Il trattato di Maastricht e l’adesione all’euro
Scritto da Pasquale Angius in data Ottobre 13, 2020
Dal Trattato di Maastricht all’adozione della moneta unica, l’euro, un percorso tutt’altro che lineare.
Invece di leggere, ascolta il podcast per un esperienza più coinvolgente
Etimologia dell’Europa
Sulle monete greche da 2 euro si trova rappresentata una giovane fanciulla a cavallo di un toro. L’immagine si rifà alla mitologia greca secondo la quale Europa era la bellissima figlia di Agenore re di Tiro in Fenicia, l’attuale Libano. Un giorno Zeus la notò mentre faceva il bagno in riva al mare in compagnia di alcune ancelle. Folgorato dalla sua grazia e dalla sua avvenenza si innamorò subito e decise di palesarsi a quella giovane fanciulla nelle sembianze di un toro bianco. Europa, incuriosita dalla mansuetudine di quell’animale, salì in groppa ma Zeus la rapì portandola a Cnosso nell’isola di Creta. A questo punto il racconto mitologico si fa confuso, le versioni divergono ma, secondo i più, Zeus preso dalla foga di possederla le usò violenza. Gli dèi dell’Olimpo, come si sa, erano tipetti poco raccomandabili. Da quella storia non proprio romantica nacquero tre figli, tra i quali anche il famoso Minosse, quello che ci facevano studiare a scuola come padre del terribile Minotauro. Per sistemare le apparenze, Europa fu quindi data in sposa al re di Creta Asterione, mentre Zeus se ne tornò sull’Olimpo. Nella mitologia greca eventi storici, fantasie letterarie, leggende si mischiano, ma pare che i Greci designassero con il termine Europa tutte le terre a nord dell’isola di Creta, quindi in sostanza quello che è oggi il continente europeo.
In realtà secondo la maggior parte degli studiosi, al di là dei miti e delle leggende, il termine Europa deriverebbe dalla parola semitica ereb con la quale gli antichi Fenici designavano l’Occidente.
Il termine Europa fu poi dimenticato per tutta l’epoca del dominio romano sull’intero Mediterraneo. È solo nell’VIII secolo dopo Cristo che si parla per la prima volta di “europei” in una cronaca della battaglia di Poitiers, località della Francia occidentale, dove nel 732 Carlo Martello, re dei Franchi, sconfisse gli arabi, o saraceni come venivano chiamati allora, i quali, dopo aver conquistato la Spagna, attraversati i Pirenei, tentavano di dilagare nell’Europa cristiana.
Dopo questa breve digressione storico-etimologica torniamo al tema che volevamo sviluppare. Nella scorsa puntata eravamo arrivati al Trattato di Maastricht.
Il trattato di Maastricht
Il 7 febbraio del 1992 a Maastricht, in Olanda, fu sottoscritto l’omonimo trattato che stabiliva la cornice generale della nuova Unione Europea, che si doveva basare su tre pilastri fondamentali. Il primo era quello della integrazione economica con la creazione di un mercato unico e l’adozione di una nuova moneta, l’euro. Il secondo riguardava l’integrazione e il coordinamento della politica estera e di quelle sulla sicurezza. Il terzo si occupava della cooperazione giudiziaria e tra le polizie dei vari paesi.
L’aspetto sicuramente più importante fu quello dell’integrazione economica e dell’adozione, da fare con una certa gradualità ma comunque in un arco di tempo ristretto, dell’euro.
Ora, dell’euro parleremo in maniera più approfondita prossimamente. Oggi cerchiamo di capire quali furono le ragioni che portarono l’Italia ad aderire alla moneta unica.
Cominciamo col dire che, inizialmente, i tedeschi erano contrari all’entrata dell’Italia nella moneta unica. Perché? Per una ragione semplice: non si fidavano degli italiani!
Non si fidavano un po’ per un pregiudizio storico: gli italiani avevano iniziato due guerre mondiali alleati dei tedeschi e le avevano concluse alleati dei loro nemici. La seconda ragione, più sostanziale, era la tenuta piuttosto lasca dei nostri conti pubblici e una costante instabilità politica che non facevano presagire nulla di buono.
Ma la leadership politica tedesca, più lungimirante di quella italiana, capì che grazie all’euro avrebbe potuto acquisire un importante vantaggio competitivo e allo stesso tempo ostacolare un concorrente pericoloso come l’Italia.
Un meccanismo che la nostra classe politica in gran parte non ha capito: quei pochi che l’hanno capito hanno cercato di trarvi vantaggio, pochissimi coloro che hanno cercato di opporsi.
I tedeschi, quindi, cambiarono idea perché compresero che con l’euro avrebbero avuto a disposizione una moneta più debole rispetto al marco e questo consentiva di accrescere le loro esportazioni e i loro avanzi commerciali. Allo stesso tempo l’euro sarebbe stato per noi italiani una moneta molto più forte rispetto alla vecchia lira e quindi avrebbe reso più difficili le nostre esportazioni, e noi eravamo e siamo ancora, in molti settori produttivi, un concorrente diretto della Germania.
Gli italiani indulgono spesso nell’autocritica, ma l’autocritica talvolta sconfina nell’autodenigrazione per cui si sentono o si leggono rappresentazioni dell’Italia come se fosse un Paese di cialtroni, scansafatiche, truffaldini con le pezze al culo. Nulla di più lontano dalla realtà, dai dati, quelli economici. L’Italia era, già negli anni Novanta, sia pur con tutte le sue magagne, la quinta potenza economica del pianeta e la seconda potenza manifatturiera d’Europa dopo la Germania. I tedeschi, al di là delle narrazioni giornalistiche che indulgono in sensazionalismi e beceri luoghi comuni, sanno che l’Italia è un importante e affidabile partner commerciale ma è anche un temibile concorrente, per esempio, nel settore metalmeccanico, cardine della potenza industriale tedesca.
La nostra classe politica invece, all’epoca quasi all’unanimità, con rare eccezioni ingaggiò una grande battaglia per fare entrare il nostro Paese nell’euro. Perché?
La battaglia italiana per entrare nell’euro
Per varie ragioni. Certamente ragioni di prestigio. Il complesso di inferiorità che i nostri politici hanno sempre avuto nei confronti dei tedeschi spiega in parte quella scelta. La convinzione era che il club dell’euro fosse una sorta di “salotto buono” nel quale bisognava entrare per far parte del gruppo di “quelli che contano”. Questo atteggiamento è un vecchio errore commesso spesso dalle nostre classi dirigenti. A cavallo tra Ottocento e Novecento i governi italiani sentirono la necessità di dotare il Paese di un impero coloniale per sentirsi alla pari con le altre potenze europee e ci imbarcammo nella conquista di alcuni dei territori (a quei tempi) più poveri dell’Africa: la Somalia e l’Eritrea prima, la Libia dopo. Lenin, il leader della Rivoluzione d’Ottobre, con formidabile capacità di sintesi definì il colonialismo italiano «un imperialismo straccione». Anche Mussolini nel 1941 trascinò l’Italia in guerra a fianco della Germania nazista sostenendo che «aveva bisogno di qualche migliaio di morti per sedersi al tavolo delle trattative di pace». Seguendo questo filone di pensiero i vari Prodi, Monti, Ciampi & C. ci condussero nell’euro pur sapendo che l’euro avrebbe causato il fallimento di diverse decine di migliaia di aziende italiane. Inoltre, per entrare nel “club di quelli che contano” fummo costretti a smantellare gran parte del settore pubblico dell’economia, attraverso un grande processo di privatizzazioni portate avanti per fare cassa e poter quindi rientrare nei parametri contabili stabiliti dal Trattato di Maastricht. Il problema è che quel grande processo di demolizione del settore pubblico dell’economia, certamente fece scomparire anche vecchi e decotti carrozzoni, ma finì per alienare anche infrastrutture strategiche, come per esempio le autostrade, indebolendo il nostro tessuto produttivo. Ma bisognava stare dalla parte dei vincitori o quantomeno di coloro che in quel momento storico sembravano i vincitori!
Poi c’erano altre ragioni più pratiche. Il sistema politico italiano viveva una crisi drammatica che sfociò in Tangentopoli: legarsi al carro europeo fu visto da molti come la scorciatoia facile per dare stabilità politica ad un Paese intrinsecamente instabile come il nostro. In quegli anni inoltre avevamo un’inflazione piuttosto elevata e non si riusciva a metterla sotto controllo ed entrare nell’euro fu visto come una soluzione per risolvere anche questo problema.
Ma c’era anche un altro enorme problema pratico, che nessuno sapeva come risolvere. Nel 1981, su pressione di alcuni economisti e di apparati tecnocratici dei ministeri economici e della Banca d’Italia, si era giunti al famoso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia e in poco più di dieci anni il rapporto tra debito pubblico e PIL era schizzato dal 60% al 120% circa.
Soffermiamoci un attimo per spiegare questo tema, che spesso ricorre nel dibattito economico e politico ma che forse non è molto chiaro nella sua dinamica.
Semplifichiamo per farci capire. Prima del 1981 la Banca d’Italia era subordinata al Ministero del Tesoro, quindi se il Governo italiano aveva bisogno di soldi, per esempio, per affrontare le conseguenze drammatiche di un terremoto o per aumentare le pensioni, poteva fare due cose: aumentare le tasse, ma è sempre una scelta politicamente penalizzante, oppure prendere a prestito dei soldi. Scegliendo questa seconda opzione lo Stato italiano emetteva dei titoli di Stato e li vendeva ai risparmiatori. Il tasso di interesse su quei titoli lo stabiliva il Tesoro. Se quei titoli non fossero stati comprati dai risparmiatori sarebbe intervenuta la Banca d’Italia che li avrebbe comprati. Era una forma surrettizia per emettere moneta. Era come se il Tesoro chiamasse la Banca d’Italia dicendole stampa tot miliardi ché ci servono soldi. Ora questa situazione comporta tutta una serie di problematiche, perché se si stampa troppa moneta il rischio è che si alimenta l’inflazione, un fenomeno che può avere molti effetti negativi. Un altro rischio è quello che gli economisti chiamano “moral hazard”, ovverossia azzardo morale. Cosa significa? Un politico potrebbe pensare di finanziare una qualsiasi legge per distribuire, per esempio, bonus a determinati gruppi sociali sperando di ottenerne in cambio il consenso e quindi il voto. Se quel politico è al governo e dà direttive alla Banca d’Italia di stampare moneta o di aumentare il debito, sta facendo un azzardo morale. In pratica sta acquisendo un vantaggio immediato per sé, per la sua parte politica e per le clientele o i gruppi sociali che intende avvantaggiare ma scaricherà i costi e i rischi di questa operazione su qualcun altro. I costi e i rischi possono essere l’inflazione futura o un aumento del debito pubblico che dovrà essere ripagato in un futuro più o meno prossimo dai contribuenti, tutti, non soltanto quelli beneficiati dai bonus.
Dal momento che l’azzardo morale è uno dei vizietti più antichi della classe politica italiana e non soltanto italiana, tutta una serie di economisti ritenevano che fosse necessario stroncare questo perverso meccanismo con un’operazione semplice. Occorreva staccare la Banca d’Italia dal Tesoro, rendere la Banca d’Italia un organismo indipendente e quindi il Governatore della Banca d’Italia doveva preoccuparsi della gestione della moneta ma non più del finanziamento del debito pubblico. Non esisteva più alcun obbligo per la Banca d’Italia di acquistare gli eventuali nuovi titoli emessi dal Tesoro e non sottoscritti dai risparmiatori.
Banca d’Italia e Tesoro
Qual era però la conseguenza di questa nuova situazione? Che il debito pubblico a quel punto doveva essere collocato sui mercati finanziari, quindi doveva essere venduto ai risparmiatori o agli istituti finanziari sia italiani che stranieri. Ma se uno Stato vuole che i mercati acquistino il suo debito deve fare due cose: innanzitutto offrire rendimenti, quindi interessi convenienti, in linea con gli interessi di mercato e dovrà anche dimostrare che l’ammontare complessivo del suo debito pubblico è sostenibile, quindi che si è in grado di ripagarlo; ma significa anche che il giudizio sull’affidabilità di quei titoli e di quello Stato sarà nelle mani di entità terze, le società di rating, i grandi operatori finanziari, le banche e via di seguito. Se un Paese ha un debito pubblico elevato, come l’Italia, significa mettere il proprio debito pubblico nelle mani di entità estranee al Paese che possono certamente fare soltanto valutazioni di carattere finanziario – mi conviene o non mi conviene – ma potrebbero anche, in determinati casi e condizioni, fare valutazioni di altra natura, per esempio politica, e decidere di vendere o acquistare titoli di quel Paese semplicemente per fare pressioni sul governo e per ottenere determinati obiettivi.
Detto in termini molto semplici, affidare il proprio debito pubblico ai mercati è come consegnare a qualcuno la password del proprio conto corrente e sperare che sia così onesto e responsabile da non fregarci i soldi!
Diciamo che forse non è stata una delle scelte più furbe. Va detto che quel tipo di situazione in quegli anni si è realizzata un po’ in tutti i paesi dell’Occidente. La nuova ideologia dominante a livello economico era quella neoliberista secondo la quale il mercato era una sorta di divinità positiva e benevola che avrebbe risolto qualunque problema e moltiplicato il benessere e le opportunità per tutti.
Ma le cose non andarono così. Certamente gli anni Ottanta, quelli dell’edonismo reaganiano, quelli della “Milano da bere” con l’ascesa politica di Craxi & C. erano stati anni nei quali la finanza pubblica era stata gestita con una certa rilassatezza, però è indubbio che aver messo il debito pubblico italiano in mano ai mercati non sia stata un’idea particolarmente lungimirante. In soli dieci anni, dal 1982 al 1992, il rapporto tra debito pubblico e PIL è schizzato da poco più del 60% ad oltre il 120%, soprattutto per la crescita abnorme degli interessi.
Qualcuno cominciava a rendersene conto. Il servizio del debito, cioè il costo del nostro debito pubblico, l’ammontare degli interessi che ogni anno bisognava pagare su quel debito, continuava a crescere. Molti nella classe politica italiana pensarono che il modo migliore per risolvere il problema fosse quello di “annacquare” l’enorme debito pubblico italiano nell’Europa e in una nuova valuta molto più forte e strutturata della vecchia “liretta”, che avrebbe ridotto il costo dell’indebitamento, come poi effettivamente avvenne.
Riduzione del servizio del debito
Quella intuizione fu corretta: entrando nell’euro, il servizio del debito si ridusse anche in maniera consistente sebbene poi non ci fu la capacità di sfruttare quel consistente sconto sugli interessi per ridurre in maniera strutturale l’ammontare complessivo del debito.
Ma ci fu anche un’altra ragione, meno esplicita, forse quasi più un retropensiero o comunque una di quelle ragioni inconfessabili: la speranza, agganciandosi al carro europeo, di poter continuare a gestire la “cosa pubblica” con i vecchi metodi clientelari, basati in buona sostanza sull’intermediazione parassitaria di spesa pubblica, unica fonte di legittimazione per una classe politica ormai sostanzialmente deideologizzata e squalificata, priva di qualunque slancio ideale ma sempre tenacemente vorace.
A questo punto occorre fare una piccola riflessione, perché le ragioni della crisi politica, sociale ed economica, persino culturale che stiamo vivendo oggi ha le sue radici in quello che è successo nei decenni precedenti e se non facciamo mente locale su alcune vicende non riusciamo a capire le ragioni dei fenomeni che oggi stiamo vivendo.
Con il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, la gestione del debito pubblico è stata delegata ai mercati finanziari; con l’adesione all’euro la gestione della moneta è stata delegata alla BCE; con il Trattato di Maastricht, la gestione della politiche di bilancio, delle politiche agricole e di quelle industriali sono state delegate alle tecnocrazie di Bruxelles, le politiche fiscali sono state delegate alle grandi multinazionali, che grazie alla libera circolazione di capitali e investimenti possono scegliere dove allocare le proprie sedi, preferendo ovviamente paesi nei quali pagano meno tasse. Di fatto quindi la politica è stata svuotata di senso e di poteri, mentre in un paese democratico la politica dovrebbe rappresentare la volontà dei cittadini che a questo punto finiscono per non contare più nulla, in quanto le loro decisioni non hanno alcuna conseguenza sulle scelte economiche che oramai vengono decise al di fuori dei confini nazionali da astratte entità tecnocratiche o da altrettanto fantomatici mercati e da multinazionali che rispondono a interessi di altro genere. Di fronte a questa situazione non ci si può meravigliare se crescono la disaffezione degli elettori, i sentimenti antisistema, i movimenti populisti, perché non tutti i cittadini hanno l’anello al naso e, quando si sentono presi per il naso, magari s’incazzano pure.
Se la scelta di consegnare le chiavi della nostra economia a terzi, più o meno benintenzionati, scelta fatta da tutta la classe politica, da destra a sinistra, con poche eccezioni, sia stata furba e lungimirante, ognuno potrà giudicare in base alle proprie convinzioni.
Però è indubbio che quando la politica economica si riduce a distribuzione di piccoli bonus o a gestione di incarichi e appalti, l’essenza stessa della democrazia viene meno.
Sullo stesso argomento:
- Ricchezza e povertà – Parte 1 di Pasquale Angius per la rubrica Economicando
- Ricchezza e povertà – Parte 2 di Pasquale Angius per la rubrica Economicando
- Truffe finanziarie: lo schema Ponzi di Pasquale Angius per la rubrica Economicando
- Trump positivo al coronavirus
- Giornalista russa muore dopo essersi data fuoco
- I leader mondiali che hanno contratto il coronavirus
- Mali: dopo 4 anni in ostaggio liberata operatrice umanitaria francese
- Egitto: Scrittore e critico del presidente muore pochi giorni dopo essere stato rilasciato di prigione
- Sfida a suon di suono
- 73 per cento delle profughe africane denuncia aumento violenza domestica durante il Covid
- Thailandia: decine di migliaia di persone in protesta
- Extinction rebellion
- Israele vieta l’ingresso nel paese a cantante palestinese
- Il mondo in piazza
E se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta recandosi sul posto, potete darci una mano cliccando su Sostienici