Fare pace con Mosca
Scritto da Eleonora Viganò in data Maggio 24, 2019
Cosa accade se non trovi un posto in treno e devi aspettare un giorno in più a Mosca? Succede che giri a caso, rilassata e lenta, che rivedi cose già viste o ne programmi di nuove, che trovi un tuo luogo preferito e passi il tempo nelle chiese ortodosse per capire come si prega. Succede che ti metti in coda per un biglietto – dopo che piani inesistenti ed effimeri erano saltati – e alcune donne ti aiutano, ma in russo. Il tuo treno – accudente e protettivo, quasi una famiglia itinerante, simile a un circo – parte tra più di 24 ore.
Sono sul treno. Il giorno prima sono andata alla stazione di Mosca, quella giusta per il mio viaggio, e mi sono messa in fila. In internet, sul sito delle ferrovie russe, il biglietto non era acquistabile. Prima ancora ho chiacchierato in ostello con una coppia polacca: lei aveva fatto l’Erasmus in Sardegna. Lui era partito dalla Polonia arrivando a Mosca in autostop e poi lei lo aveva raggiunto per andare a Ulan Ude senza altre soste: il biglietto di terza classe lo avevano comprato facendo gli artisti di strada, dove capitava.
La stazione di Mosca
Mi sono messa in fila, dicevo, anzi prima ho girovagato per la stazione, cercando di capire a chi chiedere e dove. Non erano questi i piani originali, anzi non avevo piani originali né tantomeno piani di riserva. Avevo qualche idea e una sola condizione: fare pochissime tappe. Quella mattina, prima di recarmi in stazione per comprare il biglietto, ero convinta che sarei andata a nord, a Severobaikalsk: avevo trovato un ostello spartano e accogliente, due persone gentili come gestori e guide per il trekking e un aliscafo diretto a sud per ricongiungermi con la linea ferroviaria facendo prima tappa sull’isola di Olkhon. Era tutto perfetto, fino a quando non mi ha scritto l’ostello: vai a Irkutsk, la barca ha un guasto. Ho provato a insistere, non sapevo nemmeno se fosse vero del guasto o se io mi fossi mostrata troppo preoccupata tanto da convincerli a dirmi di no, e ho provato a cercare un’alternativa via terra: erano strade troppo lunghe, fino a 2 giorni di viaggio. Mi sono arresa e sono andata a Irkutsk.
Sono arrivata troppo tardi in stazione quel giorno, proprio all’ultimo, ed è successo che il treno per quella sera era pieno. Ricordo le impiegate allo sportello che parlavano solo in russo. Ho mostrato loro le scritte sul mio cellulare con data, ora e destinazione, mentre dietro di me alcune signore anziane in coda ripetevano parole in russo, ad alta voce, sperando che così facendo io potessi comprendere. Sono riuscita finalmente ad acquistare un biglietto per le 23:45 del 4 di agosto, il giorno seguente. Avevo un giorno in più per vedere Mosca e in quel preciso istante non ne ero granché entusiasta.
Mosca mi aveva prosciugata i giorni precedenti: auto, gente, lavori sui marciapiedi e lungo le strade maggiori, polvere che saliva in nubi dense e rumore di trapani. Mentre cercavo un palazzo pieno di conchiglie, fuori dalla metro un pupazzo pubblicitario mi ha abbracciato e l’avevo lasciato fare, ridendo. Prima ci sono state le vie pedonali, la piazza Rossa e il Cremlino, poi di nuovo trapani e traffico, le vie di lusso con le loro modelle perfette e i sentieri rilassanti nel verde e nei giochi. Seduta sulle panchine dello stagno dei patriarchi, dove tutto ebbe inizio e dove Bulgakov visse, ho avuto voglia di rileggere il Maestro e Margherita. Ho osservato a lungo chi stava seduto da solo in silenzio: donne, uomini, giovani e anziani.
Mille modi per pregare
Come nei templi induisti e buddisti, sono rimasta affascinata dai mille modi che abbiamo per pregare, che poi, in fondo, si assomigliano tutti. Ho cercato le chiese ortodosse, che generano vuoti densi, in cui respirare, come fosse un’ossessione, per fermarmi a lungo a guardare non le icone e le immagini sacre – sì, anche – ma soprattutto le donne e gli uomini che pregavano. Avvicinavano la testa alle icone, vi appoggiavano le labbra, stavano in piedi o si riposavano su panche laterali. Si inchinavano con ampi segni della croce: in alto, basso ventre, destra e sinistra. Avevano un velo, le donne. Due donne che sembravano avere 150 anni bevevano il tè in piccole tazze da caffè.
Davanti a loro avevano un piccolo tavolo, con le tazzine, la teiera e il pane. Erano completamente vestite con una tunica nera, copricapo incluso. Ho anche acceso una candela, di quelle sottili e lunghe: avevano prezzi diversi e andavano riposte in un porta candele circolare, a piccoli pozzetti. Ho visto un battesimo, una normale funzione e un funerale: la morta, una donna anziana, mi è apparsa nella sua bara mentre girovagavo. I suoi cari stavano disposti in fila orizzontale verso i piedi, ma lontano. Non mi ero accorta del momento ed ero entrata senza pensarci troppo. Fuori da San Nicola ho comprato da una donna somigliante a una persona a me cara alcuni piccoli panzerotti: consiglio quello alla ciliegia anche se dopo vi viene una sete assurda.
Il palazzo dell’amicizia
Ho fatto pace con Mosca subito dopo essere capitata per caso e per la seconda volta davanti al palazzo dell’amicizia pieno di conchiglie. Ho visto la casa di Puskin durante la sua luna di miele lungo la via dell’Arbat. All’ingresso di quella di Tolstoj ho trovato un’atmosfera da Jane Austen: una donna tonda, dal caschetto giallastro mi ha accolto alla cassa ripetendo «madam, madam», con quella voce acuta e quel fare energico. Di fronte alla villa ora c’è uno Starbucks: che Tolstoj ce lo vedo a scrivere di Anna bevendo un caramel macchiato. Ho visto la Cattedrale di Cristo Salvatore da tre ponti differenti, dal giardino in basso, dalla strada sul retro, da lontanissimo e con il naso all’insù. Ho passeggiato in Gorgij Park a zig-zag, ho attraversato un altro ponte, ho visto le sette sorelle dal Monastero Novodevicij un po’ decentrato, le tombe di Checov e di Bulgakov. Ho camminato per le vie intorno al Cremlino, sul lungofiume Santa Sofia.
Poi ho imparato a orientarmi: ah sì ecco, ma è qui? Il teatro Bol’šoj con il cielo terso e i nuvoloni neri, Lubjanka, le vie della Ferrari, di Valentino e Dolce e Gabbana. Vie rosa confetto, con cuori di fiori, farfalle di plastica e lanterne cinesi, vie che si gettano e ti gettano bruscamente in strade a otto corsie che colpiscono udito, olfatto e vista. E poi ancora: casermoni grigi, fast food, sottopassaggi, metropolitane che devi scendere e scendere, statue e lampadari, la kvass, il gelato russo, l’oro, le icone e tutto ciò che ho visto per caso, come il mio posto piccolissimo, preferito su tutto, il Monastero di San Pietro di Sopra: pur di cenare qui, ho cenato alle 17.00.
Alle 23:45 del 4 agosto ho preso un treno
Sono rimasta sul treno – senza internet – per tre giorni e quattro notti in un’atmosfera da dormiveglia, con la sensazione di viaggiare in un circo, con una specie di familiarità che si crea a prescindere da lingua e provenienza. Una sorta di follia lecita, di scatola chiusa ma aperta, un continuo accadere incomprensibile e microscopico, a volte inventato o colto per caso. Uno stare immobili che è anche andare, divenire insieme al fuso orario. Gente che scende e che saluti a malincuore, gente che sale e che impari a conoscere. Gente che va più lontano di te. Il primo coinquilino – di cui non ricordo il nome – mi ha svegliata alle 3:30 della prima notte per mangiare noodles liofilizzati con lui: mi ha chiamata a voce, poi toccandomi lievemente una spalla. Parlando lui in russo e io a gesti, ho capito che voleva condividere con me la cena.
Il treno: che è calma e senso di protezione grazie al suo dondolio, allo sbatacchiare e allo sferragliare.
I Viaggi di Eleonora:
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