Il segreto di Leyla
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 27, 2020
Nel giorno della Memoria, questa è la sua storia.
Barbara Schiavulli per Radio Bullets
Si può nascere ebrei ed essere mandati a morire. Si può essere salvati da un medico cristiano quando intorno a te, l’orrore si compie. Si può diventare musulmani per proteggere i propri figli dalle leggi degli ebrei. Helen Brashatsky o come la conoscono tutti, Leyla Jabarin, è stata tutto questo. Un inno alla vita da qualsiasi parte si osservi la sua. A 71 anni, per la prima volta dopo 52 anni, ha rivelato alla sua famiglia araba di essere una sopravvissuta all’Olocausto.
Umm el Fahem è un arroccato paese arabo di 50 mila abitanti che si arrampica nel territorio israeliano molto a nord di Gerusalemme. Si lasciano le belle strade asfaltate e ci si immerge nella confusione di una cittadina brulicante tra curve e salite. Non è facile trovare Leyla e il suo segreto. Si attraversa la città per arrivare alla sua vita. Si chiede in giro, si seguono le indicazioni, si va per la grande moschea. Lei abita lì.
Non è facile, perché il nome Jabarin appartiene a una delle quattro famiglie che popolano il paesotto. E sono centinaia.
Thabet, Jabarin appunto, 33 anni, è appena uscito da una prigione israeliana, ha scontato due anni per aver lanciato granate in un insediamento ebraico. Scruta la strada, ciondola per le viuzze, raccoglie le nostre indicazioni e ci rivela di essere il vicino i casa di Leyla.
Leyla nella sua veste lunga, con il velo che le incornicia quel viso dalle sfumature chiare, poco arabe, apre la porta di casa e spalanca il cuore. A valanghe di dolcetti, bevande fresche, srotola la sua storia circondata dalla sua famiglia che se ora conosce il suo passato, resta sempre a bocca aperta.
Sono nata ad Auschwitz
“Sono nata ad Auschwitz”, mormora Leyla. Una frase che suona pesante come un macigno. Seduta sul divano, con il marito che le sorride dall’altra parte della stanza, non ha più paura del suo passato. Non deve più proteggere i suoi figli dalla sua storia e soffrire in silenzio. “Quando i miei genitori e i miei fratelli sono stati deportati, mia madre era incinta di me. Era il 1941”, e gli ebrei venivano spediti a morire nei campi di concentramento. Vivevano in Jugoslavia, la madre era ungherese, il padre di origine russa. Avevano due figli quando furono trascinati ad Auschwitz. “Quando sono nata, un dottore cristiano mi ha nascosto in un asciugamano”, spiega Leyla. Quel dottore che hanno cercato anni dopo e non hanno mai ritrovato, ha tenuto la famiglia nascosta a casa sua per tre anni, in un intercapedine del pavimento. La madre e il padre uscivano di giorno per dare una mano nella casa del dottore e la sera si nascondevano nel loro buco, stretti ai figli. “Anche se ero piccola mi ricordo ancora le divise a strisce dei prigionieri, le botte, ricordo mia madre che ci dava da mangiare piccoli pezzi di pane inzuppati nell’acqua calda e sale per ammorbidirlo. Per non farci uscire, ci diceva la verità, che i nazisti uccidevano i bambini. Ma il dottore tedesco e cristiano ci ha salvato e oggi fossi abbastanza in salute, mi piacerebbe tornare a visitare quel posto”.
Leyla è sopravvissuta a quattro infarti, entra ed esce dall’ospedale. “Le mie ossa sono deboli per la malnutrizione di allora. E’ così difficile parlare di un posto dove tanta gente ha sofferto”. Ci ha messo 52 anni per farlo. Poi come una valanga le è uscito tutto fuori. “Ogni anno guardavo le celebrazioni del giorno della memoria e piangevo da sola, non so descrivere a parole il dolore che sentivo”. La famiglia non sapeva e non capiva. Poi qualche mese fa, è arrivato da Tel Aviv un ispettore ebreo in una casa di cura, dove Leyla ogni tanto passa a dare una mano, e il direttore, forse per evitare la patata bollente, ha chiesto a lei di occuparsene visto che parlava ebraico. “Mi ha chiesto come mai parlavo bene ebraico e io gli ho detto che ero stata ebrea. Mi ha guardato sorpreso, ha insistito e io ho detto tutto”. A un estraneo prima e poi ha riunito la sua famiglia. “Siamo in un paese in guerra e non volevo spaventare i miei figli. La situazione era quella che è ancora. Ebrei contro arabi. E io ero nel mezzo. I miei figli sono arabi. Ma hanno sangue ebreo. Comunque la si guardasse non suonava bene”. Ma ora non importa più. I suoi nove figli hanno capito non solo la sua storia, ma anche quella madre che piangeva quando vedeva immagini di repertorio che parlavano della Shoah.
L’arrivo in Palestina
Leyla aveva sei anni quando è arrivata in Palestina sotto il mandato britannico con i suoi genitori, pochi mesi prima che venisse dichiarato lo Stato di Israele nel maggio 1948. Arrivarono a bordo di una nave di immigrati, salpata dall’ex Jugoslavia e costretta ad ancorare vicino alla costa di Haifa per una settimana prima che potessero scendere perché gli inglesi stavano bombardando la cittadina portuale. Poi gli inglesi se ne andarono e lei visse in Israele con i suoi genitori non lontano da Tel Aviv fino ai 17 anni quando ha incontrato Ahmed, un ragazzone arabo. E’ stato amore a prima vista. “Era così bello”, dice perdendosi nei ricordi. E’ scappata con lui ad Umm El Fahm. La sua famiglia ha provato a riprenderla più volte, ma lei tornava sempre da lui. E non l’ha mai più lasciato. “Per qualche anno, la mia famiglia non mi ha parlato, poi si sono arresi”.
Helen è Leyla
E piano piano Helen è diventata Leyla, ha fatto 9 figli, ha vissuto una vita tranquilla, ora ha 31 nipoti. Ha guardato avanti, schiacciando quello che c’era dietro. Poi si è convertita all’Islam, per ragioni pratiche più che altro, per evitare ai figli, soprattutto alle femmine di svolgere il militare. “Fu addirittura mia madre a suggerirmelo”.
Questa donna ha finalmente chiuso i conti con il passato.
“Araba o israeliana? musulmana o ebrea? Helen o Leyla? Sono tutto questo, sono una sopravvissuta e la se la mia vita ha un messaggio, è quello di andare avanti e non aspettarsi niente di meno che la Pace”.
Il pezzo è uscito su Famiglia Cristiana
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