La Russia degli oligarchi
Scritto da Pasquale Angius in data Aprile 29, 2022
Dopo la dissoluzione dell’Urss emerge una nuova classe sociale, quella degli oligarchi, che porteranno al potere Putin.
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La guerra continua e si inasprisce
La guerra tra Russia e Ucraina prosegue e si inasprisce. L’avventura militare di Putin sta costando molto cara alla Russia. In due mesi di guerra hanno avuto più caduti di quanti non ne avessero avuto i sovietici in dieci anni di guerra in Afghanistan. Hanno perso migliaia di carri armati, blindati, semoventi per artiglieria e anche la Moskva, la nave ammiraglia della flotta del Mar Nero affondata da alcuni missili ucraini. Le sanzioni occidentali stanno creando grandi problemi e la Russia è sull’orlo del default tecnico. Di trattative di pace non parla più nessuno. Il presidente americano Biden e la Nato hanno dichiarato apertamente che bisogna sconfiggere la Russia e, dunque, bisogna proseguire la guerra. Putin, senza vie d’uscita, ha bisogno di una vittoria sul campo, sia pur simbolica, per poter trattare, ma l’esercito russo sembra molto efficiente nel massacrare civili inermi, molto meno quando si trova di fronte reparti combattenti un minimo strutturati. Gli ucraini invece non hanno scelta, possono solo combattere, mentre sulla loro pelle e sul loro territorio si sta svolgendo uno scontro geopolitico tra Russia e Occidente. Dall’altra parte del mondo, la Cina, seduta sulla riva del fiume, attende pazientemente il passaggio dei cadaveri dei suoi nemici, certamente gli Stati Uniti e l’Occidente tutto, ma anche la stessa Russia, al di là della momentanea alleanza per ragioni di interessi contingenti.
La dissoluzione dell’Urss
Ma per capire come si sia arrivati a questa situazione occorre fare un passo indietro, all’inizio degli anni Novanta. Il 25 dicembre del 1991 la bandiera rossa sovietica veniva ammainata dalle torri del Cremlino, e al suo posto veniva innalzata la bandiera a righe orizzontali bianca, blu e rossa della Federazione Russa. L’Unione Sovietica si era dissolta, e le quindici repubbliche che la costituivano in pochi anni erano diventate stati indipendenti. La Federazione Russa emergeva come lo stato più grande, sia come estensione territoriale che per popolazione. Il suo presidente Boris Eltsin, che era riuscito a esautorare il presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbaciov, aveva grandi speranze e ottimi propositi. Voleva trasformare la nuova nazione in un paese democratico con un’economia di mercato.
Ma la trasformazione dell’economia pianificata sovietica in economia di mercato fu un’operazione oggettivamente molto complicata. Non esisteva un manuale che spiegasse come fare. Occorreva procedere per tentativi. Il presidente Eltsin e i suoi consiglieri decisero di affidarsi alla consulenza di un gruppo di economisti americani, delle università di Harward e del Massachusetts Institute of Technology, e inglesi, della London School of Economics. Professori di grande competenza che insegnavano nelle migliori facoltà di economia del pianeta, i quali giunsero alla conclusione che il passaggio da un’economia pianificata a una economia di mercato dovesse avvenire in maniera molto rapida, ricorrendo a una terapia shock. Bisognava innanzitutto liberalizzare i prezzi, eliminando qualunque controllo di tipo burocratico sull’economia, liberalizzare il commercio con l’estero, privatizzare le aziende e i terreni, ristrutturare il sistema bancario e riformare quello fiscale. Tutte le vecchie istituzioni economiche dell’epoca sovietica dovevano essere abolite e si dovevano introdurre le regole dell’economia di mercato, creando anche le nuove istituzioni necessarie per il suo funzionamento, a cominciare da una Borsa Valori. Sperando che i cittadini russi si sarebbero adeguati alle nuove regole.
Secondo questo bel piano costruito a tavolino, una volta privatizzate le aziende e le terre sarebbe emersa, non si capisce bene come e per quale ragione, una nuova classe di imprenditori, persone sveglie, capaci, ambiziose che avrebbero guidato la crescita dell’economia di mercato in Russia.
Dall’economia pianificata sovietica all’economia di mercato
Un primo problema che si pose fu la creazione e distribuzione dei diritti di proprietà sui “mezzi di produzione”, le aziende, le terre, le risorse minerarie, gli immobili, cioè tutte quelle realtà che nella vecchia economia sovietica erano di proprietà dello stato. Quel gruppo di economisti sottovalutò il problema, tutt’altro che irrilevante. Secondo loro i meccanismi del mercato avrebbero determinato un’efficiente allocazione delle risorse e quindi il problema primario di come distribuire i titoli di proprietà era, a loro parere, del tutto secondario. Quello fu uno dei numerosi casi nei quali valenti economisti si affidarono al “pensiero magico” più che all’analisi scientifica per elaborare i loro piani.
Purtroppo quell’idea si rivelò drammaticamente sbagliata. La gran parte dei cittadini russi, gli unici mercati che conosceva erano i cosiddetti mercati colcosiani − quelli dove i contadini delle cooperative agricole statali potevano vendere direttamente ai consumatori una parte dei prodotti del loro lavoro − e il cosiddetto “mercato nero”, gestito spesso dalla malavita, dove era possibile approvvigionarsi di gran parte di quei beni che difficilmente si trovavano nei negozi statali e, soprattutto, dove si potevano reperire gli ambiti prodotti provenienti dall’Occidente: dai vestiti alla moda alla lingerie femminile, dai cosmetici ai superalcolici, ai piccoli elettrodomestici, fino alle valute occidentali, soprattutto i dollari che davano accesso ai Beriozka, le catene di negozi dove si pagava esclusivamente in valuta pregiata e dove si trovavano beni d’importazione.
Gli economisti anglosassoni, quando teorizzavano di mercati, intendevano invece tutti i meccanismi piuttosto sofisticati di un’economia capitalistica moderna, sconosciuti però ai cittadini ex sovietici.
Una nuova classe sociale: gli oligarchi
Il problema dei diritti di proprietà fu risolto distribuendo a ciascun cittadino russo con più di un anno di età dei voucher del valore di diecimila rubli, che rappresentavano la loro quota di proprietà di tutto ciò che all’epoca dell’Urss era di proprietà pubblica. La maggioranza dei cittadini russi non sapeva però cosa farsene di quei pezzi di carta, perché non aveva la più pallida idea di come funzionasse un’economia di mercato. C’era invece una piccola élite che aveva cognizioni più precise sul funzionamento delle economie capitaliste. Era costituita da ex dirigenti del partito comunista sovietico o del Komsomol, l’organizzazione giovanile del partito, alti dirigenti di aziende o di banche statali che avevano viaggiato all’estero, dirigenti dei servizi di sicurezza, a cominciare dall’ex KGB, malavitosi che avevano accumulato molti soldi gestendo il mercato nero. C’erano anche giovanotti molto svegli, intraprendenti e senza molti scrupoli, che invece avevano capito benissimo come funzionava il capitalismo e già alla fine degli anni Ottanta, con le prime liberalizzazioni di Gorbaciov, avevano aperto piccole attività private. Tutti costoro avevano le idee un po’ più chiare sul funzionamento dell’economia di mercato e soprattutto avevano accesso, per il mestiere che facevano o per il loro sistema di relazioni professionali, ai soldi. Costoro cominciarono ad acquistare dai semplici cittadini i voucher che il governo russo aveva distribuito. Molti pensionati, che avevano ricevuto questi diritti di proprietà e che non sapevano cosa farsene, furono ben felici quando qualche baldanzoso giovanotto si presentò a casa loro a comprare quelli che per loro erano pezzi di carta senza valore, dandogli in cambio subito rubli sonanti. I nuovi imprenditori privati dopo aver fatto incetta di quei voucher a prezzi stracciati si presentarono alle aste per l’assegnazione delle aziende pubbliche che venivano privatizzate, acquisendo in pochissimo tempo e a prezzi di saldo aziende in ogni settore dell’economia. Così nacque, in brevissimo tempo, la classe di quelli che poi furono chiamati oligarchi.
Negli anni Novanta l’economia russa divenne una sorta di grande Far West, dove chi era più spregiudicato conquistava le posizioni migliori. Un sistema giuridico in trasformazione e piuttosto vago su come regolare l’economia del paese lasciò ampio spazio agli abusi, ai soprusi, alle ruberie.
Nel frattempo la produzione industriale crollava, moltissime persone restavano senza lavoro, le merci nei negozi non si trovavano più come in epoca sovietica o, se si trovavano, costavano troppo e pochi potevano permettersele. I prezzi aumentarono mentre il potere d’acquisto di salari e pensioni crollò drammaticamente, e in molte zone del paese si tornò al baratto. Ripresero a diffondersi malattie epidemiche che erano scomparse da anni, mentre la malavita prosperava. Ma, fatto ancora più drammatico, le casse dello Stato erano vuote.
Gli economisti angloamericani teorici della terapia shock, avevano previsto che all’inizio ci sarebbe stato nel processo di trasformazione qualche disagio e dei costi sociali non quantificabili, ma credevano, o forse speravano, che sarebbero stati superati in brevissimo tempo e che alla fine i benefici sarebbero stati superiori ai disagi. Non accadde così.
Secondo la teoria economica, la nascita di una struttura produttiva capitalistica è un processo graduale e lungo che a volte dura alcune generazioni; in Russia invece la nascita di un’economia capitalistica fu un fenomeno storico che avvenne in pochi anni, con una terapia d’urto imposta dall’alto e, di fatto, con la trasformazione della vecchia nomenklatura sovietica in una nuova classe di capitalisti oligarchici grazie alla possibilità di trasferire la proprietà dei mezzi di produzione, con escamotage sia giuridici che finanziari, dalle mani pubbliche nelle mani di una ristretta oligarchia di ex dirigenti dello Stato e di nuovi imprenditori senza scrupoli.
Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 1996 Eltsin era in grosse difficoltà. Il piano dei suoi consulenti anglosassoni si era rivelato un disastro e il suo antagonista, il capo del neonato Partito comunista, Gennadij Zyuganov, rischiava di vincere le elezioni.
Eltsin chiese aiuto agli oligarchi, che per scongiurare il ritorno al potere dei comunisti, prestarono soldi al governo russo e finanziarono la campagna elettorale di Eltsin. In cambio ottennero un ulteriore piano di privatizzazioni attraverso il quale, con aste truccate ed escamotage giuridici, si appropriarono a prezzi stracciati di un’altra quota importante dell’economia russa.
La caduta di Eltsin e l’ascesa di Putin
Qualche anno dopo, nel 1999, la situazione economica del paese era nuovamente nel caos e Eltsin, gravemente malato, non riusciva più a svolgere le sue funzioni. Decise di dimettersi e nel discorso che fece alla nazione, con una certa amarezza ma anche grande sincerità, chiese scusa ai suoi concittadini con le seguenti parole:
«Voglio chiedervi perdono per i sogni che non si sono avverati e per le cose che sembravano facili e che si sono rivelate dolorosamente difficili. Vi chiedo perdono anche perché non sono riuscito a realizzare le speranze di chi ha creduto in me, quando dicevo che saremmo passati dal grigio, stagnante passato totalitario a un luminoso, prospero e civile futuro. Io credevo in quel sogno. Credevo che avremmo compiuto quel passaggio in un balzo. Non è stato così».
Come suo successore Eltsin nominò un suo giovane collaboratore: Vladimir Vladimirovich Putin. In realtà la nomina fu suggerita al presidente dagli stessi oligarchi che sostenevano Eltsin e gestivano l’economia del paese. Putin era un ex colonnello del KGB che aveva lavorato nella DDR, l’ex Germania comunista, e dopo il dissolvimento dell’Urss aveva perso il lavoro e si era buttato in politica, diventando prima collaboratore del sindaco della sua città Anatoly Sobciak, un riformatore, per poi entrare a far parte della squadra di Eltsin. Gli oligarchi puntarono le loro carte su quel giovane preparato, efficiente e leale perché non aveva mai manifestato grandi ambizioni politiche, aveva sempre lavorato dietro le quinte e sembrava un buon esecutore: un personaggio, quindi, a loro parere facilmente manovrabile.
Putin arrivato al potere svelò i suoi piani ripristinando, potremmo dire, il primato della politica sull’economia. Il potere degli oligarchi venne ridimensionato. Potranno continuare ad accumulare ricchezze a condizione che non si occupino di politica e a condizione che seguano senza discutere le direttive che vengono date dal potere politico. La regola di Putin, tradotta in termini un po’ brutali, può essere così sintetizzata: godetevi i vostri soldi ma non rompete le scatole, altrimenti vi spezzo le ossa. Chi osa sfidare Putin finisce male. Come fece, per esempio, Michail Khodorkovskij, ex dirigente del Komsomol sovietico, l’organizzazione giovanile del partito comunista, fondatore all’inizio degli anni Novanta della prima banca commerciale privata del paese e diventato ricchissimo con le acquisizioni di aziende pubbliche a prezzi stracciati e con l’esportazione di prodotti energetici. Quando Khodorkovskij, diventato anche proprietario di alcuni importanti media, decise di entrare in politica sfidando Putin, fu accusato di evasione fiscale e altri reati finanziari, finì in galera, le sue proprietà furono espropriate e infine fu costretto a emigrare in Svizzera.
La musica a Mosca era cambiata, il presidente non prendeva più ordini dagli oligarchi ma li dava, e ci fu un piccolo episodio che plasticamente dimostrò il cambiamento avvenuto. Nel 2009 un oligarca, Oleg Deripaska, che si era trovato in difficoltà finanziarie, chiese un prestito al Governo. Quando andò al Cremlino per firmare l’accordo Putin gli prestò la sua stilografica. L’oligarca firmò e dimenticandosi di restituirla se la mise in tasca. Putin lo fissò con aria torva e gli intimò: «Restituisca la penna!»
Putin aveva ripristinato il potere dello Stato, aveva ridimensionato il ruolo degli oligarchi, aveva rimesso ordine nel paese stroncando in maniera violenta le tendenze centrifughe, come fece in Cecenia, aveva riportato sotto il controllo dello Stato alcune aziende strategiche, soprattutto nel comparto energetico. Il suo consenso crebbe nel paese. L’opinione pubblica russa, devastata dalla crisi economica degli anni Novanta, impoverita, umiliata dalla perdita dello status di grande potenza, disillusa dalle promesse occidentali di benessere facile per tutti, si affidò all’ex sbirro del KGB che era riuscito in pochi anni a rimettere ordine nel paese, a rimettere in sesto l’economia e mostrare un barlume di prospettiva futura. Certo, la corruzione e le grandi ruberie proseguivano, le disuguaglianze sociali tra una ristretta classe di “nuovi ricchi” e le condizioni economiche della stragrande maggioranza della popolazione raggiunsero livelli stratosferici, ma aver ripristinato condizioni di vita un minimo normali per la maggioranza della popolazione sembrò a molti russi un enorme passo in avanti. Nella prossima puntata ci occuperemo dell’era Putin, gli ultimi ventidue anni di storia russa, fino allo scoppio della guerra con l’Ucraina, lo scorso 24 febbraio.
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