Il ruolo dello stato nell’economia

Scritto da in data Luglio 13, 2020

Il ruolo dello stato nell’economia

Oggi parleremo di un argomento molto complesso che è tornato d’attualità negli ultimi mesi a causa della pandemia da coronavirus, cioè il ruolo dello Stato nell’economia.

Partiamo da una notizia comparsa sui giornali nelle scorse settimane e che riguarda una delle più grandi compagnie aeree del mondo la Lufthansa. Sotto il cappello della compagnia di bandiera tedesca, col tempo sono state acquisite anche: Austrian Airlines, Swiss Air, Brussels Airlines, Eurowings e Air Dolomiti. Il gruppo aveva chiuso il 2019 con un fatturato di 36,42 miliardi di euro, dava impiego a circa 135.000 dipendenti, poteva contare su una flotta di 800 aerei che avevano trasportato ben 142 milioni di passeggeri.

Invece di leggere prova ad ascoltare: la musica e la narrazione renderanno l’esperienza più coinvolgente!

Il sostegno dello Stato

Purtroppo la pandemia e il lockdown hanno ridotto il traffico aereo a livello internazionale del 90% e in pochi mesi la Lufthansa si è trovata sull’orlo del fallimento.

Il governo tedesco è dovuto intervenire con un’iniezione di liquidità, soldi pubblici, di ben 9 miliardi di euro, in cambio dell’acquisizione di una quota di partecipazione del 20% nel capitale dell’azienda.

La fase più acuta dell’emergenza sanitaria almeno in Italia e nei paesi europei sembra superata, ma cominciano a vedersi le ombre lunghe della recessione, una recessione che sarà molto pesante. Le ultime stime parlano di un crollo del PIL dell’Unione Europea che varia nei diversi paesi, tra il -8% e il -11%. Inutile dire che il risultato peggiore sarà quello dell’Italia, almeno stando alle previsioni. Si tratta in realtà di calcoli ancora approssimativi e in parte anche azzardati ma di sicuro la crisi sarà molto più dura di quella del 2008-2009.

Quindi, come già era avvenuto dopo il 2008, quando arriva una crisi devastante si scopre che il mercato non è sufficiente o non è capace di mettere in atto meccanismi adeguati per contrastare e superare quella crisi. Devono intervenire direttamente gli Stati perché la capacità di autoregolazione del mercato, uno dei mantra dell’ideologia neoliberista, si manifesta per quello che è: un’affermazione ideologica. Il mercato non è capace di autoregolarsi, non è capace di affrontare le crisi!

C’è bisogno che gli Stati intervengano nell’economia per evitare conseguenze ancora più disastrose. Torna quindi d’attualità un dibattito, che in realtà dura da almeno due secoli, sul ruolo dello Stato nell’economia.

Ora non vogliamo annoiare nessuno andando a ripercorrere la storia del pensiero e del dibattito economico, però alcuni concetti è bene conoscerli per inquadrare nella giusta prospettiva anche molte delle discussioni e delle proposte che vengono fatte in questi giorni. Facciamo quindi una rapida carrellata storica per mettere a fuoco alcuni concetti.

Un dibattito eterno

Semplificando molto possiamo dire che, negli ultimi due secoli e rotti, a partire in sostanza dalla rivoluzione industriale verso la fine del Settecento, fino ai giorni nostri, tra gli economisti si sono affrontate due principali scuole di pensiero. Ognuna di queste scuole si è articolata a sua volta in diversi rami ma la divisione fondamentale passa per un concetto di fondo. Da un lato ci sono coloro che pensano che il capitalismo o il mercato siano il sistema economico migliore e più efficiente che sia mai comparso sul pianeta terra e dall’altro ci sono coloro che invece pensano che il capitalismo o il mercato presentino tante criticità e tanti problemi per cui quel sistema, o meglio questo sistema, quello nel quale viviamo, vada o cambiato radicalmente o comunque profondamente riformato.

Potremmo quindi, sempre semplificando molto, distinguere le diverse scuole economiche tra gli apologeti del capitalismo e del mercato e i loro critici.

Gli apologeti a grandi linee sostengono che il sistema è molto efficiente, ogni individuo agisce in maniera razionale perseguendo i suoi interessi. Il consumatore cerca di comprare i beni di cui ha bisogno al miglior prezzo possibile, il commerciante o l’imprenditore cercano di vendere i loro prodotti al maggior prezzo possibile perché vogliono massimizzare i loro guadagni. Le interazioni tra i vari soggetti creano il mercato, e il mercato raggiungerà in maniera automatica un suo equilibrio. Grazie al libero gioco della domanda e dell’offerta di beni, prodotti, servizi, capitale, lavoro, il mercato ricrea sempre l’equilibrio. Un grande economista come Adam Smith, vissuto tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, diceva che esiste una sorta di “mano invisibile”, quasi fosse una sorta di mano divina che porta in equilibrio il mercato.

Gli apologeti sostengono che in questo meccanismo del mercato, sostanzialmente perfetto, qualunque intervento esterno teso a modificarlo con regole, paletti, adempimenti vari, finisce per creare inefficienze. Il disequilibrio nasce quindi dalla volontà della politica di intervenire in un meccanismo che per funzionare bene va invece lasciato libero, privo di interferenze esterne.

Al contrario i critici del capitalismo sostengono che il mercato lasciato libero finisce, prima o poi, per entrare in crisi per varie ragioni, che non stiamo qui a elencare per non complicare troppo il nostro ragionamento. Ma le crisi non sono indolori, causano chiusura di aziende, perdita di posti di lavoro, sofferenze, miseria, disuguaglianze e il mercato da solo, come ci dimostra l’evidenza storica, non è in grado di superarle. Occorre quindi intervenire, o meglio, lo Stato deve intervenire per affrontare le crisi, per prevenirle o per evitare che i costi sociali che ne derivano assumano dimensioni devastanti.

Ma qui le ricette su come intervenire si dividono e ci sono in sostanza due grandi divaricazioni. Da un lato ci sono coloro i quali sostengono che il sistema capitalistico non è riformabile e quindi va cambiato radicalmente.

La corrente marxista

La principale corrente di pensiero che sostiene questa tesi è quella marxista, oggi poco conosciuta ma che ha avuto una rilevanza notevole per tutto il corso del Novecento. Tutti conoscono o quantomeno hanno sentito parlare di Karl Marx e del suo libro Manifesto del Partito Comunista. Scritto assieme a Friedrich Engels e pubblicato nel 1848 è stato uno dei più grandi best seller a livello mondiale. Ma quel libro era, in sostanza, un libello politico, l’opera più importante e meno conosciuta di Marx si intitolava invece: Il Capitale. Un’opera poderosa in diversi volumi, migliaia di pagine, nella quale Marx tenta di fare un’analisi scientifica del sistema capitalistico. Marx arriva alla conclusione che il sistema capitalistico è una forma di organizzazione economica oltre che ingiusta, ma questo è un giudizio morale e politico, soprattutto intrinsecamente instabile e questa è una considerazione economica.

Il capitalismo, secondo Marx, è destinato a scomparire perché le sue stesse leggi di funzionamento sono così contraddittorie che prima o poi lo porteranno a implodere.

Un secondo filone importante è quello di coloro che, pur essendo convinti che il mercato lasciato a se stesso non raggiunga l’equilibrio, ma periodicamente produca delle crisi, con tutti i danni che ne conseguono, ritengono che il mercato sia un meccanismo efficiente di organizzazione economica e quindi il sistema va riformato, va edulcorato, va migliorato in quelli che sono i suoi aspetti negativi. Costoro sostengono che il capitalismo ha certamente molti difetti e bisogna cercare di correggerli ma senza esagerare perché le alternative, per esempio quelle suggerite dai marxisti, potrebbero risultare ancora peggiori.

Le teorie di John Maynard Keynes

In questo filone di pensiero si colloca quello che è stato sicuramente il più grande economista del Novecento, l’inglese John Maynard Keynes. Nato nel 1883, lo stesso anno nel quale morì Karl Marx – singolare coincidenza – visse la sua vita adulta nella prima metà del Novecento, il periodo della grande crisi del 1929 e della successiva Grande Depressione. Visse anche il periodo delle due guerre mondiali, durante il quale svolse anche importanti incarichi governativi.

Le teorie di Keynes ispirarono le politiche economiche messe in atto dal Presidente americano Franklin Delano Roosevelt, all’inizio degli anni Trenta, per affrontare la Grande Depressione, quello che fu chiamato il New Deal. Quelle politiche si basavano su grandi programmi di spesa e di investimenti pubblici e quindi su un forte intervento dello Stato nell’economia. Se c’è una crisi e il settore privato non è in grado di produrre domanda di beni e servizi, quella domanda, che serve per rimettere in moto il meccanismo dello sviluppo, deve essere creata dallo Stato. L’obiettivo dei governi nei periodi di crisi deve essere quello di combattere la disoccupazione creando lavoro e distribuendo reddito e questo perché il mercato, da solo, non è in grado di rimettere in moto la crescita.

Le idee di Keynes continuarono ad avere un grande successo e un grande seguito fino agli anni Settanta del Novecento.

I decenni della ricostruzione post bellica, furono un periodo di forte crescita economica nel quale la presenza dello Stato nell’economia era molto forte e diffusa. Anche per l’Italia gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta furono gli anni del cosiddetto miracolo economico. Esisteva a quell’epoca il Ministero delle Partecipazioni Statali perché lo Stato interveniva direttamente in molti settori dell’economia, settori portanti in quegli anni, da quello degli idrocarburi a quello energetico, dalla siderurgia alla chimica.

Ma situazioni simili c’erano anche negli altri paesi dell’Occidente. In Giappone, per esempio, il MITI, il Ministero del Commercio Internazionale e dell’Industria, svolse una funzione essenziale di direzione e impostazione delle linee strategiche di sviluppo di quel paese.

In tempi più recenti, negli anni Novanta, anche le cosiddette “tigri asiatiche”, paesi come Taiwan, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud, ebbero tassi di crescita economica eccezionali grazie a un rapporto sinergico tra ruolo dirigista dello Stato e iniziativa privata.

Anni Settanta: la turbolenza del sistema capitalistico

Ma, negli anni Settanta il sistema capitalistico mondiale entra in un periodo di grande turbolenza. Gli Stati Uniti in crisi per i costi esorbitanti della Guerra del Vietnam decidono di far saltare il sistema di cambi fissi delle valute, quello concordato a livello internazionale nella conferenza di Bretton Woods alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Si passa a un sistema di cambi fluttuanti che aggiunge ulteriore instabilità alle economie occidentali che, proprio in quegli anni, vengono colpite dagli shock petroliferi. I grandi paesi produttori di petrolio del Medio Oriente, utilizzano come pretesto la guerra del 1973 tra Israele e i paesi arabi, quella che fu chiamata la guerra dello Yom Kippur, per alzare i prezzi delle forniture petrolifere ai paesi occidentali.

Gli anni Settanta furono anni difficili dal punto di vista economico: shock petroliferi, instabilità dei cambi, crisi della grande industria, inflazione elevata, dure lotte operaie e rivendicazioni sindacali, riduzione dei tassi di crescita economica.

Quel modello di sviluppo che aveva caratterizzato quelli che gli americani chiamano i magnifici trenta, all’incirca il periodo storico che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla metà degli anni Settanta, entra in crisi.

Negli anni Ottanta, come reazione a quella crisi, avviene nei paesi dell’Occidente una grande rivoluzione politica ma anche culturale e ideologica, rivoluzione portata avanti da due leader molto volitivi e carismatici: Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Fu una rivoluzione di segno conservatore e fu la rivoluzione del neoliberismo.

Ma del neoliberismo parleremo nella prossima puntata.

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