsiasi altro luogo della Cisgiordania, uccidendo almeno 82 palestinesi dall’inizio della guerra a Gaza, un quarto secondo i dati delle Nazioni Unite di tutti i morti negli attacchi da parte dei coloni e dell’esercito da questa parte della Palestina.

Solo tre giorni fa, alle porte di Jenin 6 palestinesi sono stati uccisi insieme da una poliziotta di frontiera israeliana. Quattro di loro erano fratelli. Quattro in tutto i soldati israeliani morti dall’inizio del conflitto.

Per Israele le incursioni, quasi sempre notturne e che durano ore, servono a prevenire un qualsiasi assalto come quello del 7 ottobre che ha causato la morte di quasi 1200 israeliani. Ma per chi vive nel campo e per le organizzazioni dei diritti umani, le campagne militari a Jenin sono state le azioni israeliane più distruttive fuori di Gaza.

Spiegano che l’intenzione è quella di perpetrare una punizione collettiva nei centri dove pullula la resistenza e renderli così disabitati. E Jenin trasuda resistenza da ogni foto nuova o sbiadita appiccicata ai muri crivellati di proiettili e ricoperti di scritte. Sono i volti dei martiri, ragazzi deceduti – alcuni combattendo, altri cercando di soccorrere qualcuno, altri ancora cercando di frapporsi fra i soldati e le famiglie che se li ritrovavano in casa.

A uno degli ingressi della città la cui pavimentazione è stata completamente strappata, ora sorge un piccolo cimitero dove ci sono i deceduti più recenti. Accanto alle tombe ancora fresche ci sono gli amici dei ragazzi morti che li vanno a trovare ogni giorno. Alcuni non si capacitano di non vederli più, altri parlano ancora con loro. Tutti sanno che potrebbero essere i prossimi.

Una mattina a Jenin

L’ansia

“Una madre si preoccupa sempre dei suoi figli, che abbiano 2 o 40 anni. Ma una mamma di Jenin sa che può perdere suo figlio in qualsiasi momento in modo violento. Quando hai un figlio maschio sai che trascorrerai tutta la vita nell’ansia che arrivi qualcuno e ti dica che è morto”, racconta una signora dell’associazione not to forget che ci accompagna per il campo.

Non si gira senza qualcuno del posto: il gruppetto di donne che ci circonda occupa la strada divelta come se fosse la loro. E di fatto lo è, perché le donne vengono spesso trascurate nel quadro di una qualsiasi forma di resistenza, come se loro non fossero parte di tutto il dolore di cui trasuda quel posto, intriso di povertà estrema, dove non c’è lavoro e quel poco che c’era, dopo il sette ottobre, è andato in fumo come molte delle case attaccate dagli israeliani.

L’associazione ha diversi programmi che aiutano le donne e i bambini, soprattutto per l’aspetto psicologico di vivere costantemente sotto assedio e vedere i propri cari picchiati, ammanettati, portati via.

Sono i rumori delle incursioni a sconvolgere di più bambini e bambine. Il rumore degli elicotteri, dei droni, dei colpi di proiettili o razzi che siano, ma anche il rumore delle porte che cadono, dei muri buttati giù per passare da una casa all’altra senza stare in strada. “Mio nipote è terrorizzato dai cani”, racconta una signora.

I raid israeliani

Gli israeliani di solito entrano nelle case a caccia dei loro ricercati o anche solo per fare un’incursione, in piena notte. Spingono donne e bambini da una parte, uomini dall’altra, distruggono tutto, prendono l’oro – che di solito è la dote delle mogli – e, se li trovano, anche soldi. Aizzano i cani a chi fa un passo avanti per obiettare.

“Mio nipote era un combattente, prima di trovarlo hanno demolito due case oltre la mia. Ad aprile lo hanno arrestato e d’allora è dentro. Lo hanno accusato di aver ucciso la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Aqle, ma poi i video hanno provato che non è stato lui, così lo hanno accusato di tirare pietre. Poi hanno preso anche suo padre, mio figlio. Stava aiutando un ferito”, ci racconta Eie Mureb, 67 anni, casalinga e madre di sei figli. “Sono due anni che siamo senza casa. Ora stiamo provando a ricostruirla, ma costa”.

“Molti bambini non vogliono più uscire di casa perché hanno paura. Ed è per loro che molte famiglie hanno affittato una casa a Jenin City che è attaccata e li portano a dormire fuori, perché se no non chiudono occhio. Poi di giorno tornano, perché la loro vita è qui”, ci spiega Majda dell’associazione mentre indica le case bruciate e i muri abbattuti.

Jenin è la sede di uno dei 19 campi profughi istituiti per ospitare i palestinesi cacciati dalle loro case dopo la fondazione di Israele nel 1948. “Nelle ultime settimane tutto si è intensificato, questo posto è diventato invivibile, anche l’ultimo centro sanitario delle Nazioni Unite non funziona più e quando ci sono dei feriti i soldati israeliani impediscono alle autombulanze di soccorrere le persone”.

Arrivano con jeep e bulldozer, a novembre hanno perfino tirato giù gli archi che segnavano l’ingresso alla città con la scritta: “Un posto di passaggio fino al nostro ritorno (a casa)”. Ma se questa è una casa provvisoria, certo è che qui nessuno ha intenzione di andarsene, se questo è quello che vogliono gli israeliani.

Lungo la strada il barbiere sembra l’unico posto dove si vedono in giro gruppetti di uomini. “Ormai ci stiamo adattando anche a questo. Ci uccidono, e noi la mattina andiamo a farci la barba”, mormora un barbiere troppo magro per stare bene. Un anno fa gli hanno sparato i soldati israeliani, i medici lo hanno salvato ma ha perso un rene. Tre dei suoi familiari sono stati uccisi.

Eri ricercato? Eri un combattente? Mi lancia uno sguardo tra i più dolci che la sua faccia potesse tirare fuori. “Per essere uccisi basta  essere di qua. Non serve avere fatto qualcosa. Basta quello che siamo”.

La gente dice che i raid vanno ben oltre la ricerca di armi e combattenti. Prendono di mira chiunque e qualunque cosa, che si tratti di istituzioni culturali o simboli. Sono perfino entrati nella moschea e hanno fatto andare musica dagli altoparlanti del muezzin che cinque volte al giorno chiama i fedeli alla preghiera.

Le ruspe hanno distrutto muri, statue come quella del cavallo donata da un artista tedesco dopo l’assedio del 2002, quando a Jenin si combatté per dieci giorni – decine di morti e 400 case distrutte. Ma ora è molto peggio, mormorano tutti. Su un muro è stata dipinta una stella di David e in giro ci sono scritte con “Lunga vita ad Israele”.

Neanche il Freedom Theatre si è salvato. Forse una delle istituzioni culturali più conosciute di Jenin, nato nel 2006. E stato distrutto in questi giorni. Non era una base militante. Anche il direttore del teatro Mustafa Sheta è stato arrestato, senza che si sappia bene dove sia.

Figli

Superiamo un portone nero, saliamo le scale e Fatiha ci aspetta con una tazza di caffè arabo. Solleviamo i tappeti per non sporcarli con il fango delle scarpe e ci sediamo in un piccolo salotto accogliente. Il suo edificio è quello che ospita i cecchini israeliani quando arrivano. Fanno irruzione, entrano a casa sua, poi sopra, dal figlio sposato, e poi sul tetto, dove si piazzano. Ogni volta. Ci mostra un video delle nipotine che camminano per strada, hanno tre e quattro anni, le mani sollevate, sventolando un fazzoletto bianco e sfilando davanti ai soldati israeliani in segno di resa.

Sono troppo piccole per tutto questo. Sono troppo piccole per capire, nei loro codini svolazzanti ma con lo sguardo di chi ha già visto troppo. Anche per Amer è così. Discutiamo per un po’ sull’opportunità di citare il suo nome. “Lo devi scrivere”, insiste. “Voglio che tutti sappiano, che vedano la mia faccia, perché io non ho fatto niente di male”.

Arrestato sei volte, trattenuto ogni volta per un mese e poi rilasciato. La sua vita è scandita dagli arresti e dalla rabbia che controlla fumando nervosamente e alzandosi ogni cinque minuti. “Non trovo lavoro, non ho mai avuto un’adolescenza, tutti i miei amici sono morti e in qualsiasi momento posso essere arrestato di nuovo. Ti sembra vita questa? Dovrei essere un ragazzo normale, aver finito la scuola e trovarmi una ragazza da sposare. E invece mi arrestano”. Si alza, se ne va, torna, se ne va di nuovo via.

La madre è preoccupata: quando l’ultimo dei suoi amici più cari è morto poche settimane fa, si è chiuso in camera sua per quattro giorni, senza mangiare, senza dormire. Non parlava. Ora va spesso al cimitero per stare con i suoi amici morti.

Ma se te ne andassi? “Preferisco morire che andarmene. Questa è casa mia e da qui me ne vado solo se voglio io, non se lo decide qualcun altro”. Punto. Inesorabile. Come tutti. Giovani o vecchi che siano. Uomini o donne. Sono così intrecciati a quelle mura grigie e crivellate come non potremmo mai capire. È come se la terra, anche quando li uccide, fosse un prolungamento dei loro corpi o forse delle loro anime.

È la Palestina che ti entra dentro e non ti lascia più.

“La cosa peggiore è l’umiliazione che viviamo continuamente. I soldati picchiano i nostri figli davanti a noi, li calpestano, li spogliano, li portano via. Non attaccano le donne, a meno che una reagisca e allora gli scagliano i cani, ma a volte quello che vediamo che fanno alle nostre famiglie è più doloroso dell’essere picchiati”.

E così le donne di Jenin si caricano addosso il peso di ascoltare, proteggere, soccorrere e quando possono aiutare. Ma soprattutto del dolore che le circonda. Di quella vita trascorsa sotto assedio in balia dei raid e dell’occupazione. Sono quelle che come sempre raccolgono i cocci, quelli rotti dagli israeliani e quelli delle vite distrutte dei loro figli.

Foto: Barbara Schiavulli

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