Inflazione e speculazione

Scritto da in data Novembre 14, 2023

Un altro fenomeno che alimenta l’inflazione, depotenziando le politiche delle Banche centrali, è la speculazione, vediamo come funziona.

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Una nuova guerra in Medio Oriente

Nel podcast precedente abbiamo cercato di capire le ragioni per cui le Banche Centrali fanno fatica a combattere l’inflazione nonostante la stretta monetaria e i ripetuti aumenti dei tassi d’interesse che stanno mandando in recessione l’intera economia mondiale. Ci siamo occupati del conflitto tra Ucraina e Russia che continua a creare incertezza e a mantenere elevati i prezzi di molte materie prime minerarie ed agricole, come anche dei prodotti energetici. Dallo scorso 7 di ottobre è iniziata, con l’attacco di Hamas ad Israele, una nuova guerra in Medio Oriente. Tralasciando l’ennesimo carico di tragedie umane che questa nuova puntata dello storico conflitto israelo-palestinese sta scaricando su entrambi i popoli, limitiamoci alle conseguenze economiche. Israele e Gaza sono piccoli Paesi con un ruolo limitato nell’economia internazionale. Israele è certamente un Paese ricco con livelli di reddito pro capite simili a quelli dell’Europa Occidentale, ma è comunque un Paese di poco meno di 10 milioni di abitanti che esporta un po’ di prodotti agroalimentari, macchinari, software e prodotti tecnologici. Gaza sopravvive grazie agli aiuti internazionali e produce ed esporta soltanto rabbia e disperazione. Il problema è che l’area mediorientale è cruciale, soprattutto per le economie europee, per quel che riguarda le forniture energetiche e quindi potrebbero esserci rischi, qualora il conflitto si allargasse ad altri Paesi dell’area. Inoltre la guerra in Ucraina ha spinto, negli ultimi due anni, i Paesi dell’Unione Europea, Italia in testa, a ridurre le importazioni di gas e petrolio dalla Russia e ad aumentarle da Paesi arabi come Algeria, Qatar, Arabia Saudita. Nel 1973, quando scoppiò quella che è passata alla storia come “guerra dello Yom Kippur”, quando gli eserciti arabi attaccarono Israele durante la festività del Capodanno ebraico, lo Yom Kippur, i Paesi arabi, per mettere in difficoltà l’Occidente che sosteneva Israele, diedero vita ai cosiddetti shock petroliferi. In pochi mesi i prezzi del petrolio, il gas all’epoca era meno utilizzato di oggi, schizzarono alle stelle mettendo in crisi le economie occidentali e scatenando la spirale inflazionistica.
Il contesto odierno è molto diverso da quello degli anni Settanta però l’instabilità nella regione mediorientale ha già provocato rialzi, per ora non drammatici, delle commodities energetiche: gas e petrolio. Ma l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici determina, come sappiamo, un effetto a catena facendo aumentare i prezzi dei carburanti, dei trasporti, dei costi di produzione ed alimentando ulteriormente l’inflazione.

La diversificazione delle fonti energetiche

Non vogliamo rigirare il coltello nella piaga però la strategia dell’Unione Europea di rinunciare, con le sanzioni, a buona parte delle forniture energetiche russe, diversificando gli approvvigionamenti, non si è rivelata sinora una strategia molto efficace. Innanzitutto una parte di questa diversificazione è fasulla. Prendiamo il caso dell’Azerbaijan, Paese dell’Asia Centrale, che apparteneva all’ex Unione Sovietica, e che già prima della guerra ci forniva gas e petrolio. I nostri governi hanno annunciato con squilli di trombe e fanfare che si riducevano le importazioni dalla Russia e si aumentavano quelle dall’Azerbaijan. Tutto vero, in apparenza. Quel che è successo, molto semplicemente, è che l’Azerbaijan ha aumentato le sue importazioni di gas dalla Russia ed accresciuto le sue esportazioni verso i Paesi occidentali, Italia in testa. Quindi, cercando di diradare un po’ il giro del fumo, cosa è successo? Noi abbiamo ridotto le importazioni di gas russo ad un prezzo competitivo per aumentare le importazioni di gas dall’Azerbaijan ad un prezzo più elevato. A sua volta l’Azerbaijan ha semplicemente aumentato le sue importazioni di gas dalla Russia ad un prezzo competitivo per rivenderlo a prezzo maggiorato a noi. Morale della favola: la Russia non ha perso nulla, prima il gas ce lo vendeva direttamente adesso lo rivende all’Azerbaijan che, senza alcuno sforzo, lucra un discreto guadagno sull’intermediazione e noi paghiamo il gas ad un prezzo più alto di prima. In pratica gli unici che ci smenano per usare un termine gergale, siamo noi!
Ma un ulteriore problema della cosiddetta diversificazione degli approvvigionamenti è che, sganciarsi da Putin e dalla sua cricca di oligarchi per legarsi alle petro-monarchie del Golfo Persico o a regimi discutibili come quello algerino o altamente instabili come quello libico, forse non è stata una scelta lungimirante.
Certamente la ancora elevata dipendenza delle nostre economie dai combustibili fossili non è un problema di facile soluzione, ma passare dalla padella di Putin alla brace degli sceicchi sicuramente non è stata una brillante idea.

La finanziarizzazione dell’economia

Un altro fenomeno contribuisce in maniera sostanziale a vanificare gli sforzi delle Banche Centrali per rimettere sotto controllo l’inflazione e questo fenomeno si chiama speculazione finanziaria. Per capire questa questione dobbiamo fare un passettino indietro di qualche decennio e tornare agli anni Ottanta del secolo scorso. In quel periodo inizia, per tutta una serie di ragioni che non indagheremo in questa sede, un processo sempre più massiccio di “finanziarizzazione” delle nostre economie. La finanza, secondo molti economisti, per usare una metafora facilmente comprensibile, è in un certo senso l’olio nel motore dell’economia, quel lubrificante che consente a tutti gli ingranaggi di un sistema economico di funzionare al meglio. Ma quel che succede a partire dagli anni Ottanta è che la finanza cresce a dismisura e si rende in un certo senso autonoma dal sistema economico reale. Questo fenomeno si amplifica enormemente con la globalizzazione, con le liberalizzazioni e con il venire meno di tutta una serie di controlli e restrizioni che esistevano nei mercati finanziari, nel sistema bancario, nei movimenti di capitali. Per semplificare, a fianco del sistema economico reale, quello costituito dalle produzioni e dagli scambi di beni agricoli, industriali o di servizi, si crea un mondo parallelo fatto di prodotti finanziari che esistono solo sulla carta o nella memoria di un computer e che vengono scambiati a velocità sempre maggiore. Molti di questi prodotti vengono chiamati “derivati”, perché originariamente erano prodotti finanziari che avevano un riferimento, un aggancio con prodotti reali, quindi in un certo senso derivavano da quei prodotti, ma col tempo diventano fenomeni a sé stanti, eterei, per dirla sempre con una metafora, come anime che si separano dai corpi e vagano in un altro mondo nel quale vigono regole particolari.
Lo avevamo già visto un annetto fa con le oscillazioni abnormi del prezzo del gas, una volatilità non giustificata dagli andamenti reali della domanda e dell’offerta del prodotto gas. Si trattava in buona parte di movimenti finanziari, movimenti speculativi che però causavano rialzi enormi dei prezzi che ricadevano sui consumatori mentre produttori e speculatori si riempivano le tasche di extra profitti.
Durante la crisi petrolifera del 1973, quella che ricordavamo precedentemente, i prezzi del barile di petrolio aumentarono al massimo del 40%, nella crisi petrolifera del 1979, quella seguita alla rivoluzione khomeinista in Iran, i prezzi del barile raddoppiarono. Tra l’altro la diminuzione di offerta reale di petrolio in quelle due crisi energetiche era stata ben più sostanziosa della diminuzione di offerta di prodotti energetici, petrolio e gas, avvenuta nel 2022. Lo scorso anno però abbiamo visto i prezzi del gas moltiplicarsi per 17 volte, numeri che non sono giustificati minimamente dagli andamenti della domanda e dell’offerta reale di gas. Quindi la spiegazione di questi drammatici aumenti sta da un’altra parte e si trova nel fatto che i prodotti energetici, come molti altri beni reali, sono diventati, in questi ultimi decenni, anche dei prodotti finanziari, quindi soggetti a movimenti speculativi che avvantaggiano pochi e danneggiano la maggior parte della popolazione.

Il “just in time” e la riorganizzazione delle filiere produttive

Un primo fenomeno, questo di natura reale, che ha dato spazio agli speculatori è il modo in cui con la globalizzazione sono state riorganizzate le catene produttive a livello planetario. A partire dagli anni Ottanta del Novecento le catene di produzione delle merci sono state riorganizzate secondo il modello del cosiddetto “just in time”. Semplificando, anche a costo di qualche imprecisione, le aziende hanno cominciato a ridurre al minimo o addirittura ad abolire le scorte e i magazzini.
Facciamo l’esempio di una fabbrica di automobili, prima doveva avere sia magazzini con materie prime e/o con quei componenti che non produceva internamente, per esempio vetri o pneumatici, ma doveva avere anche magazzini di prodotti finiti, pronti per essere inviati ai rivenditori. Scorte e magazzini però per un’azienda sono costi, anche rilevanti. Il principio del “just in time” riorganizza invece la produzione, con l’obiettivo di ridurre sprechi e costi, in funzione degli ordinativi che arrivano dai clienti. Facciamo l’esempio di un cliente tedesco che va dal concessionario della Volkswagen a comprare un’auto: sceglie il modello, il colore, gli accessori che desidera e, a quel punto, si attivano i vari fornitori, lungo quelle che sono state chiamate le catene globali del valore. Da Taiwan un fornitore spedisce gli pneumatici, dalla Polonia un altro fornitore spedisce il parabrezza e gli altri vetri, dalla Malesia un altro spedisce gli specchietti, i freni arrivano dall’Italia, il computer di bordo arriva dalla Corea del Sud e via di questo passo. Intanto in una fabbrica in Germania, il reparto verniciatura provvede al colore della carrozzeria secondo la scelta del cliente; infine, in un’altra fabbrica della stessa azienda, magari collocata in Slovacchia, si assemblano tutte le parti provenienti da decine se non centinaia di fornitori diversi in ogni parte del mondo. Ovviamente tutto ciò è possibile grazie alle innovazioni tecnologiche basate sull’informatica che sono state introdotte a partire dagli anni Ottanta. Tutta una serie di operazioni che fino ad allora dovevano essere fatte manualmente, impiegando molto tempo e molto personale, oggi possono essere fatte in tempi rapidissimi da un software. Questo sistema complesso consente al produttore tedesco di automobili di ridurre al minimo le scorte di materie prime e componentistica, come anche di ridurre al minimo la quantità di auto pronte da vendere. Si riducono, quindi, i costi di produzione, perché non c’è più necessità di tenere immobilizzati prodotti finiti, semilavorati e materie prime che per un’azienda sono un costo, ma si riesce anche a ridurre i costi andando a cercare in ogni angolo del pianeta il miglior produttore specializzato nel singolo componente al minor prezzo possibile. L’obiettivo e il risultato di questo nuovo modello di organizzazione produttiva è, ovviamente, un aumento dei profitti.
Il sistema funziona bene finché non ci sono crisi, ma nel 2020 arriva il Covid che disarticola le catene di fornitura globali e alcuni Paesi, per esempio la Cina, temendo di ritrovarsi con carenze di fornitura, fanno incetta sui mercati di materie prime e di semilavorati con il risultato di scatenare, già dal 2021, le prime fiammate inflazionistiche.
Chi si ritrova in difficoltà sono le industrie europee e americane che non hanno scorte e, quindi, si ritrovano improvvisamente a dover fermare la produzione e a ritardare le consegne ai clienti. Chi ha provato negli ultimi due anni a comprare un’auto nuova spesso si è trovato di fronte a problemi di questo genere.
Inutile dire che il conflitto tra Russia e Ucraina ha ulteriormente aggravato questa situazione. Quindi per tirare le fila del nostro discorso, l’aver organizzato la produzione lungo catene produttive che si estendono globalmente ha lasciato spazio nei momenti di crisi, come quelli che stiamo vivendo a partire dal 2020, a speculazioni dovute alla carenza di scorte. Chi si accaparra materie prime, semilavorati e componenti in un momento di crisi riduce l’offerta di quei beni e quindi ne fa crescere il prezzo. Dopo che i prezzi sono aumentati potrà rivendere intascandosi un lauto guadagno. Speculazione in purezza!

Speculazione finanziaria

Il secondo fenomeno molto più grave, che alimenta l’inflazione è la speculazione finanziaria. Torniamo ai cosiddetti “derivati” di cui parlavamo precedentemente. Inizialmente questi prodotti finanziari erano stati creati con finalità, potremmo dire, di tipo assicurativo. Ciascuno di noi paga l’assicurazione sulla propria auto, che è obbligatoria e che tutela sia noi che terzi in caso di incidente. I derivati rispondevano alla stessa logica, erano in pratica una forma di assicurazione che serviva a tutelare i produttori di un determinato bene, per esempio agricolo o energetico, dalle oscillazioni di prezzo. Il caso più semplice da capire è quello di un agricoltore che produce grano, lo semina in autunno e lo raccoglie l’estate successiva. Dal momento che i prodotti agricoli vengono scambiati nelle borse merci, il loro prezzo può oscillare in base alla domanda e all’offerta, fatto questo che crea una forte incertezza sul prezzo futuro di quel prodotto. Il produttore di grano per tutelarsi da queste oscillazioni può stabilire, al momento della semina, in autunno, che se il prezzo al momento del raccolto e quindi della vendita, in estate, andrà al di sotto di una certa cifra, l’assicurazione gli riconoscerà la differenza. In questo modo lui ha certezza sui suoi incassi e riduce il rischio d’impresa. Ovviamente questa forma di assicurazione che si chiama “future” è un cosiddetto “derivato”, cioè un prodotto finanziario che deriva da un prodotto reale che è il grano. Questi derivati per diverso tempo potevano essere sottoscritti soltanto dai produttori, ma poi divennero dei prodotti finanziari di tipo speculativo, cioè venivano scambiati anche da terzi che non avevano alcun legame con la produzione di quel determinato bene. La diffusione e l’abuso di questo genere di prodotti fu una delle cause della crisi economica del 1929. Negli anni Trenta molti di questi prodotti furono proibiti o comunque furono poste forti limitazioni al loro utilizzo. A partire dagli anni Ottanta e Novanta queste limitazioni furono eliminate e il mercato dei derivati fu liberalizzato. Da allora i derivati sono diventati sempre più prodotti finanziari scambiati con finalità speculative senza alcun rapporto con i prodotti reali. Di fatto sono diventate delle scommesse sull’andamento dei prezzi di materie prime, beni agricoli, prodotti energetici, valute e qualunque altra cosa. Il problema è che, togliendo ogni vincolo e ogni controllo, il risultato è che questo mercato virtuale di titoli di carta è cresciuto a dismisura tanto che ormai per molti prodotti la percentuale di contratti reali sul totale degli scambi riguardanti quel prodotto è soltanto del 2%.
Per capire come funziona in pratica questo meccanismo infernale della speculazione dobbiamo addentrarci un po’ di più nel magico mondo dei derivati e dei prodotti finanziari, cosa che faremo nella prossima puntata.

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