Ilide Carmignani: cosa vuol dire tradurre?
Scritto da Valentina Barile in data Settembre 4, 2020
Da Patagonia Express di Luis Sepúlveda alla definizione di traduzione letteraria. Saliamo su uno di quei leggendari treni andini insieme a Ilide Carmignani – traduttrice italiana, conosciuta soprattutto per le sue traduzioni di Roberto Bolaño e Luis Sepúlveda – per cominciare un interessante viaggio. Valentina Barile ne parla su Radio Bullets.
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Tradurre vuol dire vivere?
Per tradurre il racconto di un’alba, o di un tramonto, o ancora, per interpretare la narrazione di una scena per poi trasferirla in un’altra lingua, è necessario vivere quell’alba, o quel tramonto, è fondamentale esservi stati? Quanto è importante conoscere le terre, gli umani che vengono descritti in una lingua diversa dalla nostra? E quanto lo è, viaggiare nei luoghi in cui è stata ambientata una trama? E il traduttore deve essere impregnato della cultura che traduce?
Ilide Carmignani ai microfoni di Radio Bullets: “La traduzione è antica quanto la torre di Babele. Eppure non si è ancora riusciti a chiuderla in una definizione netta… è sfuggente, è mutevole, è soggettiva. Funzionano molto meglio le metafore. Una vecchia metafora, per esempio, dice che tradurre è come mettere i piedi nelle orme dell’altro. E non è facile perché, a volte, lo scrittore ha un passo lungo, che la nostra gamba di traduttore fa fatica a coprire, e poi ti manca spesso la terra sotto i piedi. Quella prateria della Patagonia è fatta di erbe che non hanno un nome in italiano. Oppure, quell’estate rovente in cui ti affanni dietro a quella figura che ti volta le spalle, splende durante il nostro inverno. A volte, invece, ti prende uno smarrimento più sottile: perché lo scrittore si è avviato proprio su quel sentiero così impervio, fra tutte le strade che poteva battere nella sua lingua, e anche nella sua letteratura? Insomma, l’inseguimento è molto complicato e non basta studiare il paesaggio, c’è bisogno di ascolto, di empatia, di immedesimazione. Il traduttore ascolta, spesso ossessivamente… questo è un mestiere per ossessivi, la voce di un assente che racconta di altri e di sé. E come accade sempre, racconta di sé anche quando racconta di altri. Mi torna in mente Claudio Magris, che in una intervista ha detto che per tradurre un colore che cala una sera su un’ansa di un fiume, bisognerebbe in qualche modo sapere cosa è stato quel vissuto in quella sera. Ecco, credo che sia a questa intimità estrema, quasi spaventosa, che tendono tutti i traduttori. Pur accontentandosi alla fine di semplici presentimenti, piccole intuizioni, minuscole scoperte. È un’intimità di carta, univoca, ma fortissima. Non a caso Pennac dice che i traduttori sono gli psicanalisti degli scrittori”.
Luis Sepúlveda, ante de todo, fue un hombre chileno. Le storie straordinarie che ha raccolto nella sua vita militante, da giornalista prima, regista e scrittore poi, raccontano di terre, di battaglie e di umani di un continente giovane, forte, che resiste in eterno al colonialismo mai terminato. Luis Sepúlveda racconta al mondo favole, romanzi, aneddoti, dando il suono alle voci anonime della sua terra. La sua scrittura semplice, che arriva da sempre al cuore dei lettori di tutte le età, è la cronaca di ciò che accade sotto gli occhi noncuranti di chi vive in profondità confortanti, riuscendo a costruire una barriera architettonica sulla propria epidermide.
Quel treno andino che percorre seicento chilometri di puna desertica, attraversando la solitudine della terra lunare di Atacama, quel treno leggendario che trasporta un solo passeggero – “un notaio ambulante incaricato di registrare nascite e decessi, e di concedere la cittadinanza cilena agli aymara che la desiderano” (da Patagonia Express, Guanda) – è come se Ilide Carmignani lo avesse preso.
“Qualche volta l’intimità di carta, che lega il traduttore allo scrittore, è scossa da un incontro reale. Io ricordo ancora molto vividamente il primo incontro con Luis Sepúlveda. L’emozione – e anche la paura – perché il traduttore, di solito, viene accolto con grande diffidenza, gli si chiede la quadratura del cerchio, coniugare fedeltà e bellezza. Quindi, resta il timore di essere stati troppo fedeli dove lo scrittore avrebbe preferito bellezza, oppure di essere stati troppo belli dove lo scrittore voleva fedeltà. Lucho (così lo chiamavano gli amici) mi fece invitare a Milano ventisei anni fa per la presentazione de Il mondo alla fine del mondo – il suo secondo libro, io avevo già tradotto il primo – ed era una cosa veramente insolita, quindi il viaggio da Lucca a Milano fu pieno di ansia. Mi chiesi che cosa voleva da me, forse voleva vedere se i suoi libri erano in buone mani. Entrando in albergo avrei voluto trovare l’editore o l’ufficio stampa per appoggiarmi, e invece fu Sepúlveda in persona che uscì dall’ascensore e mi guardò… mi guardò perché io lo avevo guardato, lo avevo riconosciuto da una foto piccolina, sgranata, che avevo visto su Linea d’ombra. Allora, mi toccò presentarmi, e lui – che quando era serio aveva una faccia molto seria, si vedeva, traspariva tutte le difficoltà della vita che aveva vissuto – improvvisamente sorrise e mi abbracciò come se mi conoscesse da sempre. E poi mi disse: “Grazie per aver portato le mie parole ai lettori italiani, sei la mia compañera de camino, che vuol dire compagna di viaggio. E così è stato per molti anni”.
Scrittore e traduttore: cosa li unisce?
Dietro alle pagine ci sono le vite di chi scrive. I drammi, le battaglie del proprio cammino, quelle per cui si lotta: un involucro che include le vite degli altri e le loro resistenze, conflitti interiori, guerre perse. Uno scrittore, chi diventa realmente mezzo per raccontare la realtà, chi mette a disposizione la sua mano per dare voce a chi altrimenti non l’avrebbe, ha dentro di sé il suo mondo e il mondo in cui vive. Il traduttore è la possibilità che ha lo scrittore di esprimersi in altre lingue e, quindi, oltrepassare l’orizzonte in altre parole. Far conoscere le storie di mondi lontani, farle arrivare a casa di qualcuno che abita a dodicimila chilometri di distanza, ad esempio… “Credo che per un traduttore letterario sia molto importante conoscere il contesto di ciò che traduce. Per esempio, i libri che hanno fatto nascere il libro che stai traducendo, la storia, la geografia, la religione, la fauna, la flora, il cinema, la musica, la cucina, l’arte, il teatro. Tutto, insomma. Perché la lingua è parte di un tutto. È da quel tutto che trae il suo significato. Questo, ovviamente, accade anche in italiano, e poi, secondo me, bisogna anche aver vissuto. Dice un grande studioso di traduzione, che si chiama Douglas Hofstadter, dice qualcosa del tipo: “Credo che una buona traduzione presupponga di aver compreso il testo, e che questo a sua volta presupponga di aver vissuto nel mondo reale, tangibile, senza mai ridurre tutto alla semplice manipolazione delle parole”.
Ilide Carmignani continua sulla sua esperienza di traduzione: “Mi sarebbe piaciuto molto viaggiare con Sepúlveda su uno dei suoi treni andini, e anche in Patagonia, e anche nella Terra del Fuoco, come ha fatto Daniel Mordzinski, grande fotografo e grande amico suo, compagno di mille avventure nel cono Sud, come lo chiamava Lucho. Ma, in realtà, ho visitato le Ande, il NOA – Nord Ovest dell’Argentina – e anche il deserto di Atacama, sul versante cileno, da sola. E poi Santiago, Isla Negra, e anche altri luoghi sepulvediani, come Gijón, nelle Asturie, dove abitava da molti anni. E dove sono stata più volte a trovarlo. Non sempre però ho tradotto cose che conoscevo già, a volte tradurre è un atto di immaginazione, come lo è leggere. E dopo è sempre molto emozionante conoscere concretamente ciò che hai tradotto. Far combaciare carta e carne, le parole e le cose. Ma tradurre è un bacio, come dice la bella poesia di Nicola Gardini. E poi io ho sempre avuto dalla mia, la forza delle parole di Luis Sepúlveda. La sua straordinaria capacità di comunicare. E questo è un vantaggio impareggiabile per un traduttore”.
Ilide Carmignani non è solo la voce italiana di Luis Sepúlveda, seppure abbiano collaborato per lunghi anni. Le anime di Roberto Bolaño, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Carlos Fuentes, Federico García Lorca, Gabriel García Márquez, Javier Marías, Luis Cernuda, Pedro Lemebel, Rosa Montero, e di tanti altri scrittori, poeti ispanici e ispanoamericani, si sono frammentate nel respiro di Ilide. Camminano nel suo stesso passo. Arrivano con impetuosità per farsi raccontare.
“Leggere è vivere altre vite quando la nostra non ci basta più. Che noia – diceva Cortázar – essere sempre se stessi. Se un libro entra a far parte di un lettore, puoi immaginare quanto penetra a fondo in un traduttore, che in quel libro non vive qualche giorno, ma mesi, a volte anni. Tradurre cambia, non solo il colore delle tue giornate, ma addirittura il respiro. Ricordo che quando traducevo la parte dei delitti, uno dei romanzi che formano 2666 di Roberto Bolaño, dove sono inserite le relazioni medico-legali di cinquantadue femminicidi, dovevo ogni tanto andare alla finestra e spalancarla per poter ricominciare a respirare; altre volte, invece, mi è capitato di ridere da sola, di commuovermi, di arrabbiarmi. Sono rimasta chiusa tanti anni, dalla mattina alla sera, nel mio studiolo sulle colline… qua, fra Lucca e il mare, ma non ci sono stati due giorni uguali. Se ti piace leggere, e ti piace scrivere, non c’è mestiere migliore”.
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