Gli iracheni delle proteste vs gli iracheni delle milizie
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 6, 2020
di Barbara Schiavulli da BAGHDAD per Radio Bullets
Hassan al Tahi rigira nervosamente il cellulare tra le mani. Mostra le foto del suo amico. La sua voce resta ferma, ma a tratti sembra spezzarsi. Hassan è un attivista delle proteste, un uomo con un lavoro semplice ma che un giorno di molti anni fa, ha deciso che l’Iraq dovesse essere diverso, dovesse essere migliore.
Uno dei suoi migliori amici è Jalal al Ashakhan, nel 2011 quando cominciarono le prime proteste, lui è stato uno degli organizzatore. Aveva un ristorante, ma teneva al suo paese tanto da chiamare i suoi quattro figli: Iraq, Baghdad, Falluja e Watan che in arabo significa “patria”.
La scomparsa di un attivista
A Jalal, ci racconta Hassan, il 22 settembre del 2011, il giorno prima di una manifestazione autorizzata, hanno sparato dei colpi di pistola di avvertimento. Lui si spaventò molto, ma questo non lo avrebbe fermato. Si è diretto al ristorante dove lavorava e poi ad un tratto sette macchine hanno bloccato la via. La polizia in un posto di blocco nelle vicinanze non ha fatto nulla, degli uomini in divisa nera, a volto coperto sono entrati nel ristorante, hanno preso Jalal e lo hanno portato via. Oggi dovrebbe avere 50 anni. Il condizionale è d’obbligo perché da nove anni, nessuno sa se Jalal è vivo o morto. “Tutte le inchieste parlamentari sono state una farsa, tutto il caos che abbiamo creato non è servito a niente. E ora che le proteste sono diventate più grandi, gli attivisti sono nel mirino. Siamo pericolosi”, dice Hassan che continua a mormorarmi in arabo che è sicuro che il suo amico è ancora vivo. “E’ vivo, non può essere morto”.
Anche lui porta addosso i segni della dissidenza, due coltellate nella schiena mentre tornava a casa. “E’ sempre peggio, ricevo telefonate, messaggi su facebook, mi dicono che morirò presto ma io son qua, per Jalal e tutti gli altri, possono solo ucciderci, non fermarci”.
Negli ultimi tre mesi da quando le proteste si sono intensificate, sono morte 500 persone e più di 60 sono scomparse, 21 mila i feriti. L’ultima vittima, Salah Belasim, 20 anni, giustiziato con un colpo di pistola alla testa mentre tornava a casa in motorino dal presidio di piazza Tahir verso Sadr City, un quartiere popolare di Baghdad a maggioranza sciita.
“Abbiamo gioito per la morte di Soleimani e al Muhandis – il primo un generale iraniano, il secondo il capo di una coalizione di milizie irachene filo iraniane, uccisi venerdì durante un attacco americano all’aeroporto di Baghdad – erano due macellai che hanno messo a ferro e fuoco questo paese”, ci dice un manifestante di cui per motivi di sicurezza, non mettiamo il nome, “ma ora temiamo che nella vendetta che hanno promesso di compiere le milizie, siamo compresi noi”.
I ragazzi di Piazza Tahir
I ragazzi e le ragazze, che poi non sono tutti ragazzi ma ci sono molti adulti e anche over adulti, si identificano come professionisti, studenti, artisti, intellettuali, laici, di sinistra, pur sempre venendo dalla comunità sciita dell’Iraq, chiedono che non solo il governo cada, ma che tutta la politica irachena venga riformata. Tre mesi fa sono scesi in piazza contro la disoccupazione, la corruzione, la mancanza di servizi e d’allora non sono più tornati a casa. Migliaia di persone che non vogliono la presenza dell’Iran e neanche gli Stati Uniti, che vogliono un paese loro, che funzioni e cresca.
L’altra faccia di quel mondo sciita, due giorni fa era al funerale di Soleimani e Muhandis e scandiva slogan contro gli americani e Israele, gli stessi che hanno portato il parlamento iracheno – alla non presenza di sunniti e curdi – a votare una bozza di risoluzione non vincolante per cacciare le forze straniere in Iraq. Forze straniere, tra cui circa 800 italiani, che da ieri hanno sospeso tutte le operazioni di addestramento, di sicurezza e attività di contrasto all’Isis.
I sostenitori delle milizie
Da una parte i ragazzi della protesta dall’altra i seguaci delle milizie. Le milizie irachene sono state innalzate a forze paramilitari unendole in una coazione, l’Hashd Shaabi o Forze di mobilitazioni popolare dopo che hanno combattuto contro l’Isis. Appartengono a partiti politici o figure carismatiche all’interno della sfera politica o religiosa irachena. Oggi sono fianco a fianco con l’esercito, con la differenza che l’esercito non è forte e probabilmente ha delle regole di ingaggio più restrittive delle milizie che non hanno legge se non la loro e di chi li comanda.
“Sono pagati dagli americani per dividere gli iracheni, questi non sono ragazzi, ma traditori – dice battendosi sul petto Abu Hammad Abdul Zabri che lavora al ministero della Salute e ha partecipato al funerale di Soleimani e Al Muhandis – dovrebbero esserci loro nelle bare, non questi due martiri che tanto hanno fatto per l’Iraq”. Circondato dai suoi amici che annuiscono, raccontano la loro versione del paese che dovrebbe essere, “via gli americani, stretto con gli iraniani perché sono tutti parte della stessa comunità sciita, stesso sangue, stessi imam, stesso legame. Gli americani portano solo guerra e sangue, dal 2003 viviamo sotto l’occupazione delle truppe straniere”. Inutile dirgli che anche gli americani hanno combattuto contro l’Isis, perché “è un progetto americano, se lo sono inventati per avere un motivo per restare”, dice Ahmed Suadi, del Ministero della Ricerca, “siamo noi i veri rivoluzionari, l’attacco è stato l’inizio della fine degli americani”.
In ogni voce c’è il solco di un paese spaccato che non riesce più ad essere compatto su nulla, ed è forse questo il vero successo di americani e iraniani, quello di combattere una guerra sulla testa e sul territorio di chi avrebbe tanto bisogno di un po’ di respiro e di pace.
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