Fragilità bianca: Black Lives Matter

Scritto da in data Febbraio 26, 2021

Il paradigma razziale bianco, l’identità bianca come status, l’identikit del razzista e del non razzista sono tra gli elementi che affronta Robin DiAngelo nel suo ultimo libro White Fragility – “Fragilità bianca” − tradotto in Italia da Elena Cantoni per la Casa Editrice Chiarelettere. Valentina Barile ne parla su Radio Bullets con Anna Lombardi, inviata de La Repubblica a New York.

(Illustrazione: ©Madeleine Porter)

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Esistono due Americhe del Nord?

Robin DiAngelo

«In altre parole, razzisti erano soltanto i più gretti, arretrati, vecchi e bifolchi tra i bianchi del Sud. Le persone evolute, benevole, di mente aperta e di estrazione borghese cresciute nel Nord “illuminato” non potevano per definizione essere razziste. Attribuire una connotazione negativa al razzismo sembra un passo avanti, ma bisogna indagarne l’applicazione pratica. All’interno di questo paradigma, insinuare che io sia razzista equivale a infliggermi una gravissima condanna morale, si tratta di un vero e proprio attentato alla mia reputazione. Una simile insinuazione mi impone di difendere la mia integrità, ed è in quella direzione che investirò tute le mie energie: a respingere l’accusa, invece che a interrogarmi sul mio comportamento». – da questo breve passaggio di “Fragilità bianca” di Robin DiAngelo (Chiarelettere), chiediamo ad Anna Lombardi che aria tira tra le strade di New York, dopo i fatti di Capitol Hill: «Ci sono due Americhe che leggono la realtà in maniera opposta, e quindi cosa si dice in strada è una domanda a cui si risponde a secondo della strada in cui ci si trova. A New York, dove vivo io, come nelle più grandi città, l’indignazione per i fatti del 6 gennaio è stata enorme. La gente è stata per giorni letteralmente sconvolta, non si parlava d’altro, si temeva che potessero succedere cose anche più gravi. Ma c’è anche un’America che, invece, ha visto quei fatti come una sorta di rivoluzione bianca; ed è quell’America che aveva abboccato al messaggio di Trump che per quattro anni gli ha sussurrato che se hanno problemi economici, se si sentono lasciati indietro è perché le politiche democratiche sono andate troppo a favore delle minoranze. Paradossalmente, quest’America bianca, che ha appoggiato l’insurrezione, che ha picchiato i poliziotti, che quel giorno ne ha pure ucciso uno, è la stessa che durante l’estate gridava d’indignazione davanti alle manifestazioni di Black Lives Matter e invocava legge e ordine».

Chi è razzista?

«Razzista = Cattivo/Ignorante/Reazionario/Di mente chiusa/Meschino/Vecchio/Meridionale. Non razzista = Buono/Istruito/Progressista/Di mente aperta/Benevolo/Giovane/Settentrionale. Lo schema buono/cattivo è una falsa dicotomia. Tutti gli individui hanno pregiudizi, specie rispetto all’altro da sé in una società come quella americana profondamente divisa in base alla razza. I miei genitori possono insegnarmi che siamo tutti uguali, io posso avere amici di colore e non raccontare mai una barzelletta razzista, ma resto comunque condizionata dal razzismo in quanto membro di una società che trova in esso il suo fondamento. Sarò comunque vista e trattata come bianca, e vivrò la mia vita in base alle esperienze dei bianchi. Coltiverò un’identità, una personalità, interessi e progetti secondo una prospettiva bianca. Avrò una visione del mondo e uno schema di riferimento bianchi. In una società in cui la razza conta moltissimo, la nostra appartenenza razziale non può che incidere profondamente sul nostro modo di essere. Per sovvertire questo costrutto dobbiamo prendere coscienza con onestà di come esso si manifesta nelle nostre vite e nella società che ci circonda». – da “Fragilità bianca” di Robin DiAngelo (Chiarelettere).

Anna Lombardi commenta ai nostri microfoni: «Una cosa che mi aveva colpito del libro e della conversazione che ho avuto con Robin DiAngelo è stato il fatto che lei dica che quando si parla di razzismo diamo per scontato che riguardi solo chi sventola bandiere e dice cose offensive, cioè lo consideriamo un atto categorizzato, commesso da individui identificabili e non da un sistema complesso e a noi vicino. Eppure, per capire, basta guardarci attorno. Lei diceva: se ci sembra, per esempio, normale che nel nostro palazzo, nel nostro quartiere, nella nostra scuola non ci sono persone con la pelle di un altro colore, non vediamo la realtà come è davvero. In questo senso, sì, siamo chiusi in un senso di superiorità che è profondamente interiorizzato di cui anche persone – diciamo – insospettabili negano l’esistenza, e di cui, forse, non siamo del tutto consapevoli».

La parola razza è offensiva?

L’etimologia della parola razza è fatta risalire al francese antico haraz, che vuol dire allevamento di cavalli. Il termine haraz, a sua volta, risale all’idioma delle popolazioni normanne in epoca medievale; mentre l’uso del vocabolo razza si ritrova, sin dal Trecento, nei volgari italiani. In effetti, la parola razza fu usata in origine per indicare un insieme di animali accomunati da caratteri ereditari omogenei. Solo successivamente fu riferita anche agli esseri umani. Altre interpretazioni etimologiche della parola razza, ci arrivano dal latino radix, cioè radice, e ratio, vale a dire genere, tipo. Dall’arabo, razz significa piantare. In ambito antropologico, la parola compare nella sua accezione negativa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, per ragioni geopolitiche mondiali che forse possiamo immaginare. Anna Lombardi: «Credo che il termine la razza, che la scrittrice ripete così spesso nel suo libro, vada interpretato nell’ambito della lingua, della lingua americana, della lingua inglese, ma nello specifico del contesto americano perché, per quanto sia radicato il razzismo in questo paese, la parola race – razza, appunto – è di uso comune; la trovi sui documenti da compilare, in ospedale, prima di fare il tampone del Covid, perché l’America è un melting pot di popoli e quindi, in qualche modo, “a che razza appartieni” è una domanda non offensiva, è una domanda legittima. Forse, a leggerlo in italiano in un contesto come il nostro, fa un’impressione diversa perché siamo abituati meno a confrontarci con la diversità e, dunque, con questa specifica parola. E lì dove sentiamo parlare di razza, pensiamo subito a superiorità della razza e a cose così».

Spesso ci chiediamo a che punto della nostra storia umana ci troviamo. Se la strada imboccata è giusta o è necessario cambiare immediatamente direzione. C’è possibilità di collaborare, di destrutturare per ricostruire? È facile farlo o tutto questo richiede oltre che sensibilità di dialogo civile, anche un impegno che supera gli sforzi emotivi e intellettivi di cui siamo capaci? Anna Lombardi conclude su Radio Bullets: «Leggevo poco fa un sondaggio di Usa Today che racconta come ci sia già, fra le fila dell’America bianca e complottista che ha creduto alle frottole di Trump sulle frodi elettorali, anche un nuovo filone di negazionisti convintisi che il 6 gennaio sia stato una messa in scena, non con attori naturalmente, ma una specie di messa in scena fatta dagli AntiFa, gli oppositori di Trump, l’arcipelago di movimenti antifascisti, che si sarebbero travestiti da sostenitori del presidente – in quel momento, uscente – per screditarlo. Insomma, c’è un’America che in questo momento crede a delle cose incredibili e un paese talmente diviso in due che non riesce nemmeno a trovare un accordo sulla realtà, e questo è qualcosa che mi ha detto pochi giorni fa anche l’ultimo procuratore vivente del Watergate, il procuratore Akerman, commentando l’impeachment di Trump e tornando con la memoria ai suoi giorni: all’epoca, almeno, democratici e repubblicani erano d’accordo su cosa fosse un fatto. Ecco, invece adesso l’America non riesce a riconoscere nemmeno la realtà e questo è davvero il punto cruciale della divisione di questo paese».

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