Economia digitale: liberazione del lavoro o nuovo sfruttamento?

Scritto da in data Settembre 14, 2021

L’economia digitale, la crescente automazione e robotizzazione porteranno alla scomparsa del lavoro o a nuove forme di sfruttamento?

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Ned Ludd

Non è chiaro se Ned Ludd sia mai esistito veramente, ma secondo le voci popolari era un operaio tessile inglese che, nel 1779, per protesta distrusse alcuni telai meccanici per maglieria. La rivoluzione industriale era agli albori e la creazione di grandi opifici, con la meccanizzazione della produzione, stavano sostituendo la vecchia pratica del lavoro a domicilio. I nuovi macchinari industriali erano considerati da Ludd e da molti suoi compagni come la causa principale dei bassi salari e della crescente disoccupazione. Le macchine portavano via il lavoro agli umani e quindi l’unico modo per salvaguardare gli interessi dei lavoratori era quello di distruggere le macchine.

Ludd divenne un simbolo e quando alcuni decenni dopo, nel periodo tra il 1811 e il 1816, in diverse regioni dell’Inghilterra, dal Leicestershire al Derbyshire, dal Lancashire allo Yorkshire ci furono proteste violente di operai che distrussero centinaia di telai meccanici, quei rivoltosi furono chiamati luddisti. Il governo britannico dovette mobilitare più di 10.000 soldati per reprimere quelle proteste e molti di coloro che parteciparono a quei moti finirono sulla forca, altri furono incarcerati, mentre alcuni dei sopravvissuti daranno vita qualche anno più tardi alle Trade Unions, le prime organizzazioni sindacali dei lavoratori inglesi. Quegli operai si accanivano contro le macchine, ritenute responsabili della loro miseria, quando in realtà il problema era ben altro, come spiegò qualche decennio dopo Karl Marx: il problema non erano le macchine ma lo sfruttamento capitalistico. Ma, da allora, i termini “luddista” e “luddismo” sono sempre stati utilizzati in maniera un po’ dispregiativa per identificare tutti coloro che, per qualunque ragione, si oppongono alle innovazioni tecniche e al progresso tecnologico.

Le macchine tolgono il lavoro agli umani?

Il dibattito sulle macchine che portano via il lavoro agli umani è, quindi, antico almeno quanto la rivoluzione industriale. Negli ultimi due-tre decenni, con le grandi innovazioni determinate dalla rivoluzione informatica e con la crescita costante di quella che è stata chiamata “economia digitale”, quel dibattito è tornato a essere attuale.

Senza addentrarci in disquisizioni di tipo accademico e semplificando molto, possiamo dire che tra gli studiosi, economisti e sociologi si confrontano due tesi differenti.

Da un lato ci sono coloro i quali ritengono che la sempre più spinta digitalizzazione dell’economia, in pratica l’applicazione di tecnologie informatiche ai processi produttivi, la sempre più diffusa automazione, la robotizzazione e l’intelligenza artificiale produrranno in un breve lasso di tempo, da qualche anno a qualche decennio, una rivoluzione della nostra economia e quindi, di conseguenza, anche delle nostre società i cui risvolti non sono ancora facilmente comprensibili. Quel che è certo è che spariranno milioni di posti di lavoro e le macchine e i software sostituiranno gli umani in gran parte dei processi produttivi, sia nei settori industriali ma anche in agricoltura e nei servizi. Di conseguenza si porrà un enorme problema non soltanto economico ma anche sociale, psicologico e politico: come camperanno quei milioni di lavoratori che perderanno il lavoro e non riusciranno a trovarne un altro perché ormai le macchine sostituiranno gli umani? Cosa faranno, come impiegheranno il loro tempo quelle persone? In che modo le nostre società potranno affrontare questo cambiamento epocale? L’automazione potrà liberare gli esseri umani dalla fatica del lavoro, e questo potrebbe essere un fatto estremamente positivo, ma poi da dove trarremo il reddito per vivere? La liberazione dalla necessità di lavorare aprirà all’umanità prospettive inimmaginabili. Inoltre, le macchine non potranno eliminare tutti i tipi di lavoro, magari elimineranno − come già avviene in molti stabilimenti industriali − i lavori più noiosi, più routinari, più faticosi e pericolosi mentre i lavori più complessi dovranno comunque essere svolti da esseri umani.

Qualcuno si è spinto a suggerire possibili soluzioni prospettando l’introduzione di un reddito universale. In pratica il reddito dovrebbe diventare una sorta di rendita suddivisa tra tutti i cittadini derivante dal lavoro delle macchine. Secondo altri, se il lavoro umano si riduce si porrà il problema di suddividere quel lavoro tra più persone, una sorta di nuova versione del vecchio slogan sindacale: lavorare meno, lavorare tutti.

Il tema sembra astratto e apparire come una prospettiva suggestiva ma molto in là nel tempo, mentre invece, suggeriscono i sostenitori di questa tesi, questa rivoluzione tecnologica sta già avvenendo senza che noi ancora ce ne rendiamo ben conto.

Altri studiosi invece ritengono questa tesi per certi aspetti piuttosto apocalittica, per altri eccessivamente ottimistica, in ogni caso poco probabile. Certamente le macchine e la robotizzazione hanno già cominciato a sostituire gli umani in molti compiti spesso pesanti, routinari, pericolosi ma la realtà economica è più complessa e articolata e l’esito finale meno deterministico. Secondo costoro bisogna fare molta attenzione perché quel che accade nell’economia digitale non è la scomparsa del lavoro ma altri due fenomeni, il primo dei quali è la scomparsa dell’occupazione ma non del lavoro.

Qualche esempio pratico

Facciamo alcuni esempi pratici per capirci meglio. Prima di internet e della rivoluzione informatica, se qualcuno doveva fare un bonifico cosa faceva? Si recava presso la propria banca, compilava dei moduli cartacei con tutti i dati, li consegnava al cassiere il quale provvedeva alla verifica della correttezza dei dati e a effettuare l’operazione di bonifico. Quel cassiere era un occupato, cioè un dipendente della banca regolarmente stipendiato per svolgere quel compito. Oggi per fare un bonifico come si fa? Ci si collega da casa o dall’ufficio alla propria banca online, compiliamo dei formulari con tutti i dati che servono per effettuare l’operazione, un software verifica la correttezza dei dati e ci guida nella realizzazione dell’operazione. Non c’è più bisogno del cassiere, che probabilmente è stato licenziato: si è quindi ridotta l’occupazione ma non è sparito il lavoro. Quel lavoro che prima faceva il cassiere in parte ora lo fa il software della banca, quindi una macchina, ma in parte lo facciamo noi clienti perché siamo noi a procurarci i dati e a inserirli manualmente nel nostro computer. Quindi il lavoro necessario per fare i bonifici non è sparito, è semplicemente cambiato. Prima lo faceva un cassiere, adesso lo fa in parte un sofisticato sistema informatico della banca che sicuramente sarà costato molti soldi ma in parte lo facciamo noi utenti gratis, non ci remunera nessuno. Certo abbiamo l’enorme vantaggio di non doverci più recare in banca per fare un’operazione che possiamo, in tutta tranquillità, fare a qualunque ora, da qualunque luogo, basta avere un computer, uno smartphone e una connessione internet.

Ma facciamo un altro esempio. Fino a qualche decennio fa se dovevate acquistare un biglietto aereo bisognava rivolgersi o alle biglietterie delle compagnie aeree o a un’agenzia di viaggio dove c’erano degli operatori che si premuravano di trovarvi la combinazione giusta in termini di orari, eventuali coincidenze, servizi aggiuntivi, prezzi e quant’altro che poi procedevano a stampare nella versione cartacea del vostro biglietto. Gli addetti alle biglietterie delle compagnie aeree o delle agenzie di viaggio erano degli occupati, erano dipendenti regolarmente stipendiati. Oggigiorno nella gran parte dei casi chi deve acquistare un biglietto aereo si collega a internet, si cerca da solo le informazioni che servono, si studia le combinazioni di orari, prezzi, condizioni, poi acquista il biglietto e se lo stampa da solo. Quindi anche in questo caso non è sparito il lavoro necessario per scegliere e acquistare un volo aereo, la differenza sostanziale è che prima quel lavoro lo faceva un lavoratore stipendiato, oggi lo facciamo gratis noi utenti.

Di esempi del genere se ne potrebbero fare molti altri, pensiamo alle casse automatiche dei supermercati che stanno gradualmente sostituendo i cassieri, pensiamo alle casse automatiche delle autostrade che stanno sostituendo i casellanti e così via.

L’idea che le macchine sostituiranno il lavoro umano esiste dagli albori della rivoluzione industriale alla fine del Settecento. Ma, secondo diversi studiosi, è una paura infondata e immotivata. Anzi, secondo alcuni autori di sinistra lo sventolare in continuazione il timore che le macchine, l’automazione faranno sparire il lavoro umano è una sorta di spauracchio agitato dal padronato per disciplinare i lavoratori e moderare le loro pretese salariali. Se il lavoro sta per scomparire ogni lavoratore potenzialmente è in sovrannumero e quindi la paura di perdere il posto e il relativo reddito induce i lavoratori ad accettare paghe più basse e condizioni di lavoro più pesanti. L’automazione, più che una soluzione tecnologica, diventa una soluzione economica per dirimere a favore del capitale il conflitto sociale.

Qualcuno ha anche tentato di fornire a questa tesi, che può avere un suo fondamento, un riscontro nei dati ma i risultati sono oggettivamente molto opinabili. Qualche studioso ha preso i dati dei paesi del G20 riguardo al livello di automazione, misurato come numero di robot industriali ogni 10.000 abitanti. Così facendo notiamo che la Corea del Sud è il paese con la più alta percentuale − 531 robot ogni 10.000 abitanti − ma ha un tasso di disoccupazione attorno al 3%. Il Giappone ha 305 robot ogni 10.000 abitanti e la Germania 301 ed entrambi i paesi hanno un tasso di disoccupazione bassissimo tra il 3% e il 4%. L’Italia invece con 185 robot ogni 10.000 abitanti ha un tasso di disoccupazione attorno al 10%. Quindi da questi dati si dedurrebbe che la crescente automazione non riduce l’occupazione.

Questo argomento, che sembra tra i più robusti a sostegno di quella tesi, in realtà è piuttosto traballante. Il tasso di disoccupazione dipende da molti fattori e quindi correlare tasso di disoccupazione e diffusione dei robot, e da quel dato dedurre che il lavoro non sta scomparendo, è a dir poco una forzatura. Per spiegarci meglio facciamo un esempio pratico. La Corea del Sud ha un tasso di disoccupazione molto basso soprattutto per ragioni legate al suo sistema di welfare poco generoso. Molti coreani sono disponibili a lavorare a qualunque condizione, anche se malpagati e sfruttati, perché altrimenti morirebbero letteralmente di fame non esistendo in quel paese i sistemi di tutela che si trovano, per esempio, nei paesi europei.

Inoltre, la correlazione diretta tra livello di automazione di un’economia e tasso di disoccupazione è discutibile anche per un’altra ragione fondamentale. Con la robotizzazione più che scomparire il lavoro, come dicevamo precedentemente, tende a scomparire l’occupazione.

La tesi è quindi suggestiva ma forse necessita di riscontri empirici più corposi.

La storia del turco meccanico

L’altra grande obiezione che fanno i sostenitori di questa tesi è quella che potremmo chiamare la storia del turco meccanico. Nel 1769 Wolfgang Von Kempelen inventò un automa per dilettare la corte della regina Maria Teresa d’Austria. Quell’automa − una sorta di robot ante litteram − aveva le sembianze di un essere umano dalla pelle scura con in testa un turbante, ragione per cui fu chiamato il turco. Il turco era seduto a gambe incrociate davanti a una scatola sulla quale si trovava una scacchiera, era circondato dal fumo di diverse candele per creare atmosfera, e quando qualcuno gli rivolgeva la parola sbatacchiava e muoveva gli occhi. Quell’automa era in grado di giocare a scacchi e di battere i migliori scacchisti dell’epoca. La cosa ovviamente suscitò entusiasmi e stupore allo stesso tempo ma il mistero fu svelato soltanto dopo la morte del suo inventore. In realtà l’automa tutto era tranne che automatico. Dentro la scatola si nascondeva un nano, un maestro nel gioco degli scacchi il quale, con un sistema di fili, leve e meccanismi muoveva le mani del turco facendogli fare le mosse giuste. In pratica era un grande bluff. Ma l’automa suscitò grande curiosità e fu acquistato dal Museo di Philadelphia andando poi distrutto in un incendio nel 1854. Pare che persino Napoleone Bonaparte, che era un discreto scacchista, abbia giocato contro il “turco meccanico”, perdendo. Sicuramente si trattava di un meccanismo di alta ingegneria ma chi giocava le partite e faceva le mosse non era una macchina ma un essere umano!

Nell’economia digitale moderna, dicono questi studiosi, di esempi di turchi meccanici ce ne sono a bizzeffe. Noi erroneamente pensiamo che il mondo dell’automazione, dell’intelligenza artificiale, il mondo robotizzato funzioni con pochi ingegneri in camice bianco che da una sala operativa manovrano, attraverso computer, attrezzature tecnologiche avanzatissime mentre fuori ci sono imprenditori geniali che investono i loro fantastiliardi per trovare soluzioni sempre più avveniristiche. La realtà è ben diversa perché il lavoro non sta scomparendo ma si sta digitalizzando. Bisogna andare a vedere, oltre la retorica del progresso tecnologico, come funzionano in pratica la gran parte delle piattaforme informatiche che dominano l’economia digitale.

Automazione non significa soltanto robot, cioè macchinari che svolgono attività che prima svolgevano gli esseri umani, per esempio nella catena di montaggio di una fabbrica automobilistica. Automazione ed economia digitale significa soprattutto software che svolgono le funzioni più diverse. L’automazione procede grazie alle cosiddette piattaforme digitali. Ce ne sono di tutti i tipi, per citarne alcune delle più conosciute da Google a Uber, da Amazon a Foodora, da Facebook a Instagram.  Si tratta di una struttura tecnologica e di un’organizzazione economica nuova che richiede il lavoro di decine di migliaia di quelli che qualcuno ha chiamato “proletari digitali”, lavoratori non specializzati che svolgono mansioni generiche come selezionare dati, taggare immagini, trascrivere documenti, tradurre frasi, rispondere a questionari online, abbinare prodotti simili in un catalogo online, annotare video, smistare tweet e via di seguito, tutti lavori che le macchine non sanno fare. Per ogni micro-mansione c’è una micro remunerazione e una parte rilevante di questi lavoratori occulti si trovano, per esempio, in molti paesi asiatici, dall’Indonesia al Pakistan, dall’India alla Thailandia dove vengono pagati pochissimo.

Il fenomeno è difficile da quantificare ma secondo alcune stime nel mondo ci sarebbero ormai diverse centinaia di milioni di operai digitali, non più concentrati nella tradizionale fabbrica capitalista ma che lavorano da casa loro.

Il lavoro non riusciamo più a vederlo e a riconoscerlo perché le grandi piattaforme lo parcellizzano, lo riducono a piccole mansioni separate, poi lo esternalizzano in qualunque parte del mondo, sostanzialmente dove gli costa meno, e di fatto questo lavoro occultato finisce per restare in una fase perenne di precarietà.

Più che una scomparsa del lavoro assistiamo al suo spostamento o alla sua dissimulazione fuori dal campo visivo dei cittadini, ma anche degli analisti e dei politici abbagliati dallo storytelling dei capitalisti delle piattaforme.

Parcellizzazione, esternalizzazione e precarizzazione procedono di pari passo. Ma proprio perché   parcellizzato e sfuggente rispetto alle nostre categorie di analisi classiche, non riusciamo più a riconoscere il lavoro e facciamo fatica a comprenderne le trasformazioni, illudendoci invece che l’enorme quantità di lavoro, esternalizzata verso i proletari digitali, sia realizzata dalle macchine.

Torneremo prossimamente su questo argomento che merita ulteriori approfondimenti. Per oggi abbiamo finito, buona giornata a tutti.

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