Egitto: Mubarak, funerali militari per l’ultimo faraone
Scritto da Barbara Schiavulli in data Febbraio 26, 2020
Funerali militari per l’ultimo “faraone” dell’Egitto, l’ex presidente Hosni Mubarak (4 maggio 1928 / 25 febbraio 2020) deceduto ieri dopo un intervento chirurgico. Ha avuto complicazioni al cuore e ai reni. Era stato ricoverato il 21 gennaio per un’ostruzione intestinale. Aveva 91 anni, nel 2011 era stato deposto dalla Primavera Araba egiziana dopo trent’anni di governo autocratico ma stabile.
Durante la rivolta del 2011 durata 18 giorni vennero uccisi quasi 900 manifestanti e migliaia feriti.
9 anni dopo la sua caduta, la Guardia Repubblicana ha portato la bara di Mubarak avvolta nella bandiera dell’Egitto, mentre una marea di nostalgici vestiti neri e con la sua foto si sono radunati alla moschea del Cairo dove si è celebrato l’estremo saluto. Evento trasmesso dalla tv di Stato, tra cui la preghiera funebre alla presenza dei familiari (la moglie Suzanne e i suoi due figli) ed ex funzionari dell’ex regime. Poi il corpo è stato trasferito in elicottero per la sepoltura nel cimitero di famiglia a Heliopolis a est della capitale, quartiere dove ha vissuto per la maggior parte della sua vita.
Fino all’ultimo non era chiaro se l’attuale presidente Al Sisi sarebbe intervenuto e invece c’era, con il primo ministro Mostafa Madbouly, il papa copto Tawadros II e il Grand Imam del Cairo Ahmed el Tayeb.
Tre giorni di lutto in Egitto, uno negli Emirati Arabi e in Bahrein che hanno abbassato a mezz’asta le bandiere.
Chi è Mubarak
Il mondo lo conosceva come un uomo forte, simbolo di un Egitto produttivo, stabile, che era uscito da guerre e aveva stretto forti alleanze, ma per molti, soprattutto per i giovani, era diventato anche l’ultimo baluardo di un paese dove i diritti umani non esistevano, la libertà di stampa non era prevista, dove vinceva le elezioni con il 99 per cento delle preferenze. I ragazzi della protesta pensavano che sarebbe tutto cambiato, ma in realtà il nuovo non è molto diverso dal vecchio.
Ironia della sorte, il servizio funebre si è tenuto alla moschea di Tantawi (Cairo est), che ha preso il nome dal maresciallo di campo Hussein Tantawi, ora in pensione, che guidò il consiglio militare che governò l’Egitto dopo che Mubarak fu estromesso fino all’elezione del presidente islamista Mohammed Morsi nel 2012.
Caduto in disgrazia dopo 30 anni di governo, cacciato dal “trono” per le proteste, Mubarak ha trascorso gli anni successivi in prigione (era stato arrestato con i suoi due figli condannati a tre anni) e in ospedali militari fino a quanto è stato liberato nel 2017, assolto dalle accuse di cospirazione per l’uccisione di 239 manifestanti, motivo per il quale era stato condannato precedentemente all’ergastolo.
Mubarak diceva che la Storia lo avrebbe giudicato un patriota che aveva servito il paese senza interessi personali. Per molti ha portato quella stabilità, che per altri è stagnazione, sia a livello politico che economico. Un regime che non è stato capace di compiere passi significativi verso la democrazia e che ha sempre represso l’opposizione.
Mubarak venne scelto dal presidente Sadat come suo vice perché era poco conosciuto, sembrava non avere ambizioni politiche e non rappresentava una minaccia. Eppure quando la morte di Sadat per mano di estremisti islamici, nell’ottobre 1981, lo portò alla luce della ribalta come nuovo presidente, Mubarak si dimostrò un politico e un diplomatico più abile del suo predecessore. Riuscì a districare l’Egitto dal tumulto economico in cui si trovava e raggiunse una certa statura internazionale nonostante il modo feroce in cui reprimeva la rivolta estremista.
Mubarak aveva trascorso la vita prima di governare, nell’aeronautica, non aveva una posizione, per sua fortuna, di rilievo o di responsabilità durante l’umiliante guerra con Israele nel 1967. È stato addestrato a Mosca e si trovava lì a stringere rapporti di cooperazione poco prima che esplodesse la guerra dei Sei Giorni, guerra a sorpresa lanciata proprio da Egitto e Siria contro Israele. Una disfatta senza precedenti. Mubarak, nominato comandante poco prima, ha lavorato bene, fino a quando nel 1975 è stato nominato vice presidente.
L’uccisione del presidente Sadat poteva trascinare il paese nella guerra civile, ma Mubarak ha reagito velocemente e senza farsi scrupoli fermando la rivolta dei radicali grazie all’aumento della presenza dei militari e della polizia in alcune aeree sensibili.
Poi, superata l’emergenza, si è circondato di persone scaltre che fossero consiglieri politici, economici o diplomatici, si è allineato con gli Stati Uniti ma è rimasto legato alla Russia. È riuscito a negoziare un sussidio annuale con Washington molto simile a quello che gli americani avevano con Israele.
E per quanto i soldi comprassero la sua amicizia, è riuscito anche tenere il punto su alcune posizioni diverse dagli americani.
In ogni caso, ritenne di aver ripagato il debito americano quando, durante l’invasione dell’Iraq in Kuwait nel 1990, convinse i paesi arabi a sostenere l’intervento americano. Mattoncino dopo mattoncino costruì la strada che portò quasi 40 mila uomini a combattere a fianco degli occidentali per liberare il Kuwait.
Ego sconfinato, ansioso di avere il consenso del suo popolo ad ogni costo, si lamentava di non essere riuscito a convincere gli americani a frenare Israele. Ha organizzato innumerevoli incontri diplomatici che, il più delle volte, non hanno ottenuto i risultati sperati, ma non si può dire che non ci abbia provato.
Come altri leader mediorientali non era in gran sintonia con Yasser Arafat, il leader dei palestinesi, ma ha tenuto stretti rapporti con loro anche perché era l’unico paese arabo che avrebbe potuto resistere a Tel Aviv.
In patria, invece, ha dovuto fare i conti con una popolazione in rapida espansione, forse una delle popolazioni che ancora cresce più velocemente in Medio Oriente, tanto da aver raggiunto i 100 milioni di abitanti, gente che ogni giorno combatteva il suo reprimere i diritti umani e torturare migliaia di persone detenute illegalmente.
Hanno tentato di ucciderlo sei volte ma, a differenza del suo predecessore, non ha mai nominato un vicepresidente. Non che non subisse pressioni, soprattutto dopo i vari tentativi di assassinarlo, e alla fine si convinse che il figlio Gamal potesse prendere il suo posto, facendo per un momento paventare l’idea – e spaventare molti – che l’Egitto potesse diventare come la Siria, una repubblica con una dinastia al potere.
Nel 2011, però, tutto cambia. La Primavera Araba esplode con tutto il suo malcontento contro il governo. I ragazzi si scontrano con la polizia ed è strage: quasi un migliaio di morti, migliaia di detenuti, altrettanti feriti. Dopo settimane di tensioni, gli Stati Uniti lo convincono a dimettersi e lui consegna il potere ai militari.
Il nuovo regime prepara il processo e, per la prima volta, tutti vedono Mubarak dietro alle sbarre, in una gabbia di vetro, spesso in carrozzina. Il potente dittatore è ridotto all’impotenza politica.
Nel giugno 2012, prima che il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohammad Morsi, fosse eletto presidente, Mubarak viene condannato all’ergastolo per la morte dei manifestanti e mandato alla prigione di Tora al Cairo, andando spesso al Maadi, l’ospedale militare vicino, perché la sua salute si stava deteriorando.
L’anno dopo, un altro militare, Abdel Fattah el Sisi, rovescia il presidente Morsi. E mentre al Sisi lancia una campagna contro i Fratelli Musulmani, il caso contro l’ex presidente cade nel 2014.
Tre anni dopo, grazie all’appello della procura, viene dichiarato innocente e Mubarak torna a casa nel suo quartiere di Heliopolis non lontano dal palazzo presidenziale dove ha vissuto per trent’anni.
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