Quattro ore

Scritto da in data Novembre 12, 2022

Mi alzavo ogni cinque minuti a controllare il respiro di mio figlio. Una brutta tosse ieri sera lo ha fatto vomitare tutto quello che si era mangiato. E io ero terrorizzata. Che ne so: è normale? Paolo era uscito a cena, ero da sola. Volevo mettermi accanto a lui, che ha poco più di un anno e mezzo, a leggere e poi dormire, ma sono rimasta inchiodata davanti a Propaganda su La7. Quindi la spola per controllarne il sonno, per fortuna placido. Difficilmente mi metto davanti alla tv, a parte gli all news mentre lavoro. Ma Diego Bianchi iniziava il racconto di quello che è successo in questi giorni a Catania. Ed è stato inevitabile. Quando Paolo è tornato, è rimasto inchiodato insieme a me davanti allo schermo.

Quel racconto, lungo, spietato, di quanto è accaduto sulla nave umanitaria di Medici senza Frontiere, la Geo Barents, non può lasciare indifferenti. Le storie delle persone salvate. Delle loro ragioni. Delle loro speranze. Della vita che hanno rischiato, in mare, in Libia, nel viaggio dai loro paesi. Non può lasciare indifferente. Così pensavo, almeno. Passavano davanti ai miei occhi i ricordi di quei quindici giorni a bordo dell’Aquarius, all’epoca di Sos Mediterranèe e Medici senza frontiere, nel 2018. Ero lì per il Fatto Quotidiano e non dimenticherò mai le gambe che cedevano a quell’uomo, salito finalmente a bordo della nave dopo essere stato recuperato dall’incerto barchino su cui viaggiava con altre decine di persone. Ha messo il primo piede sul pavimento dell’Aquarius, ed è semplicemente caduto a terra. Ho visto la tensione immensa defluire dal suo corpo e scioglierlo.

Guardavo il reportage di Zoro. C’è la scelta di far vedere anche bambini e bambine: a me non piace mai. E però, quanto è necessario? Dal canto mio continuavo a dire ad alta voce: «Quattro ore». (Non so perché proprio quattro. Ma quattro evidentemente mi appare un tempo congruo). «Quattro ore non solo in questa condizione, ma proprio nei loro panni. Col loro vissuto. Quattro ore nella loro pelle». Senza conseguenze, eh. Ma quattro ore per chiunque voglia dire anche una sola parola su queste persone. E su quello che tutto questo sta rappresentando a livello politico e sociale. Alla fine di quel lungo racconto, noi altri al caldo su un divano eravamo in lacrime.

Una foto di uno dei due soccorsi che l’Aquarius aveva fatto il 10 agosto 2018, a cui avevo assistito, era stata utilizzata dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini qualche tempo dopo per ribadire che “la pacchia” era finita. Si vedeva chiaramente quell’uomo originario del Bangladesh che avevo incrociato a bordo. Mostrava il segno della pallottola che aveva ancora incastonata nella sua spalla, un’importante cicatrice. Era successo in Libia. Raccontava anche che dopo essere stato colpito ha perso molto sangue. Ha visto un medico ore dopo, che poco aveva poi fatto. Qualcuno aveva urinato sulla sua ferita. Aveva un sorriso molto dolce.

Stamane sono capitata su un post di Gad Lerner che lodava il lavoro giornalistico di Diego Bianchi e Propaganda, li ringraziava (ci uniamo anche noi nel nostro piccolo) e auspicava che venisse visto anche da chi deve a livello politico gestire tutto questo. Poi, masochista, mi sono letta i commenti. Parole (non molte, ma c’erano eccome) che mai penserei potrebbero essere pronunciate di fronte a quelle immagini. Eppure sì. E sono le solite: il rovesciamento dei sentimenti. Le persone a bordo colpevoli di avere un cellulare. Quindi di essere borghesi. Quindi (sic!) di poter cercare lavoro via internet se proprio insistono. Di essere piastrellisti, in Libia hanno lavorato e saranno stati benissimo. E poi, qua e là nell’etere, parole feroci contro quella madre che ha messo in mare quel neonato di venti giorni, originario della Costa d’Avorio, morto di ipotermia su un barchino.

Sull’Aquarius ricordo una mamma col suo bimbo di quattro anni. Venivano dal Marocco, voleva raggiungere la Francia e parte della famiglia già lì. Per curare quel bimbo che aveva un problema alle gambe, dopo che era stato sottoposto già a tante operazioni, non risolutive, “a casa sua”. Nel racconto di Diego c’è una famiglia con un bimbo col labbro leporino. Nato in Libia, lì i genitori non hanno trovato soluzioni. E si sono imbarcati, raccontano. Potrei sbagliarmi, ma doveva avere venti mesi. Era grande la metà di mio figlio, bianco, bello, pasciuto e sempre al caldo.

Le persone che arrivano in Italia, salvate da navi umanitarie nel Mediterraneo centrale, sono il 10% del totale. Il resto arriva salvato da imbarcazioni militari o commerciali (l’obbligo, quando non ignorato, vale per qualsiasi tipo di nave) o su “mezzi propri”, quando quei natanti fatiscenti reggono la traversata fino all’Europa. Oppure naufragano, e muoiono, e sono pochi gli occhi in mare a poterlo testimoniare. Ma parliamo solo di questo, e viene l’educato e rispettoso dubbio della distrazione di massa (piace a tutti gli schieramenti, naturalmente), quando tra l’altro la questione è ben più complessa e no, difficile che questa sia la strada per risolverla.

La verità è che non ci interessa. Ci racconteremo che sono ricchi, invasori, palestrati (uso il maschile sovraesteso volutamente), che la nostra società è in pericolo, che stiamo peggio noi e non veniamo aiutati. Che potevano evitarlo, che «ma come, ormai non lo sanno che è pericoloso?». Che se la sono, insomma, un po’ cercata, e quanto mi ricorda qualcosa tutto questo. Dopo aver visto il racconto dalla Geo Barents, Francesca Schianchi de La Stampa ha messo in fila parole che − ingenuamente − credevo che sarebbero state innate senza eccezione: guardateli, ascoltateli, e poi davvero pensate a quanto stride il definire quelle persone rimaste a bordo “carico residuale”, o pensare che fosse “bizzarro” da parte del personale sanitario farli scendere alla fine tutti. Dopo il viaggio che hanno fatto e quei giorni di limbo in mare. Senza sapere se e quando sarebbero sbarcati.

Ho sentito anche in questi giorni un giornalista di Libero dire che, siccome le convenzioni Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) sanciscono che le persone salvate in mare devono essere portate in un POS, “place” of safety, “posto” e non necessariamente “porto”, be’ allora è “POS” anche la nave dove si trovano. Possono restare lì.

Non aveva ancora visto le immagini della Geo Barents su Propaganda. Altrimenti, ne sono certa, non lo avrebbe mai neanche pensato.

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