Gli anziani a casa?
Scritto da Massimo Sollazzini in data Novembre 2, 2020
Durante la pandemia di coronavirus abbiamo sperimentato le chiusure per area geografica, quelle per categoria professionale, quelle per ordine scolastico. Dal mese di marzo a oggi, in Italia come nel resto del mondo, abbiamo dovuto convivere con una varietà e complessità di modelli organizzativi che, presi d’insieme, basterebbero a sviluppare ben più che una tesi di laurea. Forse un intero percorso universitario.
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Foto di copertina: Nick Karvounis on Unsplash
Un laboratorio in piena attività
Ma il laboratorio non è concluso: nessuno di questi modelli è stato risolutivo, né probabilmente poteva esserlo, ma nessun mix tra regole e terapie è riuscito comunque nell’intento. Almeno per ora. Tuttavia, man mano che il tempo stringe le varianti di restrizioni sembrano scarseggiare, mentre aumenta in modo esponenziale l’insofferenza o lo sconforto di quelli che si alternano nel ruolo di diretti interessati. E l’unica alternativa all’orizzonte sembra di nuovo la chiusura totale e generalizzata.
Osservare i dati
A ben guardare però, forse non tutte le disposizioni di emergenza sono state messe alla prova. In particolare, non quelle dettate dall’osservazione dei dati.
Qual è il fine primo del contenere l’epidemia? A livello personale, naturalmente, è salvare la vita del singolo malato. A livello sociale è la salvaguardia del sistema sanitario, ovvero evitare che lo sforzo per le cure da Covid-19 travolga la capacità degli ospedali di far fronte a queste e alle altre necessità di cura. Più in particolare, che i reparti di terapia intensiva diventino impraticabili per esaurimento posti.
Chi riempie le terapie intensive?
Chi riempie le terapie intensive, a causa del Covid-19? Non lo sappiamo, o meglio lo sappiamo molto poco. Non sappiamo quanti dei ricoverati arrivino da supermercati troppo affollati, da pranzi familiari troppo ravvicinati, da chissà quale linea di autobus o metropolitana. Allo stato attuale questi dati non sembrano noti.
Possiamo però analizzare la gravità d’impatto sul sistema ospedaliero in termini di età. Tramite “Epicentro”, il portale-dati dell’Istituto Superiore della Sanità, sappiamo per esempio che fin qui l’età mediana dei pazienti deceduti per Covid-19 è di 80 anni, ovvero 30 anni in più rispetto a quella di chi ha contratto l’infezione.
Tramite la stessa fonte sappiamo che circa il 63% di queste vittime aveva tre o più patologie pre-esistenti al momento del decesso, il 19% almeno due. Ora, le malattie croniche si manifestano non di rado in età anche giovanili, ma la loro frequenza è decisamente più alta oltre i ¾ di secolo: tra i cittadini con più di 75 anni, nel 2018 oltre l’86% degli italiani soffriva di una malattia cronica, il 66% di ben due.
Quante di queste evoluzioni critiche del contagio impattano in modo pesante sul sistema ospedaliero? Molte, deduciamo per induzione. L’istituto di Sanità classifica 5 possibili intensità del Covid-19 in chi né è contagiato: da “asintomatico” a “critico”, passando per paucisintomatico, lieve e severo. I due livelli più alti sono quelli che per lo più danno luogo a ricoveri e terapie intensive. Visti per fasce d’età, lo stato severo si verifica saltuariamente nei bambini di neppure un anno, praticamente mai nei giovani fino a 20 anni, si affaccia tra i 20 e i 30 anni, cresce gradualmente fino ai 50; aumenta, e di molto nelle decadi successive, caratterizzate in modo evidente anche da evoluzioni critiche, soprattutto tra i 70 e i 79 anni, mentre è tra gli 80 e i 90 che l’ospedalizzazione in caso di Covid-19 è complessivamente più probabile.
Con il Dpcm del 28 ottobre, come già in primavera, il Governo italiano ha intimato di “spostarsi il meno possibile” a tutte le fasce d’età, indistintamente. Eppure soffermandoci su questi numeri è chiaro che evitare il contagio in una persona anziana è molto più decisivo che per un giovane, per il bene suo e di tutta la comunità.
Pochi per ora sembrano “speculare” su questi dati, nel senso buono del termine. Martedì scorso, intervenendo in una trasmissione Rai, la virologa Ilaria Capua ha affermato che “andrebbe valutata l’ipotesi di un lockdown per anziani e malati cronici”. Più o meno un mese fa un documento firmato da 42 epidemiologi internazionali, chiamato Great Barrington Declaration, aveva caldeggiato un approccio con misure in questa direzione. Svezia o Gran Bretagna in primavera avevano raccomandato a queste fasce d’età di muoversi con estrema cautela, ma senza tradurre l’indicazione in disposizioni vincolanti. All’opposto, la settimana scorsa, l’Advisory group del Primo ministro inglese ha sconsigliato il “confinamento mirato”, nel timore di un effetto-ricaduta al cessare delle restrizioni.
Due giorni fa, un’analisi dell’Ispi ha evidenziato che il tasso di mortalità da covid-19 sarebbe 10 volte inferiore isolando gli ultra-sessantenni. E sebbene l’isolamento selettivo non sarebbe, da solo, una soluzione al problema della saturazione degli ospedali, renderebbe ogni livello di contagio notevolmente più sostenibile.
Gran parte degli anziani sono isolati alla base, costretti in RSA o sottoposti a cure per non autosufficienti nelle abitazioni di famiglia. È un dato di fatto. Come lo è, allo stesso tempo, il fatto che − vivaddio − l’allungamento della speranza di vita consente a molti pensionati di continuare a muoversi, svolgere lavoretti, fare shopping e vita sociale.
Chiudere queste persone in casa per qualche settimana o mese sarebbe causa di forte disagio sociale. Come del resto lo è confinare bambini, adolescenti, persone attive che potrebbero lavorare o dar lavoro, e con le restrizioni generalizzate non potrebbero farlo più.
Forse si potrebbe andare per gradi. Evitare il contatto sociale per chi tra i più anziani è in grado di badare a sé stesso, senza sconsigli medici rilevanti. Aumentare il livello d’isolamento al crescere dell’età e della precarietà di salute, compatibilmente con la capacità del singolo di gestirsi la giornata, o di farsi aiutare a farlo.
Forse qualche tecnico scientifico potrebbe mettere un po’ più la testa su queste ipotesi, approfondirle ed eventualmente scartarle. Magari diffondendo qualche anatema generalizzato in meno e qualche indicazione mirata in più; oltre ai consueti dati in valore assoluto dei bollettini quotidiani. Forse.
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