Non si placa la crisi del Tigray
Scritto da Francesca Mancini in data Marzo 29, 2021
Lo scorso 23 marzo il presidente etiope Abiy Ahmed, vincitore del premio Nobel per la pace 2019, ha ammesso davanti al parlamento, dopo mesi di diniego, che le forze di difesa eritree avevano attraversato il confine per unirsi all’offensiva contro il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF). Dopo varie pressioni internazionali soprattutto da parte degli Stati Uniti, venerdì mattina, Abiy Ahmed ha annunciato il ritiro delle truppe eritree dalla regione settentrionale del Tigray. È andato personalmente ad Asmara, la capitale dell’Eritrea, per parlare con il dittatore eritreo Isaias Afewerki, con cui ha poi trovato un accordo.
Nelle ultime settimane centinaia di migliaia di rifugiati sono stati costretti a fuggire dalla zona, che è stata travolta dai combattimenti tra le forze separatiste tigrine e i soldati etiopi ed eritrei.
«Sono di Edaga Arbi − ha detto Ken Alew, rifugiato interno ad Adwa − la nostra casa è stata distrutta, tutto ciò che possedevamo è stato distrutto. Quando è successo ci siamo rifugiati nel villaggio più vicino per salvarci la vita. Ho 4 figli e ora non ho più niente. I nostri figli non hanno niente».
«Abbiamo visto gente lasciare le proprie case e i propri villaggi sin dall’inizio del conflitto − ha riferito Esperanza Santos, coordinatrice dell’emergenza per Medici senza Frontiere −, la gente si spostava a piccoli gruppi e venivano ospitati dalle comunità limitrofe, nelle case di parenti o conoscenti, che condividevano ciò che avevano. Ma la situazione nelle ultime settimane è cambiata, arrivano gruppi di persone sempre più numerosi, soprattutto ad Adwa e Axum, che trovano sistemazione in luoghi di fortuna, come le scuole, che però non sono grandi abbastanza per accoglierli tutti».
«Siamo molto preoccupati − ha continuato Esperanza Santos − perché non abbiamo avuto grandi risposte dai diversi attori della comunità umanitaria internazionale per far fronte a questo grande afflusso di persone. Gli sfollati che arrivano non ricevono acqua, farmaci, cibo né hanno accesso alle cure mediche».
Nella città di Adigrat, pochi km al confine con l’Eritrea − riporta John Sparks per Sky News − l’ospedale è forse l’unica cosa che ancora funziona. Le porte sono aperte e i corridoi pieni di gente. In una delle sue stanze Amina Ali, suora e infermiera dell’ospedale, si prende cura delle donne stuprate dagli uomini delle milizie. Negli ultimi due mesi ha ascoltato le storie di oltre 200 donne vittime di stupro.
«Qui la situazione sta peggiorando», ha detto Amina.
«Una donna era incinta quando tre soldati eritrei e due etiopi l’hanno violentata. Ora non riesce a muovere le gambe. Oltre a essere incinta, non riesce più a controllare la sua vescica».
In questo ospedale le donne trovano cure, test di gravidanza e controlli per l’HIV, ma molte si vergognano di venire qui. Mariam 31 anni: «Ci ha detto di non nasconderci e così siamo venute qui per essere curate. Io ho sanguinato per un mese, il sangue non si fermava». Mariam ha convinto 30 donne a venirsi a curare in ospedale ma il trauma che ha vissuto potrebbe non guarire mai.
«Sono stata stuprata per tre giorni. Siamo scappati nei campi e quando ci hanno trovati, alcuni di noi sono stati uccisi. Mi hanno legata e cinque soldati mi hanno violentata a turno. Poi ho dovuto strisciare perché non riuscivo più a camminare», ha detto Mariam.
Il sistema sanitario è totalmente collassato, ha riferito il dott. Agos Hailu, ginecologo dell’ospedale di Adigrat. Lo stupro viene usato dai soldati come arma per combattere questa guerra ma l’ospedale può curare solo un numero esiguo di donne. «È sopra le nostre capacità, non abbiamo i mezzi, la maggior parte delle donne che vengono stuprate sono incinta, delle 200 donne di quest’ultimo periodo 160 erano incinte, è davvero sopra le nostre possibilità perché le gravidanze devono essere portate a termine».
Un’altra donna, riporta Sparks per Sky News, ha raccontato di essere stata stuprata come punizione per suo marito che combatte contro le milizie del TPLF, il fronte di liberazione del popolo del Tigray. «Hanno cominciato con mio figlio. Li ho implorati di fare qualunque cosa a me ma di lasciare andare lui. Mi hanno stuprata e dopo di me hanno picchiato e stuprato mia nonna, poi l’hanno trascinata via per i piedi».
Le rappresaglie da parte delle truppe etiopi e degli alleati stanno aumentando sempre di più e sulla via di ritorno da Adigrat se ne vedono i resti, riporta Sparks, due mezzi militari sono stati sorpresi da un’imboscata e diversi autobus pubblici fermati sulla strada. I passeggeri sono stati obbligati a scendere e hanno sparato a un uomo, riferisce Medici Senza Frontiere, come atto di vendetta.
Nella regione della capitale, Mekelle, Sparks raccoglie la testimonianza di una donna di 27 anni che ha sofferto in modo inimmaginabile. Era su un autobus per Adigrat quando le truppe eritree la fecero scendere e la stuprarono per i 10 giorni successivi. «Pensavo che sarei morta rapidamente, senza sofferenza. Ventitré soldati mi hanno stuprata. Ventitré. Mentre mi stupravano perdevo molto sangue, per questo mi hanno infilato dentro buste e siringhe di plastica. Ma il sangue non si fermava e perciò cominciarono a versarmi acqua addosso».
Quando i soldati hanno finito, hanno cercato di buttarla via, ha riferito la donna a Sparks.
«Mi hanno gettata via così avrei sofferto mentre morivo. Sono rimasta per terra tutta la notte. Ora sto cercando di riprendermi».
Riferisce Sparks che il governo etiope ha affermato di avere una politica di tolleranza zero nei confronti della violenza sessuale. Ha dichiarato che task force speciali sono state dispiegate per indagare, il che consentirà di consegnare alla giustizia i perpetuatori e fornirà risarcimento alle vittime.
Il bilancio esatto dell’ultimo conflitto del Tigray non è ancora noto poiché la regione di circa sei milioni di persone è stata in gran parte isolata, nonostante i recenti progressi nell’accesso all’area per le squadre umanitarie. Il mese scorso, tre partiti di opposizione del Tigray hanno affermato che almeno 52.000 persone sono state uccise nel conflitto da novembre, dato smentito dall’ufficio del primo ministro, riferisce France 24.
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