Il viaggio di Modou
Scritto da Radio Bullets in data Dicembre 15, 2020
La vita, le scelte, gli errori, le nostalgie, i viaggi e i sogni. Ogni persona da qualsiasi parte provenga racchiude in sé un tesoro di possibilità. Caterina Puletti incontra Moudu Lamin, giunto dal Gambia e incontrato in un ostello. Una storia di coraggio, di forza, ma anche di normalità perché tutto quello che spesso si vuole, è solo poter vivere in pace.
Ascolta il podcast
“Prima ero disperato, ma poi ho detto: se morirò va bene, sarò un morto vero, non è un problema”
Sono le 5 di un pomeriggio di ottobre e il sole è già calato. La luce fioca dei lampioni illumina la strada quasi deserta e mi dirigo verso la parte vecchia del paese. Il benzinaio, palestinese, si sbraccia per salutarmi e mentre mi perdo nel ricordo del mio viaggio in Israele, non mi accorgo di essere già arrivata a destinazione. Davanti a me, un portone verde si spalanca e ad accogliermi c’è Modou Lamin. È vestito all’occidentale, sneakers, jeans e giacchetto e mi fa segno di seguirlo attraverso il suo laboratorio di ceramica. Si muove con calma, delicatamente, come per dare importanza a ogni singolo passo e tutto, per un attimo, sembra sospeso. Ci sediamo uno di fronte all’altro, la mascherina gli copre metà del volto ma i suoi occhi, intensi, fissano i miei e comincia a raccontarmi la sua storia.
Modou Lamin, 29 anni, Gambia
Modou Lamin ha 29 anni e viene dal Gambia, paese nell’Africa occidentale circondato dal Senegal a eccezione dello sbocco sull’Oceano Atlantico. Era un affermato professore di arte presso due istituti e sentiva di avere grandi responsabilità nei confronti dei suoi studenti. Fidanzato da 5 anni, stava progettando di sposarsi con la sua ragazza. Era ben pagato, aveva un alloggio sicuro e poteva contare sul sostegno della famiglia.
La dittatura militare di Yahya Jammeh e la corruzione dilagante hanno stravolto la sua vita.
«Mi chiamo Modou Lamin, dal Gambia, sono nato a giugno del 1991. I miei genitori si sono trasferiti a Lamin dove sono cresciuto, nella mia famiglia siamo in 8: io sono il maggiore, ho 7 fratelli e una sorella. Ho studiato, veramente, tutta la mia vita. I miei genitori mi hanno mandato a scuola quando ero piccolo e poi sono andato al college, dove ho studiato per diventare insegnante di arte. Il Gambia è un paese molto bello, la cultura è bellissima. Prima tante persone venivano in Gambia a cercare lavoro, poi è subentrata la dittatura militare, la condizione politica era difficile e molti ragazzi sono fuggiti dal paese».
La fuga
«Io non volevo essere corrotto. Nel 2014 avevo 329 studenti. In Africa ci sono 5 paesi che parlano inglese: Gambia, Nigeria, Liberia, Ghana e Sierra Leone. Questi paesi si sono accordati che se gli studenti vanno nel livello “great nine” (di lingua inglese) devono fare un esame e se uno supera questo esame può andare avanti nella scuola superiore. È un momento molto importante per gli studenti. Il governo fa da sponsor perché questa è una scuola pubblica e ogni studente riceve 200 dalesi (€ 3,30) per fare una prova scritta e una teorica. Noi avevamo un direttore molto corrotto nella scuola, mi diceva “firma questo foglio dove c’è scritto che hai ricevuto tutti questi soldi”, ma non era vero. Questo foglio non era a posto per gli studenti, se l’avessi firmato sarebbe stato un problema per me e non ero d’accordo con lui, quindi non l’ho firmato.
Un giorno la moglie del direttore mi ha chiamato nel suo appartamento per aiutarla a sistemare qualcosa come la tv, noi professori infatti vivevamo tutti insieme nella stessa struttura ed era una comunità molto bella, ma lui e sua moglie mi hanno messo in trappola. Ho sbagliato a entrare, lei ha iniziato a urlare come se le avessi fatto del male. Suo marito ha chiamato la polizia, suo fratello aveva un posto importante nel governo, io non sapevo cosa fare per difendermi e mi hanno messo in galera. Ci sono stato un mese. È stato brutto, ringrazio mio padre perché mi ha aiutato molto, ha pagato tanti soldi. Quando sono uscito hanno richiesto ancora soldi e sono scappato via, sono andato da mio zio che abitava in Libia».
Il viaggio
«Prima sono andato in Senegal e sono rimasto qualche giorno, poi lì non conoscevo nessuno e sono scappato via. Sono andato in Mali, la stessa cosa. Così, piano piano, ho attraversato il deserto, è stato terribile. Il deserto è pericoloso, ho visto tante persone morire sulla strada per incidenti. Sono fortunato perché quando stavamo attraversando il deserto abbiamo avuto un incidente e abbiamo perso una persona. La sua gamba è stata tranciata ed è morto subito, era molto giovane, un gambiano, lo conoscevo. È terribile questa strada, davvero terribile.
Poi sono arrivato in Libia e volevo restare là, c’era lavoro, ma non c’è il governo e non c’è controllo anche se la vita è molto bella. Poi un giorno è morto mio zio: era andato a lavorare e non è più tornato. Suo figlio ha ricevuto questa chiamata e siamo tutti scappati».
Poi cos’hai fatto?
«Ho incontrato una persona che mi ha aiutato. Mi ha detto che aveva un lavoro, faceva l’imbianchino, e che potevo lavorare con lui. Mi ha portato a casa sua e poi mi ha detto “conosco delle persone, se vuoi, posso aiutarti”. Ero d’accordo, un giorno mi ha portato al mare e di notte siamo saliti su un barcone con più di cento persone. Siamo stati dentro al mare per dieci ore. Prima ero disperato poi ho detto “va bene, se morirò, va bene”. Alle cinque di mattina ho guardato di nuovo il mare, era bellissimo, però molto pericoloso. Alla fine abbiamo incontrato una barca grande, erano tedeschi e ci hanno salvato. Siamo andati così quattro giorni, dentro al mare, poi un giorno mi sono svegliato e ho visto la Sicilia, Palermo».
La Sicilia
«Quella notte hanno organizzato un pullman e dopo un giorno di viaggio siamo venuti in Umbria, a Colfiorito dove sono stato otto mesi, poi sei mesi all’ostello di Ponte Felcino, poi ancora a Perugia, in Via Cortonese, un anno e mezzo. Quando sono arrivato qua, ho visto che l’integrazione è una cosa molto importante per uno straniero. Molto importante è stata la Chiesa Valdese, lì ci sono anziani che aiutano i ragazzi immigrati a imparare l’italiano gratis. Ci sono andato due anni perché lo so che per vivere in Italia prima devi conoscere la cultura, la lingua è fondamentale sennò non puoi fare niente qua».
Il potere dell’arte
In Italia hai continuato a dedicarti all’arte?
«L’arte è una cosa che mi piace, mi piaceva già da piccolo, poi l’ho studiata e l’ho insegnata, è una cosa che mi piace in generale. Sono andato in un’azienda a Deruta e ho fatto un tirocinio di sei mesi, ho imparato tante cose, è stato meraviglioso per me. Ho aperto una partita iva, lo so è dura, ma voglio provare per vedere com’è. Sto facendo disegni sulle tazze, ho provato a mettere un po’ di disegno africano, ho mixato così. Se andrà bene continuerò sennò troverò un’altra soluzione».
Adesso che sei qui vedi un futuro?
«Lo spero perché ho il coraggio di andare sempre avanti, non mi voglio fermare perché ognuno di noi ha qualcosa dato da Dio o da chiunque ci abbia creato, naturalmente, e io ho preso la mia strada, gli altri prenderanno la propria. È difficile vivere in Italia però io come immigrato voglio sempre fare le cose giuste. Voglio pagare le tasse, voglio fare tante cose nella mia vita e se cresce questa cosa che sto facendo voglio dare una mano alle persone in difficoltà perché ci sono tante cose, nella mia testa, che girano sempre».
Cosa pensi dell’Italia?
«Prima non avevo mai pensato che sarei venuto qua in Italia, però è bella, gli italiani sono tranquilli. Ho amici più grandi di me perché io come giovane voglio ascoltare una persona che mi spiega le cose bene. In Africa abbiamo regole, ma sono diverse, c’è molto lavoro in nero. Se tu in Italia non hai la residenza, se tu non hai il permesso di soggiorno, tu non sei niente, sei uno zero, tu non puoi fare niente in Italia».
Modou Lamin, finita l’intervista, mi mostra il suo laboratorio di ceramica e le varie decorazioni che sta realizzando, tutte molto precise e dettagliate. Poi, commosso, mi racconta che il giorno prima ha emesso la sua prima fattura e che questo è l’inizio di una nuova vita. Me ne sto andando e mi volto per salutarlo di nuovo, ma lui è là, davanti a me, già chino sul suo lavoro.
L’autrice
Studio relazioni internazionali, me la cavo a pallavolo e sono alle prime armi con la lingua araba. Datemi un quaderno su cui scrivere e una storia da raccontare, non chiedo altro.
Ti potrebbe interessare anche:
- Egitto: oltre i confini la caccia ai dissidenti
- Malala, la ragazza che voleva andare a scuola
- Donne sul fronte
- Giornalisti dietro le sbarre
- Iraq: ucciso un altro attivista delle proteste
- Questione di connotati
- Filippine: uccisa dottoressa in prima linea contro la pandemia
E se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta recandosi sul posto, potete supportarci andando su Sostienici