Israele dichiara proprie 63 aree archeologiche palestinesi

Scritto da in data Agosto 21, 2025

L’esercito israeliano ha dichiarato 63 siti archeologici palestinesi in Cisgiordania come “siti del patrimonio israeliano”, secondo quanto riportato mercoledì dall’Applied Research Institute-Jerusalem (ARIJ), un centro di ricerca indipendente palestinese.

Una decisione che, sottolinea l’istituto, viola apertamente il diritto internazionale e costituisce una minaccia diretta all’identità nazionale palestinese.

Le aree confiscate

Il rapporto di ARIJ, intitolato Siti archeologici nel governatorato di Nablus: un’arena aperta per i piani di confisca israeliani”, ha analizzato una serie di ordini militari firmati dal generale Moti Almoz, a capo dell’Amministrazione Civile israeliana.

Secondo il documento, 59 dei siti si trovano nel governatorato di Nablus, tre in quello di Ramallah e uno a Salfit.

L’obiettivo: riscrivere la memoria collettiva

ARIJ spiega che non si tratta di mere formalità burocratiche. La classificazione rientra in una strategia più ampia volta a ridefinire l’eredità culturale palestinese secondo il racconto israeliano.

La maggior parte dei siti “confiscati” si trova infatti vicino ad avamposti, colonie o altri insediamenti israeliani, in particolare nella zona di Nablus, uno degli epicentri dell’espansione coloniale.

Una violazione del diritto internazionale

Il rapporto denuncia che questa politica di appropriazione contravviene agli obblighi internazionali di Israele e mina il patrimonio culturale di un intero popolo.

Il problema, osserva ARIJ, è ben più ampio: oltre 2.400 siti archeologici palestinesi in Cisgiordania sono già stati classificati come “israeliani”.

La retorica della “conservazione”

Secondo l’istituto, Israele giustifica queste misure con la necessità di proteggere e preservare il patrimonio. Ma la realtà è diversa: le aree sequestrate vengono progressivamente integrate negli insediamenti israeliani, usate per scopi militari o trasformate in siti turistici e ricreativi riservati ai coloni e ai visitatori israeliani.

La retorica della tutela diventa così uno strumento per consolidare il controllo territoriale.

Il rapporto si inserisce in un contesto di occupazione sempre più radicata: 770.000 coloni israeliani vivono oggi in Cisgiordania, distribuiti in 180 insediamenti e 256 avamposti, molti dei quali agricoli o pastorali.

Dal 7 ottobre 2023, almeno 1.014 palestinesi sono stati uccisi e oltre 7.000 feriti dalle forze israeliane e dai coloni armati in Cisgiordania, secondo il ministero della Salute palestinese.

Il giudizio della Corte Internazionale di Giustizia

Nel luglio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia ha stabilito che l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi è illegale e ha chiesto l’evacuazione di tutti gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

La decisione della Corte conferma che l’appropriazione del patrimonio culturale palestinese non è un’azione isolata, ma parte di una più ampia e sistematica politica di annessione de facto.

La dichiarazione dei siti archeologici palestinesi come “patrimonio israeliano” è più di un atto simbolico: rappresenta un tentativo di riscrivere la storia.

In un conflitto che non è solo territoriale ma anche identitario, controllare i luoghi della memoria significa imporre una narrazione e cancellarne un’altra.

L’uso della cultura come strumento di dominio non è nuovo: in molte occupazioni, dal colonialismo europeo all’espansione russa in Asia centrale, il patrimonio è stato piegato a legittimare il potere dell’occupante.

In Cisgiordania, questa dinamica si lega alla strategia degli insediamenti: non solo terra, ma anche storia e identità vengono assorbite in un disegno coloniale, mentre ai palestinesi resta l’erosione quotidiana della propria memoria collettiva.

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