Editoriale: fermate il mondo
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 7, 2024
RAMALLAH – Il conflitto dello Stato di Israele contro i palestinesi (non contro Hamas, ora sarebbe evidente anche ad un decerebrato) definisce il senso morale di una nazione. Ma anche di tutte le altre che hanno giustificato, finto di non vedere, che se ne sono lavate le mani. Definisce i giornalisti che hanno accettato linee editoriali completamente sbilanciate se non addirittura propagandistiche.
Definisce le persone che hanno voltato lo sguardo, definisce chiunque riesce a continuare la propria vita senza aver pensato un solo momento “bisogna fermare tutto questo”. Definisce i politici, che hanno parlato di democrazia, definisce una sinistra che ha nicchiato alla guerra piuttosto che a chiedere a gran voce la fine di questo massacro.
Definisce le generazioni future ci giudicheranno per questo. Verremo ricordati come quelli che sapevano, ma non hanno fatto nulla.
Oggi il figlio di un altro collega è stato ucciso, insieme ad un altro giornalista. Sono 109 i giornalisti uccisi. 22 mila le persone uccise, di cui un terzo sono i minori. Le donne stanno partorendo per terra, nella polvere delle macerie. Non hanno latte per i bambini. La malnutrizione provocherà conseguenze sui bambini. Immaginate solo il trauma psicologico di aver visto i propri cari morire, o di aver perso un pezzo del proprio corpo. Ci sono migliaia di mutilati, la maggior parte dei quali amputata senza anestesia.
Non è più una questione di strategie, attacchi, vendetta, di esistenza, di chi vuole distruggere chi. Non me ne frega niente di chi ha ragione o torto.
Ho parlato con un 16enne che si è fatto un anno di galera senza aver fatto niente. Ho parlato con il più dolce dei contadini a cui a 70 anni hanno rotto un braccio per cacciarlo dal suo appezzamento di terra dove crescono olivi centenari. Ho parlato con una donna, che ha perso il figlio che aveva in grembo per le botte che ha preso in prigione, la sua colpa? Faceva politica e lottava per il suo paese senza aver mai fatto nulla di violento se non parlare. E vorrei essere capace di farvi sentire il loro dolore e la loro forza.
Siamo al punto in cui è diventata una questione di umanità. Di quello che siamo. Non ci riguarda? Eccome se ci riguarda, perché se non facciamo sentire la nostra voce, c’è chi penserà che si può uccidere un bambino in nome di qualsiasi cosa. E non va fatta pressione domani, o tra due giorni, va fatto oggi. Non era già accettabile prima, ma ogni minuto che passa e che permettiamo che accada, diventiamo complici.
Ognuno può fare qualcosa nel suo piccolo. Se per fermare la carneficina che ci circonda, dobbiamo fermare il mondo, fermiamolo. Perché così non è degno di girare. E noi non siamo degni di essere chiamate persone.
“Mio figlio non era parte di me, era tutto di me. Era la mia anima. Queste non sono lacrime di sconfitta. Queste non sono lacrime di rabbia o di terrore. Sono lacrime di dolore per aver perso il figlioMio figlio era un giornalista. E io lo sono stato prima ancora che lui nascesse. C’è una grande ingiustizia in corso per chi vive qui. Chiedo che il mondo fermi questo massacro. Questa carneficina di giornalisti (109). Ad ogni modo continueremo a fare il nostro mestiere fino alla fine”.
Wael Dahdouh, giornalista di Al Jazeera che sta in questo momento seppellendo il figlio morto oggi e a ottobre aveva già perso la moglie, una figlia, un altro figlio e un nipote di otto mesi.
Questa è la dignità un giornalista. Di un uomo. Di un palestinese, ma soprattutto di un padre.
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