Disuguaglianze e crescita economica

Scritto da in data Gennaio 25, 2021

La ricerca economica ha dimostrato in maniera ormai inequivocabile che un aumento delle disuguaglianze riduce la crescita economica.

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Le disuguaglianze economiche

Nella puntata precedente abbiamo visto che consentire a piccole élite di accumulare ricchezze smodate non risponde ad alcuna legge economica, ma è un fenomeno che ha giustificazioni soltanto di carattere politico, culturale e ideologico. Proseguiamo con la rassegna di alcune delle principali giustificazioni che sono state elaborate per spiegare le disuguaglianze economiche.

Una delle giustificazioni più in voga a partire dagli anni Novanta fu la cosiddetta trickle-down theory, la teoria dello sgocciolamento. Spieghiamo in breve di cosa si tratta. Alcuni economisti statunitensi neoliberisti teorizzarono che i benefici fiscali, quindi il taglio delle tasse alle classi più abbienti, si traducono in base al principio del trickle-down in benefici anche per la middle class e per le classi più povere. Sembra una teoria intuitiva e per questo molto suggestiva e convincente. Se facciamo pagare meno tasse ai più ricchi costoro avranno più soldi da spendere e quindi spendendo di più avvantaggeranno anche quelli che stanno peggio di loro. Un po’ della ricchezza che verrà lasciata nelle tasche dei ricchi finirà nelle tasche dei poveri. I ricchi inoltre sono generalmente i proprietari di grandi aziende: se avranno più soldi a disposizione investiranno di più nelle loro attività creando nuova occupazione e nuova ricchezza per tutti. Togliere soldi ai ricchi mediante aliquote fiscali molto elevate per darli in mano a inefficienti burocrazie statali, che il più delle volte li spenderanno male, è operazione antieconomica. I ricchi perseguendo il loro interesse e il loro obiettivo di diventare ancora più ricchi, tramite lo “sgocciolamento” avvantaggeranno anche i ceti medi e quelli popolari.

Qualcun altro ha tradotto la teoria con un’immagine ancor più suggestiva, quella della marea. Se la marea sale fa salire le barche più grandi ma anche quelle più piccole. Quindi, se una piccola oligarchia di super ricchi − le grandi barche − diventa più ricca e investirà in nuove attività aumentando la crescita (facendo salire la marea), ci saranno vantaggi anche per le barche più piccole (classe media e lavoratori).

Queste teorie, che sono molto suggestive e fanno facilmente presa sull’opinione pubblica perché sembrano semplici e logiche, hanno però un fondamentale problema: non funzionano!

Come hanno sottolineato diversi economisti, con la trickle-down theory il rischio è che ai ricchi restino i maccheroni mentre quel che sgocciola a tutti gli altri è soltanto l’acqua di cottura. Non c’è alcuna evidenza empirica, quindi non ci sono dati, che riscontrino questa teoria. Si tratta di una suggestiva ipotesi accademica, un efficace artificio retorico che non ha alcun riscontro nella realtà storica. Il risultato dell’applicazione di teorie del genere negli ultimi tre decenni ha semplicemente arricchito ulteriormente chi era già ricco mentre chi non lo era ha perso reddito e tutele.

Va ricordato che l’economia è talvolta una scienza controintuitiva e quindi le spiegazioni intuitive sono spesso sbagliate. Cosa vuol dire controintuitivo? Significa qualcosa che va contro le aspettative comuni. Per capire questo concetto facciamo un esempio banale. Se il vostro panettiere un bel giorno sforna un nuovo tipo di pane particolarmente buono e quel pane viene molto richiesto, cosa succederà al prezzo di quel pane? Se la domanda di quel tipo di pane aumenta, il ragionamento intuitivo ci direbbe che il prezzo dovrebbe diminuire perché produrne grandi quantità consente di ridurre i costi di produzione e quindi anche il prezzo potrebbe ridursi. In realtà non funziona così e quel che accade è l’esatto contrario: se la domanda di un bene cresce crescerà anche il suo prezzo. Ragionamento controintuitivo, ma è quello che succede perché il produttore di quel bene ha come suo obiettivo la massimizzazione del suo profitto. Senza andare molto lontani, pensiamo a un prodotto che ultimamente ha avuto un grande successo: i biscotti alla Nutella. Ormai si trovano in tutti i supermercati, hanno un costo piuttosto elevato e per mesi si faceva fatica a trovarli, sparivano subito. Perché? Perché la gente li compra lo stesso, anche se costano un bel po’ di più rispetto ad altri biscotti, in primo luogo perché si fida del brand, del marchio Ferrero e quindi dei suoi prodotti e, secondariamente, perché oggettivamente sono tremendamente buoni! Quindi la Ferrero non ha alcuna necessità di abbassare i prezzi.

Propensione al consumo

La teoria dello sgocciolamento, inoltre, contrasta con un’altra teoria economica che ha invece riscontri empirici ormai consolidati. Gli economisti sanno che la propensione al consumo è più elevata tra chi ha redditi più bassi. Cosa significa? Facciamo un piccolo esempio. Se noi prendiamo un miliardo di euro e lo regaliamo a un super miliardario è più probabile che non se ne faccia granché: è già pieno di soldi, quindi parcheggerà quell’ulteriore miliardo in qualche paradiso fiscale o lo destinerà a speculazioni finanziarie nel tentativo di diventare ancora più ricco. Magari è bravo negli investimenti e riuscirà a raggiungere il suo obiettivo e come Paperon de’ Paperoni moltiplicherà i suoi fantastiliardi. Non ci sarà alcun effetto sull’economia reale. Se invece prendiamo un miliardo e lo suddividiamo in tranche da 2.000 euro, e regaliamo a 500.000 contribuenti che guadagnano meno di 30.000 euro lordi l’anno un bonus da 2.000 euro, cosa succederà? Certamente qualcuno avrà qualche debito pregresso da saldare, qualcun altro deciderà di accantonare tra i risparmi se non tutta almeno una parte di quella somma, ma la maggior parte finiranno per spendere quei soldi aumentando così la domanda di beni e servizi e facendo crescere l’economia reale. Quindi, da un punto di vista economico, è più sensato ridistribuire i soldi tra i più poveri che ne hanno maggior bisogno che non tra i più ricchi che non ne hanno bisogno. Elementare Watson!

Un’altra delle giustificazioni che vengono portate è la seguente. Il principio di introdurre tassazioni anche molto elevate sui super ricchi in linea di principio potrebbe essere una buona idea, probabilmente sarebbe anche giusto ma, in un mondo globalizzato, non potrà mai funzionare. I super ricchi quando sentono odore di prelievi fiscali se la danno a gambe con il malloppo. Basta spostare i capitali, le sedi legali delle aziende, e il gioco è fatto! Per cui questo genere di soluzioni, per quanto sensate, risultano di difficile attuabilità pratica a meno che non ci siano accordi tra tutti i paesi. Mettere d’accordo i vari paesi, che normalmente si fanno concorrenza fiscale tra di loro, è molto complicato. Non si riesce a mettere d’accordo nemmeno i paesi dell’Unione Europea. All’interno della stessa Unione ci sono paesi che possono essere definiti dei paradisi fiscali, pensiamo al Lussemburgo, ma per alcuni aspetti anche l’Olanda, l’Irlanda o alcuni paesi dell’Europa dell’Est.

Questa osservazione è oggettiva ma non regge innanzitutto dal punto di vista logico: dire che qualcosa è difficile da fare, non significa dire che non si possa o non si debba fare. Altrimenti, perché dovremmo contrastare la criminalità organizzata? È molto difficile combatterla e sradicarla, ha molti soldi, agganci con la politica, si muove liberamente sul piano internazionale, quindi che dovremmo fare? Lasciarle campo libero?

Un’altra delle giustificazioni culturali alle disuguaglianze che, curiosamente, viene “bevuta”, fatta propria e propagandata anche da persone che, politicamente, si definiscono di sinistra ma che culturalmente sono rimaste subalterne alla destra, è la seguente.

È vero che i livelli di disuguaglianza sono in aumento in tutto il pianeta, ma queste disuguaglianze sono il frutto necessario di una globalizzazione che sta semplicemente riequilibrando le cose. Dopo secoli nei quali l’Occidente ha sfruttato altri popoli e altri continenti, gli sfruttati di un tempo stanno semplicemente recuperando parte del maltolto. Lo sfruttamento colonialista prima e quello neocolonialista dopo avrebbero depauperato quei paesi, e se oggi crescono e noi stiamo fermi, quel che sta avvenendo è soltanto un giusto processo storico di riequilibrio. Quindi cari europei e americani, non lamentatevi se vi riducono il welfare, le pensioni, i salari, le tutele. Sono sacrifici necessari per dare qualche opportunità in più ai bambini ghanesi, peruviani, indiani e cinesi.

Una “bufala” dei neoliberisti

Un aumento delle disuguaglianze e una riduzione dei salari e delle tutele nei paesi ricchi sarebbero compensati da una riduzione delle disuguaglianze nei paesi poveri e un aumento delle opportunità e delle tutele in quei paesi. Questa straordinaria “bufala” serve a coloro che non vogliono che le leggi sacre e intoccabili della globalizzazione neoliberista vengano modificate, perché sono quelle che servono ai grandi capitali e all’aristocrazia del denaro per continuare liberamente a farsi i fatti propri senza essere disturbati da inopportune richieste di redistribuzione. Questa tesi, che parte comunque da presupposti sbagliati perché le disuguaglianze negli ultimi trent’anni sono cresciute dappertutto sia nei paesi più sviluppati che in quelli in via di sviluppo, come dicevamo fa molta presa  anche a sinistra, o meglio fa molta presa su quello che qualcuno, acutamente, ha definito il “sinistrismo”: quel particolare stato dell’anima per cui ci si convince che essere di sinistra significhi mischiare un po’ a caso alcune banalità, qualche luogo comune e generici afflati umanitari.

La prima fondamentale obiezione che si può muovere a questa tesi è che l’economia non funziona così! Non sta scritto da nessuna parte che se io mangio un piatto di pastasciutta in meno ci sarà qualche bambino che mangerà qualche piatto di pastasciutta in più in Bolivia, in Bangladesh o in Uganda. La fonte delle disuguaglianze non sta nel fatto che i lavoratori o la middle class dei paesi più ricchi hanno conquistato qualche diritto e un po’ di benessere. La causa sta nelle regole di funzionamento dell’economia globale, regole studiate per tutelare piccole minoranze sia nei paesi ricchi che in quelli meno ricchi a danno di tutti gli altri.

Senza dilungarci ulteriormente sulle teorie più o meno fondate o più o meno strampalate elaborate per giustificare le disuguaglianze, poniamoci una domanda fondamentale. Partendo dall’assunto iniziale che non esiste alcuna ragione economica che possa giustificare le forti disuguaglianze, chiediamoci se queste servano magari a favorire la crescita.

Sul rapporto esistente tra disuguaglianze e crescita, la ricerca economica si interroga ormai da decenni. Già negli anni Cinquanta del Novecento economisti importanti come Simon Kutznets e Nicholas Kaldor − nomi poco conosciuti al grande pubblico ma si tratta di grandi studiosi: Kutznets vinse il premio Nobel nel 1971 − sostenevano che maggiori disuguaglianze portano a una riduzione dei tassi di crescita.

Più recentemente economisti come il francese Thomas Piketty ha riportato al centro della sua attività scientifica il tema delle disuguaglianze, arrivando alle stesse conclusioni.

Esiste ormai una consolidata letteratura scientifica e infinite ricerche empiriche che dimostrano l’esistenza di quello che gli economisti chiamano un trade off tra aumento delle disuguaglianze e crescita dell’economia. Il termine trade off significa che esiste una relazione funzionale tra i due fenomeni, per cui la crescita dell’uno è incompatibile con la crescita dell’altro.

L’aumento delle disuguaglianze riduce la crescita economica

Ma se le evidenze empiriche ci portano a constatare che una crescita delle disuguaglianze ha un effetto negativo sulla crescita economica, torniamo a una considerazione che facevamo all’inizio della puntata precedente, quando si diceva che consentire a una ristretta élite di arcimiliardari di continuare ad accumulare ricchezze a scapito del resto della popolazione è indice di una inefficiente allocazione delle risorse. La conseguenza logica che ne deriva è che ridurre le disuguaglianze non è soltanto una questione di giustizia sociale ma diventa anche un problema di efficienza economica. Ridurre le disuguaglianze non è soltanto la fisima di qualche vetero bolscevico, di qualche ex sessantottino di recupero o di qualche “anima bella” con la zucca piena di romantico idealismo. Ridurre le disuguaglianze diventa un modo concreto per migliorare le performances di un sistema economico, aumentandone i ritmi di crescita con conseguenze positive per tutti.

Che l’aumento delle disuguaglianze abbia effetti negativi sulla crescita lo riconoscono ormai la gran parte degli economisti. Nel 2015 persino l’OCSE, l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica, un ente di ricerca e di orientamento internazionale che è stato per anni una delle roccaforti dell’ortodossia neoliberista, ha pubblicato un Report che si intitolava: “In it togheter: why less inequality benefits all”, che si può tradurre come: “Tutti coinvolti: perché meno disuguaglianza avvantaggia tutti”.

In quell’analisi si partiva dalla constatazione che le disuguaglianze, negli ultimi trent’anni, hanno continuato ad aumentare nella maggior parte dei paesi, fenomeno ulteriormente accentuato dalla crisi del 2008. Questo fatto, oltre ad avere impatti negativi sul piano sociale, ha effetti anche sulla crescita economica. Si calcola che in vent’anni, tra il 1990 e il 2010, l’aumento delle disuguaglianze ha ridotto la crescita di almeno 5 punti percentuali.

Gli effetti negativi dell’aumento delle disuguaglianze

Uno dei principali effetti negativi dell’aumento delle disuguaglianze è quello sul capitale umano. Per quanto ci sia sempre un divario di risultati nel campo dell’istruzione tra soggetti con diverse origini socioeconomiche, nei paesi dove crescono le disuguaglianze questo divario aumenta e ciò implica meno mobilità sociale e uno spreco di capitale umano.

Dal 1990 oltre il 50% dei nuovi posti di lavoro creati sono riferibili a una tipologia atipica: lavori temporanei, part-time, autonomi. Ma l’aumento delle forme atipiche di occupazione ha fatto crescere le disuguaglianze. Molti lavoratori con contratti atipici sono svantaggiati per quel che riguarda la remunerazione, la sicurezza del posto di lavoro, le possibilità di accedere a programmi di formazione. Le famiglie che dipendono molto da redditi da lavoro atipico hanno tassi di povertà più elevati e l’aumento di questo numero di famiglie ha contribuito all’aumento della disuguaglianza complessiva.

Un’eccessiva concentrazione dei patrimoni riduce inoltre in maniera consistente la capacità di investimento per le classi sociali medio-basse, e quindi l’elevata concentrazione della ricchezza finisce per indebolire la crescita potenziale.

Alla fine di quel report si consigliava ai governi di intraprendere precise azioni di politica economica indirizzate in quattro direzioni principali:

  • Aumentare la partecipazione delle donne nella vita economica, rimuovendo le disparità di trattamento.
  • Promuovere occupazione e posti di lavoro di qualità, quindi ben remunerati e con possibilità di crescita professionale, non vicoli ciechi o ripieghi.
  • Accrescere formazione e istruzione, in pratica migliorare la qualità del capitale umano, perché in un’economia che evolve rapidamente e che richiede sempre nuove competenze è fondamentale.
  • Adottare sistemi fiscali e previdenziali che siano in grado di realizzare un’efficiente ridistribuzione dei redditi.

Come si vede, non c’è bisogno di essere comunisti per invocare maggiore giustizia sociale, persino organismi come l’OCSE ribadiscono che contrastare le disuguaglianze è utile per l’efficienza complessiva del sistema economico, a vantaggio di tutti.

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