La crisi della globalizzazione

Scritto da in data Luglio 25, 2023

Crisi economiche, dispute commerciali, pandemie e conflitti armati hanno messo in crisi la globalizzazione, forse in maniera irreversibile.

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Nelle puntate precedenti ci siamo occupati della nascita e dello sviluppo della globalizzazione, in questa ci occuperemo della sua crisi.

Il fallimento della Lehman Brothers

Il 15 settembre del 2008 dai telegiornali di tutto il mondo viene data la notizia del fallimento della Lehman Brothers, una delle più grandi banche statunitensi. Quel fallimento innesca una crisi gravissima che, in pochi mesi, si espande all’intero sistema finanziario mondiale per poi colpire anche i settori produttivi. Sembra l’Armageddon del capitalismo, la smentita più clamorosa delle semplicistiche ricette neoliberiste. Quella crisi fu interpretata e affrontata in maniera diversa nei diversi paesi.
Cominciamo dagli Stati Uniti, l’epicentro di quel cataclisma. Gli americani hanno molti difetti ma anche alcune fondamentali virtù e tra queste ultime c’è il pragmatismo. In poche settimane il vecchio slogan reaganiano secondo il quale: “Lo Stato non è la soluzione ai problemi, lo Stato è il problema”, fu accantonato e lo Stato inefficiente, scialacquatore e predatore fu riesumato e, più veloce di Lazzaro, venne chiamato a porre rimedio al gran casino che avevano combinato: banchieri, economisti di grido ed autorità monetarie. I contribuenti americani dovettero metter mano al loro portafoglio per coprire le voragini apertesi nel sistema bancario e finanziario. Molti liberisti “all’amatriciana” scoprirono che lo Stato a qualcosa, in fin dei conti serve, quantomeno a parare le terga e a salvaguardare i patrimoni dei banchieri che stavano per far saltare per aria l’intero sistema economico mondiale.
Ma il combinato disposto delle delocalizzazioni produttive avvenute negli anni precedenti e la crisi economica innescata dal fallimento della Lehman Brothers, causò la perdita di milioni di posti di lavoro, un aumento drammatico della povertà con centinaia di migliaia di famiglie che persero la casa e l’accentuarsi delle disuguaglianze .In pochi anni la quantità di cittadini americani che vivevano di sussidi pubblici, di carità privata o di espedienti, costretti a dormire in macchina o nelle roulotte perché avevano perso tutto, crebbe in maniera esponenziale. La rabbia, il malcontento, il disagio sociale che in un paese come gli Stati Uniti non trova sfogo politico in movimenti o partiti che mettono in discussione il sistema capitalistico, venne però colto da un miliardario newyorchese, Donald Trump che dopo aver fatto molti soldi con le sue attività immobiliari ed essere diventato un personaggio famoso come interprete di alcune trasmissioni televisive di successo, decise di darsi alla politica candidandosi alla Presidenza degli Stati Uniti. Trump riuscì a interpretare il malcontento di quella classe operaia e di quei ceti medi che avevano pagato sulla loro pelle prima la globalizzazione e poi la crisi economica. Ovviamente un ricco imprenditore newyorchese non aveva nulla da spartire né con la working class, la classe lavoratrice, né con i cosiddetti “rednecks”, un’espressione un po’ dispregiativa, che potrebbe essere tradotta con il termine ”bifolchi”, che indica i bianchi poveri, piuttosto ignoranti e pieni di pregiudizi che vivono soprattutto negli stati del Sud. Trump con un mix di slogan populisti e indubbie doti oratorie riuscì a conquistare quel malcontento a differenza della sua sfidante, la troppo sofisticata signora Hillary Clinton, tipica rappresentante di quella che in Italia chiamiamo sinistra “radical chic” o “ZTL” e che in Francia chiamerebbero, con un’espressione ancora più efficace, “gauche caviar” la sinistra al caviale, con il portafoglio ben ancorato a destra ma con il cuore a sinistra che però non riesce più a comprendere e interpretare le esigenze dei ceti popolari perché i ceti popolari non li frequenta e non li conosce. Trump vinse le elezioni e divenne presidente degli Stati Uniti.

La presidenza di Donald Trump

Trump in politica economica non fece altro che riprendere alcune strategie che già erano state delineate dal suo predecessore Barack Obama, il quale purtroppo dovette impiegare i suoi due mandati per metter le pezze ai danni causati dal suo predecessore, sia in campo economico, avendo lasciato in eredità la crisi scoppiata con il fallimento della Lehman Brothers, sia in politica estera con i due bubboni delle guerre in Afghanistan ed in Irak, per le quali non si vedevano soluzioni possibili. Tuttavia Obama aveva cominciato a rendersi conto che le politiche di delocalizzazione e deindustrializzazione selvaggia avevano danneggiato gli Stati Uniti, così come aveva cominciato a rendersi conto del “pericolo cinese”. Una Cina che cresceva economicamente diventava anche un temibile competitor politico e quindi bisognava intervenire per mettere un freno alle ambizioni di Pechino. Ma mentre Obama aveva cominciato a tirare qualche schiaffetto ai cinesi Trump si tolse i guanti e cominciò a pestare duro. Bisognava riportare in America le produzioni industriali, sanzionare le aziende che delocalizzavano gli stabilimenti produttivi all’estero e bisognava reintrodurre dazi doganali e altre restrizioni alle merci cinesi anche perché quel paese perpetuava politiche commerciali scorrette.
Trump dette, con le sue strategie economiche la prima forte picconata all’edificio della globalizzazione. Dopo quasi tre decenni caratterizzati dalla tendenziale riduzione dei dazi e di ogni altra restrizione al libero commercio, ora, la prima economia del pianeta, gli Stati Uniti, facevano un clamoroso dietro front. Le teorie neoliberiste furono in gran parte accantonate e si tornò alla difesa, in politica economica, degli interessi nazionali.
Il successore di Trump, il presidente Biden non soltanto ha proseguito e accentuato le restrizioni commerciali alle merci cinesi ma ha riorientato tutta la politica estera statunitense individuando nella Cina il nemico da fermare con qualunque mezzo.
Per i cinesi il fallimento della Lehman Brothers e la conseguente crisi sistemica fu un colpo durissimo sia a livello economico ma anche politico. Dal punto di vista economico il crollo della domanda mondiale causò un crollo delle esportazioni cinesi e quindi anche un forte rallentamento dell’economia di quel paese. I cinesi che, come gli americani, sono un popolo pragmatico compresero subito la natura del problema e lo affrontarono con decisione, immettendo nel sistema economico in pochi mesi l’equivalente di circa 600 miliardi di dollari di sostegni alle famiglie e alle imprese. Già dalla seconda metà del 2009 l’economia cinese riprese a crescere superando in breve tempo la crisi.

Il nuovo modello di sviluppo della Cina

Dal punto di vista politico quella crisi rafforzò l’ala più ortodossa del partito comunista cinese. L’idea sbagliata che spesso si ha in Occidente è che il Partito che ha il monopolio del potere sia una sorta di granitico monolite. In realtà al suo interno si sviluppano, si confrontano, si scontrano correnti ed idee politiche anche molto diverse e, periodicamente, emerge una fazione oppure un’altra. La crisi della Lehman Brothers ridà argomenti alla fazione più ortodossa, in sostanza coloro che pur riconoscendo la necessità di aprire il paese e quantomeno una parte della sua economia, alle regole del mercato, non avevano minimamente rinunciato alla visione marxista secondo la quale prima o poi il sistema capitalistico sarebbe crollato sotto il peso delle sue irrisolvibili contraddizioni interne. Secondo costoro bisognava quindi rafforzare quella che venne chiamata “la via cinese al socialismo”, in sostanza ferreo ancoraggio all’ideologia marxista-leninista, nessuna apertura politica e pragmatismo economico. Tutti comunque si resero conto che il paese avrebbe dovuto modificare il suo modello di sviluppo. Puntare tutto sull’export era troppo rischioso. Un modello di crescita cosiddetto “export oriented” cioè trascinato dalla crescita costante delle esportazioni, era un modello molto fragile che rendeva l’economia cinese troppo dipendente dagli andamenti del commercio mondiale. Si decise quindi di riorientare le strategie economiche del paese puntando anche sullo sviluppo della domanda interna.

La crisi economica in Italia

Edoardo Nesi è uno scrittore toscano che nel 2011 vinse il premio Strega con il suo romanzo d’esordio intitolato: Storia della mia gente. In realtà non si trattava esattamente di un romanzo ma di qualcosa che stava a metà strada tra il romanzo e l’autobiografia perché, come recitava il titolo del libro, Nesi racconta, in maniera romanzata la storia della sua gente, cioè della sua famiglia, una famiglia di imprenditori nel settore tessile, ma anche la storia della sua città: Prato, capitale di uno più importanti distretti industriali del nostro paese, che aveva le sue origini nel lontano Medioevo quando Prato divenne famosa per la lavorazione dei “cenci”, cioè degli stracci.
Nesi racconta cosa accadde nel distretto del tessile di Prato nel primo decennio del nuovo secolo quando la concorrenza cinese, in pochi anni annientò letteralmente intere filiere produttive in Italia, facendo scomparire quello che era stato uno dei settori di punta del nostro sviluppo industriale sin dall’Ottocento. In quel libro Nesi riesce a trasmettere tutto lo sconcerto, la delusione, l’impotenza sua e degli imprenditori come lui che vengono investiti da uno tsunami senza riuscire a capirne le ragioni. Non avevano fatto nulla di male, non avevano fatto nulla di sbagliato, avevano soltanto lavorato come muli, come facevano da sempre, per conquistarsi una posizione sociale e un discreto livello di benessere, tutte cose che vengono spazzate via in pochi anni dall’arrivo della concorrenza cinese. Ma una delle cose che ferisce particolarmente l’imprenditore-scrittore Nesi è l’atteggiamento supponente degli economisti di grido che dalle colonne dei principali quotidiani pontificavano sostenendo che la globalizzazione ci avrebbe resi tutti più ricchi, una delle tante previsioni sbagliate.

L’Unione Europea e l’austerità

La decisione dell’Unione Europea di aprire il mercato alle merci cinesi fu soltanto la prima di una serie di scelte scellerate. Qualche anno dopo, sull’onda della crisi causata dal fallimento della Lehman Brothers, i vertici dell’Unione Europea, egemonizzati dai tedeschi impongono le famigerate politiche di austerità. Mentre nel resto del mondo, a cominciare da Stati Uniti e Cina, la crisi veniva affrontata aumentando la spesa e gli investimenti pubblici per far fronte al calo della domanda privata, in Europa si andava in direzione esattamente opposta. Le politiche di austerità invece di ridurre gli effetti della crisi li amplificarono soprattutto per i paesi più deboli dell’Eurozona: Portogallo, Spagna, Italia e soprattutto Grecia. Il caso greco resterà un esempio storico di insipienza politica e di stupidità economica, un problema relativamente piccolo, la Grecia rappresentava soltanto il 3% del PIL complessivo dell’Unione Europea, venne amplificato e rischiò di mandare gambe all’aria l’intera Unione Europea e la valuta comune l’Euro.

La pandemia da Covid 19

Un secondo durissimo colpo alla globalizzazione fu dato dalla pandemia da Covid 19. La globalizzazione aveva consentito una riduzione delle restrizioni ai movimenti di merci e persone che favorì la diffusione del nuovo virus che in pochi mesi, oltre a causare pesanti ripercussioni a livello economico, fece anche milioni di vittime. Con la crisi pandemica i paesi occidentali si resero conto che aver delocalizzato in Cina e in altri paesi dell’Estremo Oriente la produzione, di mascherine, disinfettanti, presidi medici, strumentazione medica aveva certamente consentito di ridurre i prezzi di quei prodotti ma aveva anche reso i paesi occidentali dipendenti dalle forniture cinesi e quando si combatte una battaglia mortale contro un virus sconosciuto, dipendere dalla Cina, non si era rivelata una strategia particolarmente lungimirante.

La guerra di Putin

L’ultima grande picconata alla globalizzazione la dà il 24 febbraio del 2022 il presidente russo Putin con l’aggressione all’Ucraina. Probabilmente quella guerra verrà classificata dagli storici del futuro come uno dei più grandi errori politici e strategici fatti dalla Russia, o come l’ha definita Navalny, uno dei principali oppositori di Putin, la guerra più stupida dell’ultimo secolo.
Quel conflitto evidenzia però un ulteriore problema: la dipendenza dell’Occidente dalle forniture energetiche russe.
Per i paesi europei le forniture di gas russo rappresentano percentuali che possono oscillare dal 30% dei consumi fino all’80%, una dipendenza che mette in crisi le economie del vecchio continente, nel momento in cui con l’adozione delle sanzioni si decide di rinunciare a buona parte di quegli approvvigionamenti. L’Europa minacciata nei suoi interessi geopolitici dall’aggressione russa all’Ucraina scopre di essere fragile ed esposta al ricatto russo in uno degli snodi strategici della sua economia: i rifornimenti energetici.
La guerra in Ucraina mette la lapide sull’idea, coltivata nei decenni della globalizzazione, che la crescente interdipendenza economica avrebbe ridotto al minimo i rischi di conflitto militare. La vecchia massima attribuita all’economista francese Frederic Bastiat secondo cui: “Dove passano le merci non passano gli eserciti”, si è rivelata un troppo ottimistico auspicio.

La crisi della globalizzazione

La globalizzazione era stato un processo storico forse inevitabile ma certamente governato male. La globalizzazione comincia ad entrare in crisi nel 2018 con le dispute commerciali tra Stati Uniti e Cina che però si estendono e coinvolgono anche altri paesi a cominciare da quelli europei finendo per rallentare gli scambi internazionali. Nel 2020 arriva la pandemia da Covid 19 che ferma per mesi i flussi transfrontalieri di merci ma anche di persone e di capitali e disarticola molte catene di fornitura perché i lockdown e le misure di contenimento sanitario bloccavano produzioni di parti o di componenti in qualche zona del mondo finendo per creare ritardi nelle consegne se non addirittura carenza di prodotti o componentistica e rallentando i processi produttivi.
Nel 2022 la guerra tra Russia e Ucraina blocca i porti del Mar Nero attraverso cui passava l’export di importanti commodities soprattutto agricole, dai cereali, ai fertilizzanti, all’olio di girasole, ma anche prodotti siderurgici e materiali ferrosi. La conseguenza fu un rialzo dei prezzi di quei prodotti. A seguire ci fu la crisi energetica. Le sanzioni occidentali alla Russia bloccando gran parte delle importazioni di gas da quel paese fecero decuplicare i prezzi del gas con devastanti conseguenze sulle economie europee scatenando tensioni inflazionistiche che ancor oggi le banche centrali fanno fatica a rimettere sotto controllo.
La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi tre decenni è ormai lo spettro di se stessa, come quei palazzi abbandonati e svuotati dei quali resta soltanto l’ossatura. Cosa accadrà nei prossimi anni difficile dirlo, la maggior parte degli economisti ritiene che ci sarà una rigloblalizzazione selettiva tra blocchi di paesi omogenei dal punto di vista economico, politico e culturale, in competizione tra di loro per l’egemonia mondiale. D’altronde l’idea che stava alla base della globalizzazione che il vantaggio economico e la ricerca dell’ottimizzazione dei processi produttivi seguendo le cosiddette catene globali del valore avrebbe prevalso sulle questioni geopolitiche, strategiche, militari, nazionali, religiose, ideologiche, si è rivelata un’illusione. L’economia senza la politica non va da nessuna parte. Era illusorio pensare che il vantaggio economico avrebbe in un certo senso “forzato” la politica a fare scelte che avrebbero assecondato e favorito il principio dell’interesse economico. Questo insegnamento andrebbe tenuto presente anche quando si discute del futuro dell’Unione Europea. Anche in Europa si è scelta la strada dell’integrazione economica e monetaria con l’adozione della moneta unica, pensando o meglio sperando che gli interessi economici avrebbero alla fine “forzato” i popoli a unirsi seguendo la vecchia massima: “unite i loro portafogli, unirete anche i loro cuori”, ma anche questa potrebbe rivelarsi, in futuro, l’ennesima previsione sbagliata.

 

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