Gli ultimi giorni dell’ultimo dittatore d’Europa. O forse no?
Scritto da Julia Kalashnyk in data Agosto 8, 2020
Manca un giorno alle elezioni presidenziali in Bielorussia, che, indipendentemente dall’esito finale, sono destinate a entrare nella storia di questo piccolo Paese slavo. Durante gli ultimi mesi il mondo ha potuto osservare quella che è stata chiamata la campagna bielorussa elettorale più competitiva nella storia del Paese, da quando Alexander Lukashenko ha preso le redini del potere nelle sue mani. Ma probabilmente anche la più sporca.
La nascita improvvisa dell’opposizione – resistente e con la capacità di trasformarsi, di cambiare il volto e di plasmarsi in figure diverse, pur di persistere – è un marcatore che evidenzia che la società bielorussa esige un cambiamento. Non che l’opposizione non ci fosse anche prima, però ora il grado di resistenza è più alto. Il pentolino con la pazienza dei bielorussi è arrivato alla bollitura e il coperchio sta saltando.
Il cambio di potere, pietra angolare di tanti paesi dell’ex blocco sovietico, forse è richiesto mai come prima in Bielorussia. Il popolo è stanco di una figura politica oramai obsoleta e inadeguata, che non lascia la poltrona presidenziale da 26 anni.
La retorica di Lukashenko rimane immutabile: disastri di ogni genere crescono nel mondo e le forze esterne vorrebbero destabilizzare una Bielorussia prosperosa, ma lui rimane l’unico pilastro stabile a proteggere e a fare da scudo a questo piccolo paese ex sovietico. Basta ricordare il suo discorso al popolo e all’Assemblea nazionale, tenutosi il 4 agosto, a soli cinque giorni prima delle elezioni presidenziali.
“Il nostro pianeta sta inesorabilmente scivolando verso l’abisso. Sembra che basti accendere un semplice fiammifero e il pianeta esploderà”, con queste parole il leader bielorusso ha definito la situazione nel mondo, riferendosi al sempre più crescente disaggio politico, economico e sociale. E solo la Bielorussia, secondo Lukashenko, è “l’unico posto tranquillo nel centro dell’Eurasia, che vive con il suo senno”.
In fin dei conti qualcosa deve essere andato per il verso sbagliato nella retorica di Lukashenko: il popolo, almeno una sua parte, ora non è più disposto ad affidargli il Paese per la sesta volta. Sasha 3%, un nuovo soprannome di Lukashenko, nato dai suoi consensi bassi e destinato a scalzare oramai il decennale bat’ka (il padre, in questo caso del popolo), sta esaurendo i concetti su cui ha sempre fatto leva nel suo governo autocratico.
Chi ha sfidato Lukashenko?
È cominciato tutto dalla negligenza di Lukashenko verso la pandemia, definita da lui come una psicosi, e dalla sempre più sentita crisi economia nel Paese. Poi è arrivato l’arresto e la detenzione del blogger popolare Sergey Tikhanovskiy, 41, con l’accusa di organizzare azioni di gruppo che violano gravemente l’ordine pubblico. Di seguito il blogger non ha potuto registrarsi come candidato alle elezioni presidenziali, e sua moglie Svetlana si è registrata al suo posto.
Poi è arrivato il turno del banchiere Viktor Babariko, 56, ora in prigione anche lui accusato di appropriazione indebita. È stato bandito dalle elezioni con l’accusa di incongruenze nella dichiarazione di redditi e di aver usufruito di finanziamenti esteri per la sua campagna elettorale. Babariko, ex capo della banca Belgazprombank, di proprietà del colosso russo Gazprom, avrebbe potuto essere uno dei rivali politici più temuti dal presidente attuale.
Il terzo candidato, defenestrato anche lui, è Valery Tsepkalo, 55, ex capo del parco high-tech bielorusso. Una volta faceva parte della squadra che aveva portato Lukashenko al potere nel 1994, scrivono i media locali. Nel passato è stato l’assistente del Presidente, ha ricoperto la carica del Vice Segretario del ministro degli Esteri e dell’ambasciatore bielorusso negli Stati Uniti.
Dopo che è stato rimosso dalla lista di candidati della Commissione elettorale centrale bielorussa, Tsepkalo, onde evitare un probabile arresto, è fuggito prima in Russia e poi a Kyiv, nella capitale ucraina, dove dovrebbe trovarsi finora.
Da casalinga alla candidata alle presidenziali
Dopo l’arresto del blogger Tikhanovsky in scena è salita sua moglie Svetlana Tikhanovskaya, 37, che nel giro di tre mesi da timida casalinga si è trasformata in una forza trainante per quella parte di bielorussi che vorrebbero cambiare qualcosa nel sistema politico del loro paese. Ora è diventata la rivale più potente di Lukashenko.
Dopo l’arresto di Viktor Babariko e la mancata registrazione di Valery Tsepkalo, la capa della sede elettorale del primo, Maria Kolesnkova, e la moglie del secondo, Veronica Tsepkalo, hanno riunito le forze e hanno deciso di sostenere Tikhanovskaya, l’unica candidata registrata. Tikhanovskaya, che è sempre stata lontana dalla politica, nel suo programma punta sull’indipendenza della Bielorussia e sulle nuove elezioni dopo sei mesi, nonché sul rilascio dei prigionieri politici. Nonostante l’assenza di qualsiasi esperienza politica precedente, Svetlana è riuscita a mobilitate le persone. Il raduno a suo sostegno del 30 luglio scorso ha riunito più di sessantamila persone, una cifra alquanto esorbitante.
Многотысячный митинг Тихановской в Минске — в фотографиях. pic.twitter.com/zoyU60cTcm
— TUT.BY (@tutby) July 31, 2020
Il fenomeno di Tikhanovskaya, una semplice ragazza senza alcuna esperienza politica, rispecchia molto bene il sempre più crescente desiderio dei bielorussi di voltare pagina nel loro libro politico, per il momento scritto da una sola persona – Alexandr Lukashenko. A dimostrarlo sono le ondate di numerose proteste e raduni che scuotono il Paese in questi ultimi giorni.
E la Russia?
Le posizioni di Lukashenko sugli oppositori sono chiare: in un’intervista recente al giornalista ucraino Dmitry Gordon, alla domanda se la Russia abbia qualche relazione con candidati non registrati, ha risposto che Viktor Babariko e Valeriy Tsepkalo sono finanziati con i soldi di Gazprom russa. E a Tikhanovskaya, invece, è toccato un spezzante “Mi fa pena”, e un “Di cosa avremmo discusso con lei? Non c’è niente di cui parlare”, dopo che la candidata gli aveva proposto un dibattito.
Precedentemente, il 29 luglio, nei presi di Minsk sono stati arrestati 33 mercenari russi della compagnia paramilitare privata Wagner, coinvolta in tanti conflitti armati nel mondo, tra cui anche Donbas in Ucraina, e considerata vicina al Cremlino.
Secondo la versione ufficiale di Minsk, Mosca avrebbe inviato più di 200 mercenari, presumibilmente per destabilizzare la situazione nel Paese prima delle elezioni. Senz’altro gli arresti hanno sollevato un polverone, almeno nel “vicinato” bielorusso: ora Kyiv chiede a Minsk di consegnare i mercenari che hanno combattuto nel Donbas, e Mosca ritiene che la colpevolezza di cittadini russi non è stata provata e li rivuole indietro. Però, del resto, l’accaduto non ha cambiato l’agenda politica del Paese. Oramai c’è troppo scetticismo su quello che dice Lukashenko prima delle elezioni, e i militanti mandati dall’estero compaiono regolarmente nel discorso delle autorità: è successo prima delle elezioni del 2006 e del 2010 e prima delle proteste del 2017, scrive il Centro Carnegie di Mosca.
Non è chiaro come andrà a finire in Bielorussia stavolta. Una cosa rimane certa: Lukashenko non lascerà il potere facilmente, ci sono già troppi segnali, tra i numerosi arresti di candidati e sostenitori di Tikhanovskaya e la famosa “operazione Wagner”. In più, durante le giornate delle elezioni parzialmente anticipate, partite il 4 agosto, alcuni media e gli osservatori delle elezioni sono stati ostacolati mentre svolgevano il propio lavoro. Questo aggrava molto la situazione, visto che non ci sono degli istituti di monitoraggio delle elezioni che siano indipendenti nel Paese. Però è anche abbastanza chiaro che stavolta i bielorussi non sono più disposti ad accontentarsi di falsificazioni elettorali. Staremo a vedere.
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