I bambini di Soweto
Scritto da Valentina Ruozi in data Maggio 17, 2020
C’è una bimba con gli occhi scuri che mi corre incontro.
Il suo vestitino rosa è sudicio e strappato, i suoi piedini nudi corrono sui sassi e tintinnano al suono di una cavigliera di campanelli. Credo voglia un abbraccio perché mi corre incontro e prova a cingermi una gamba. Mi verrebbe da stringerla, pulirle il faccino sporco, ma non so che fare, mi hanno detto di stare molto attenta.
Soweto
Siamo a Soweto, un sobborgo di Johannesburg, a circa 30 km dal centro eppure qui ci si può immaginare ben poco delle strade grandissime e degli hotel lussuosi del Downtown. Johannesburg è classificata come una delle città più pericolose del Sudafrica e del mondo per il suo altissimo tasso di criminalità e di atti di violenza. Eppure Soweto lo è ancora di più. Sembra di attraversare la porta dell’inferno, in una bidonville nel centro della città, dove i pochi fortunati vivono in case in muratura barricati dietro recinzioni e filo spinato alti fino a cinque o sei metri, mentre i più sfortunati o, per meglio dire la media della popolazione, vive in baracche di lamiera, a volte senza il tetto, con le fogne a cielo aperto, la spazzatura che fa da pastura ai ratti, in cui uomini e animali convivono, i cui i bambini non sono bambini.
Al numero 8115 di Ngakane Street nel quartiere di Orlando West, c’è una casetta in muratura di quattro stanze. E’ qui che Nelson Mandela andò ad abitare con la sua prima moglie Evelyn Ntoko Mase ed è qui dove la sua seconda moglie Winnie si trasferì nel 1958, e rimase con le figlie anche durante la prigionia del marito.
Eppure a Soweto, nel simbolo, nel centro della lotta all’apartheid, le disuguaglianze non sono mai finite e la lotta eterna tra neri e bianchi, bianchi e neri, non è finita e chissà se mai finirà.
Mama Annie mi accoglie nella sua casa, con il suo bell’abito giallo con alcune giraffe disegnate. Mama Annie è una delle poche fortunate, vive in una delle case in muratura, barricata dentro la sua recinzione e mi apre mentre alcuni “ragazzi fidati” tengono d’occhio la nostra jeep. Mi consiglia di togliere dall’auto tutto ciò che potrebbe dare nell’occhio, qualsiasi possibile accessorio come anche una bottiglia d’acqua, che potrebbe destare attenzione e mi fa riporre la ruota di scorta nel suo garage mentre il figlio vigila l’ingresso.
I tempi delle proteste e delle retate
Il marito è morto anni fa, non di morte violenta, mi specifica, ma a Soweto non si può stare tranquilli. Non ci sono soldi, le persone sono per il 90% analfabete, non c’è istruzione, conoscenza, dignità, il tasso dei malati di HIV supera il 30%, contro il 13% del resto del Sudafrica. Soweto è un angolo di mondo a sé, avvolto nell’odore di fumo dei fuochi domestici, dagli occhi che studiano, guardano, seguono ogni forestiero, da grida lontane che ancora riecheggiano sotto il sole del mattino. Soweto ha ancora negli occhi le lotte del 16 giugno 1976, quando tutti gli studenti della township si diressero verso lo Stadio di Orlando per protestare pacificamente contro l’introduzione dell’afrikaans nelle scuole al posto dello zulu. Fu un massacro. La polizia aprì il fuoco e fu lì che persero la vita anche quattro bambini, tra cui anche il tredicenne Hector Pieterson, divenuto poi uno dei simboli della rivolta.
“Da quella notte, per moltissime altre notti seguenti la polizia fece retate su retate in ogni casa- mi racconta Mama Annie- per cercare quegli studenti che avevano partecipato a quelle lotte. Io mi ero appena sposata, ancora non avevo figli ed ero già troppo adulta per essere una studentessa. Sono stata molto fortunata. Fu lì che iniziammo a barricarci in casa e da lì non abbiamo mai smesso, ma qui è sicuro, non ti preoccupare. “It’s safe, it’s really safe”.
C’è un bimbo con il viso arrabbiato e la smorfia da duro a Soweto. Provo a chiedergli come si chiama, ma mi guarda e scappa via. Dietro a una catapecchia ne spunta un altro e si affianca a sua madre. Noto il suo viso tumefatto. E’ sabato e a Soweto, gli uomini il venerdì fanno festa, bevono tutta la notte, e così al sabato decine di donne con il viso gonfio, ematomi, labbra rotte per i pugni e le percosse sfilano chine nelle vie.
Si stringe il cuore. Si vorrebbe andare, scuoterle e costringerle ad andarsene, ma come si fa spiegare a queste persone i diritti umani.
Come si fa a spiegare loro la libertà?
C’è un bambino con una maschera di cartone che esce da dietro un cumulo di spazzatura, mi guarda dai buchi della sua armatura e lo sento quasi bruciarmi la pelle. C’è una casa, il cui l’intonaco è fatto di cartelli che pubblicizzano l’aborto. Ce ne sono a migliaia affissi lungo le pareti scalcinate e le lamiere di Soweto. Il cartello cita: “Chiama o invia un Whatsapp a Cindy, pulizie gratis, 100 Rand”.
Soweto è tutto questo, e molto molto altro ancora. Soweto è il bimbo che esce dalla sua casa imbracciando con tale destrezza una pistola e puntandola contro l’uomo bianco che passa, a Soweto siamo noi i visitatori infiltrati, sono io, che alla fine e per fortuna non ho mai saputo se quella pistola fosse un giocattolo, Soweto è una bimba sieropositiva che vuole un abbraccio o un’altra sorridente che ti porge il pollice facendoti così conoscere il modo di questi bambini di dare un High Five.
Soweto è Mama Annie, sono le donne della comunità che ospitano i visitatori nelle loro case, sono i bar clandestini nei garage dove dopo la messa, ci si va ad ubriacare o a fumare, Soweto è quella ragazza vestita di verde, con una casa anch’essa verde, che in mezzo a tanta miseria sembra un bellissimo dolce alla menta. Soweto è la farmacia fatta di erbe miracolose, barattoli luridi, ossa di animali, polvere, sporcizia, è il mercato dove le teste di vacca aspettano di essere bollite nei paioli e giacciono a terra assieme ai ratti morti.
Soweto è qui, dove tanti uomini bianchi ancora speculano e si approfittano, mentre tanti uomini neri ancora odiano e violano, Soweto sono le donne tumefatte che il sabato mattina si svegliano piene di lividi e con le ossa rotte, ma che comunque si alzano e spazzano la terra dalla soglia di casa. Soweto sono migliaia di aborti illegali in condizioni igienico sanitarie disperate, sono i finti santoni che chiedono denaro in cambio di un miracoloso antidoto per far tornare il tuo amore perduto, Soweto sono i bimbi che hanno 4, 5, 7 anni eppure hanno negli occhi tutta la vita, l’odio, l’energia, il fuoco, la rassegnazione, l’esperienza di un trentenne. Questi sono i figli di Soweto, anche dopo Nelson Mandela, la civilizzazione, le rivolte. Questi sono gli adulti bambini di cui, tra queste lamiere, il mondo ben poco ancora conosce.
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