Il capitano coraggioso
Scritto da Giuliano Terenzi in data Febbraio 10, 2019
Cosa siete disposti a fare per realizzare uno dei vostri sogni e a cosa siete disposti a rinunciare pur di ottenerlo? Senza dubbio uno dei sogni di un calciatore è vincere un mondiale: alzare la coppa del mondo al cielo significa – certamente! – entrare nell’olimpo del calcio diventando di conseguenza un mito e un idolo che difficilmente potrà cadere nel dimenticatoio. Per la maggior parte dei calciatori professionisti la vittoria di un campionato del mondo rappresenta il più alto traguardo raggiungibile e chiunque, per raggiungere il suo sogno, normalmente è disposto a sacrificare qualcosa. Il nostro protagonista, invece, non rinunciò solo ad alzare la coppa del mondo ma rinunciò a farlo da capitano e sotto gli occhi dei suoi tifosi che, da sempre, fanno del calcio una ragione di vita e di morte.
La dittatura in Argentina
La situazione del ’78 in Argentina è tutt’altro che positiva: al potere c’è il generale e dittatore Jorge Rafael Videla che è salito al potere due anni prima, dopo un colpo di stato all’interno dell’Operazione Condor, una massiccia operazione politica, orchestrata dal governo americano e dalla CIA, volta sia a limitare l’influenza socialista e comunista negli stati sudamericani, sia a favorire le giunte militari e gli organi di repressione. Il 25 marzo del ‘76 l’Argentina diventa, insieme a Uruguay, Brasile, Cile, Bolivia e Paraguay, il sesto paese del Sud America governato da una dittatura militare. In quei giorni la Selección non è in patria bensì dall’altra parte dell’oceano, a Chorzow per disputare un’amichevole contro la Polonia del fortissimo Denya, considerato dai più il miglior calciatore polacco di sempre. Nel frattempo, in Argentina, la giunta militare ha oscurato tutte le trasmissioni tv e radio e l’unica cosa che viene trasmessa sono i comunicati di regime, le marce militari e…e la partita contro la Polonia. Come se nulla fosse successo il famoso e storico telecronista argentino José Maria Muñoz, meglio conosciuto come el gordo, prende la linea e commenta la partita. Ovviamente il calcio fa comodo alla dittatura e può essere anche una fonte di propaganda visto che i mondiali del ‘78 si disputeranno proprio nel paese argentino. Per la serie: rilassatevi e svagatevi con il calcio che a mantenere l’ordine ci pensiamo noi. Vista la situazione del paese qualcuno solleva delle perplessità sull’assegnazione della manifestazione; la FIFA, preoccupata, o meglio, fintamente preoccupata, manda un emissario a verificare la situazione (un po’ come successe con Avery Brundage per le Olimpiadi di Berlino del 1936) ma il personaggio che manda è un ex SS Hermann Neuberger che nella sua relazione scrive: “Il cambio del governo non ha niente a che vedere con il Mondiale, siamo gente di calcio, non politici”. Il presidente della FIFA, che dovrebbe prendere la decisione finale, è un brasiliano: Havelange. Si saprà solo negli anni a venire che la giunta militare argentina ha arrestato e rinchiuso in un centro di detenzione il figlio di un diplomatico brasiliano. Lo scambio è presto fatto: il prigioniero per il mondiale.
L’obbiettivo del dittatore Videla è usare i campionati del mondo per dare un’immagine esclusivamente positiva del paese, i mondiali devono essere una meravigliosa e luccicante macchina da propaganda. Anche qui il raffronto con l’idea di Hitler sulle Olimpiadi del ’36 di Berlino è presto fatto. Durante l’inaugurazione dello stadio Monumental di Buenos Aires c’è anche Havelange che dichiara: “Finalmente il mondo può conoscere il vero volto dell’Argentina”. Peccato che a poche centinaia di metri da lì è in piena attività uno dei centri di tortura del “Processo di Riorganizzazione Nazionale” (questo è il nome con cui si autodefinisce la dittatura militare argentina) e, ad alcuni chilometri più in là, quelli conosciuti come “aerei della morte” gettano i prigionieri vivi in fondo al mare.
El Lobo Carrascosa
In quegli anni il capitano della nazionale Argentina è Jorge Carrascosa. È un terzino sinistro che fa dal carisma e della tenacia le sue caratteristiche migliori ed è proprio per il suo spirito di sacrificio che indossa la fascia di capitano. La fascia dovrebbe averla anche ai Mondiali, Menotti, il CT, glielo ha promesso e poi è assolutamente benvoluto dai suoi compagni che non a caso lo chiamano “el lobo”, il lupo, e in una competizione tosta come il mondiale c’è assolutamente bisogno di giocatori come lui per riuscire ad arrivare fino in fondo. In caso di vittoria sarebbe stato dunque Carrascosa a ricevere la Coppa del Mondo dalle mani lorde e insanguinate di Videla. Ma Carrascosa, nonostante l’albiceleste abbia vinto il mondiale, non ha mai alzato la coppa e non ha mai stretto la mano a Videla. Perché? Perché “el lobo” decise di rinunciare a quello che probabilmente era il suo sogno di bambino: giocare il Mondiale, in casa, con la maglia della Selección?
Lì per lì non rivelò mai pubblicamente il motivo della rinuncia ma furono gli altri a parlare di lui; dissero che non aveva voluto stare al gioco e farsi complice del regime e che era diventato un eroe proprio perché aveva rifiutato la battaglia, che il suo silenzio aveva fatto più rumore dello stadio pieno la notte della finale. Molti anni dopo finalmente la verità viene a galla; è lo stesso Carrascosa che in un’intervista decide di raccontarsi: “Fisicamente e dal punto di vista tecnico stavo benissimo: ma è dentro di te, che devi essere in forma. E quello che stava accadendo mi faceva stare male. Non avrei potuto giocare e divertirmi, non sarebbe stato coerente, quelle erano solo delle partite di football. Certe cose – la patria, l’essere fratelli, la vita o la morte – non hanno niente a che vedere col prendere a calci un pallone. Si vince o si perde, però con dignità. Per questo non mi sono mai pentito della mia scelta”. Quando Carrascosa fa riferimento a quello che stava accadendo, si riferisce alla Escuela de Mecanica che si trova a pochi metri dal Monumental di Buenos Aires che, insieme al Garage Olimpo, è uno dei luoghi di detenzione più sanguinari di tutto il paese dove, mentre gioca la nazionale, migliaia di prigionieri venivano torturati senza alcuna pietà.
La “marmelada peruana”
Quando invece fa riferimento alla dignità nelle vittorie e nelle sconfitte probabilmente fa riferimento alla “Marmelada Peruana” (il termine marmelada corrisponde al nostro “biscotto”). Dopo le prime due partite, la qualificazione del gruppo B è una storia a due tra Brasile e Argentina che, appaiate in classifica, si giocano tutto nell’ultimo scontro e, in caso di vittoria di entrambe, sarà la differenza reti a decretare la prima semifinalista. Per ovvie ragioni di imparzialità le due partite si dovrebbero giocare in contemporanea ma inspiegabilmente ed ingiustamente il Brasile gioca prima dei padroni di casa e batte 3-1 la Polonia. L’Argentina sa che per passare il turno dovrà battere il Perù con almeno quattro gol di scarto. L’impresa sembrerebbe complicata, quasi impossibile se non fosse che, a difendere i pali del Perù, che non ha più niente da chiedere al mondiale, c’è Ramon Quiroga un argentino nato a Rosario che è, incredibilmente, la stessa città dove si gioca la partita, che ha preso la cittadinanza peruviana appena qualche mese prima. Gli argentini segnano a ripetizione e Quiroga raccoglie il pallone da dentro la porta per ben sei volte. Col senno di poi, alla luce di questi avvenimenti, Carrascosa non si è mai pentito della scelta fatta e non dà l’idea di avere rimpianti: “Ho scoperto che avevo fatto la scelta giusta. Che bisogna investire nell’amicizia, nella famiglia. Avevo altri anni di contratto da calciatore, ma i soldi non erano importanti. Con un amico siamo diventati assicuratori: un lavoro onesto, che mi ha permesso di conoscere tante belle persone. Di continuare a vivere nel mio quartiere. Una questione di valori, anche se non è facile trovare la pace interiore. Felice? Adesso alla mia età sono verso la fine della partita: però mi sembra di averla giocata bene”.
I numeri della dittatura
Ecco svelati i motivi della rinuncia di Carrascosa alla sua nazionale, non aveva alcuna intenzione di sentirsi responsabile dell’orrore che stava accadendo. Quando, anni dopo, la Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas rese noti i numeri dei crimini commessi dalla dittatura militare argentina si contarono 30.000 desaparecidos, 15.000 fucilati, 10.000 torturati e due milioni di esuli.
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