La Russia di Putin e il nazionalismo revanscista

Scritto da in data Maggio 18, 2022

Dopo il tentativo fallito di avvicinamento all’Occidente, la Russia di Putin ha fomentato il peggior nazionalismo revanscista.

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Le conseguenze economiche della pace

Nel 1919 usciva un libro scritto da un giovane economista dell’Università di Cambridge, John Maynard Keynes, che si intitolava “Le conseguenze economiche della pace”. Keynes, che sarebbe poi diventato il più importante economista del XX secolo, partecipò giovanissimo, come membro della delegazione britannica, alle trattative di pace di Versailles che seguirono alla fine della Prima Guerra Mondiale. In quel saggio Keynes ripercorreva la sua esperienza e sottolineava quelli che, a suo avviso, erano stati i grossolani errori commessi dalle potenze vincitrici alla Conferenza di pace. Keynes sottolineava che l’intento punitivo nei confronti della Germania, con cui le potenze vincitrici avevano impostato le trattative, era sbagliato in quanto foriero di ulteriori conflitti. Umiliare un paese sconfitto come la Germania, che certamente aveva enormi responsabilità nello scoppio di quella guerra, non avrebbe fatto altro che riaccendere il nazionalismo germanico e la volontà di rivalsa dei tedeschi. Imporre condizioni durissime e il pagamento di esorbitanti riparazioni di guerra sarebbe servito soltanto a rinfocolare l’odio e il risentimento degli sconfitti contro le potenze vincitrici. Quel libro fu profetico, e infatti poco più di vent’anni dopo una Germania “nazificata” scatenava un nuovo conflitto mondiale con l’intento di riconquistare i territori perduti e quel ruolo di grande potenza che aveva avuto nel passato con l’Impero guglielmino.

La dissoluzione dell’Urss

Come sappiamo, alla fine del 1992 l’Unione Sovietica si dissolve. Il tentativo del suo presidente Michail Gorbaciov di riformare radicalmente il sistema comunista si trasformerà in un fallimento, anzi, secondo Vladimir Putin si trasformerà nella più grande «catastrofe geopolitica del XX secolo». Gorbaciov in pochi anni aveva smantellato quello che veniva chiamato “l’Impero sovietico”, quella catena di paesi dell’Europa orientale conquistati dall’Armata Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale e che, in base agli accordi di Yalta tra le potenze vincitrici, entrarono a far parte della sfera d’influenza sovietica. Per Gorbaciov e il suo gruppo dirigente l’impero era più un problema che una risorsa, un’inutile zavorra tenuta in piedi dagli aiuti economici di Mosca e dalla morsa delle divisioni corazzate dell’Armata Rossa, schierate a difesa dei regimi comunisti al potere in quei paesi. Il mondo era cambiato, la “Guerra Fredda” andava superata e bisognava passare dall’antagonismo tra blocchi ideologici contrapposti alla cooperazione e al disarmo. Bisognava costruire una nuova “casa comune europea” che desse a tutti quelle garanzie di sicurezza di cui ogni nazione ha bisogno. Il nuovo sistema di relazioni internazionali doveva basarsi sull’equilibrio degli interessi e sui vantaggi reciproci, e non più sui rapporti di forza. Una rivoluzione copernicana nei rapporti internazionali, un’idea rivoluzionaria ma anche, forse, eccessivamente idealistica se non addirittura velleitaria. Gorbaciov smantellò l’impero, ritirò le truppe e diede il suo assenso anche alla riunificazione tedesca, ma l’Occidente non colse quell’occasione storica per ridefinire i rapporti con l’ex potenza comunista. La nuova Russia di Eltsin era troppo impegnata nella transizione della sua economia verso una qualche forma spuria di capitalismo, per avere energie e tempo da dedicare alle questioni internazionali. Come disse qualche anno dopo Putin: «Sembra che i cosiddetti vincitori della Guerra Fredda siano determinati a prendersi tutto, a trasformare il mondo in qualcosa che sia funzionale soltanto ai loro interessi».
Putin in quel caso aveva ragione. L’Occidente avrebbe potuto elaborare soluzioni politiche più creative e lungimiranti per coinvolgere la Russia in un nuovo assetto di sicurezza continentale, optò invece per una soluzione meno impegnativa, più facile, forse meno idealistica e più concreta: scelse di cavalcare le difficoltà della Russia per indebolirla ulteriormente e isolarla spostando i confini della Nato, l’Alleanza Atlantica, sempre più a ridosso dei confini russi. Fu una scelta politica non ineluttabile ma deliberata, fatta prima dal presidente Clinton e poi dai suoi successori, e avvallata dalle cancellerie europee troppo deboli o troppo distratte. L’Occidente, in pratica, commise lo stesso errore che le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale commisero nei confronti della Germania, come sottolineava nella sua analisi John Maynard Keynes, nel libro che citavamo all’inizio. Qualcuno in Occidente si era reso conto del problema e del pericolo. Il presidente Georg H.W. Bush padre, che aveva conosciuto e trattato direttamente con Gorbaciov, decise di non approfittarsi della debolezza della Russia per trarne vantaggi politici, era troppo rischioso. La dissoluzione di una superpotenza nucleare come l’Urss poteva trasformarsi in una tragedia dagli esiti imprevedibili. Gli Usa non soffiarono, all’epoca, sul fuoco delle rivalità etniche e nazionalistiche, come disse lo stesso presidente americano: «Non danzeremo sulle rovine del Muro di Berlino».
Peccato che i suoi successori la pensassero diversamente: la Russia aveva perso la Guerra Fredda e quindi, come tutti gli sconfitti, andava punita e ridimensionata; la Russia post comunista, anche se convertitasi al capitalismo, restava un potenziale nemico e come tale andava trattato. Quella scelta miope fatta dall’Occidente ha ridato fiato e argomenti al nazionalismo revanscista russo, di cui Putin e il suo regime si è fatto interprete politico, ma che è, purtroppo, sentimento diffuso tra la popolazione di quel paese, anche al netto di tutte le distorsioni e manipolazioni propagandistiche di cui quel regime è capace.

Il riarmo russo

Quella scelta fu un errore strategico, percepito dalla grande maggioranza dei russi come un’umiliazione. Quando la Russia guardava verso Occidente nel tentativo di essere coinvolta in un nuovo assetto di relazioni internazionali che tenesse conto anche dei suoi interessi e delle sue ambizioni, l’Occidente preferì chiuderle la porta in faccia. La reazione russa si è andata configurando negli ultimi ventidue anni di potere di Putin. Qualcuno ha definito quella di Putin come “geopolitica del risentimento”. Rimesso in ordine il paese dopo l’anarchia degli anni Novanta, rimessa in sicurezza l’economia, ridimensionato il ruolo degli oligarchi, Putin ha puntato sul riarmo e sull’ammodernamento del suo esercito e sulla riesumazione simbolica della passata potenza imperiale russa. Nel tentativo propagandistico di fomentare il nazionalismo russo, anche il periodo sovietico è stato in parte riabilitato. L’Urss di Stalin, in fondo, era stata una grande potenza che aveva schiacciato la Germania nazista ed esteso il dominio russo fino al cuore dell’Europa. Inoltre, sia in Russia ma anche in molte ex repubbliche dell’Urss, a cominciare dall’Ucraina, una parte della popolazione, soprattutto quella più anziana, aveva sviluppato una sorta di nostalgia per il periodo sovietico, ricordato da molti come un periodo di stabilità economica, sociale e politica.
Negli ultimi vent’anni la Federazione Russa ha investito risorse consistenti nella difesa, tra i sessanta e i settanta miliardi di dollari all’anno, e ha cominciato ad assumere un profilo più reattivo e interventista in politica estera. Si è cominciato a stabilire il principio che sia diritto e dovere della Russia intervenire nei paesi limitrofi ex sovietici dove esistono forti minoranze di cosiddetti “piedi rossi”, in pratica minoranze russofone che spesso vengono discriminate, se non addirittura maltrattate. Discriminazioni nei confronti delle minoranze russe esistono anche in paesi facenti ormai parte dell’Unione Europea, come i paesi baltici, anche se è difficile trovarne notizia sui nostri media, ma il problema è divenuto sempre più evidente e drammatico in Ucraina, un paese multietnico per ragioni storiche, dove un terzo circa della popolazione è russofono.

La rinascita dei nazionalismi

In Ucraina, negli ultimi dieci anni, si è creato un mix esplosivo. Da un lato le pressioni russe per cercare di tenere quel paese − un po’ con le blandizie, un po’ con la corruzione, un po’ con le minacce − nella propria sfera d’influenza, dall’altro lato le pressioni degli Stati Uniti, dei paesi europei e della Nato per cercare di portare quel paese nella sfera d’influenza occidentale. A ciò si aggiunga la rinascita dei rispettivi nazionalismi.

Da un lato il nazionalismo ucraino che, per ragioni storiche, non può che essere antirusso. L’Ucraina è diventata indipendente nel 1992 dopo la dissoluzione dell’Urss; nei cinquecento anni di storia precedenti ha sempre fatto parte, tranne per alcuni brevi periodi, dell’Impero zarista prima e dell’Unione Sovietica dopo. Per i nazionalisti ucraini essere indipendenti significa, inevitabilmente, essere indipendenti dalla Russia e crearsi un’identità nazionale alternativa a quella russa. Dall’altro lato c’è il nazionalismo russo e la storia, sappiamo, procede per onde lunghe. I russi per cinquecento anni hanno considerato l’Ucraina una parte periferica, forse, ma pur sempre una parte integrante della loro nazione, quindi non capiscono perché negli ultimi trenta anni gli sia venuta questa smania di diventare indipendenti. Indipendenti da cosa, se siamo popoli fratelli?
Sono due modi ovviamente inconciliabili di vedere la questione. In queste situazioni o c’è una soluzione politica di mediazione e di compromesso o, prima o poi, si scatena il conflitto perché una delle due parti, o entrambe, si illuderanno di poter risolvere la questione in via definitiva, con la forza.
Nel 2014 la situazione precipita. Una rivolta popolare, in parte anche sostenuta e fomentata dai paesi occidentali, porta alle dimissioni e alla fuga del presidente Janukovyc, filorusso. Al suo posto viene eletto un nuovo presidente Poroshenko, filo occidentale. La Russia, con un colpo di mano incruento, riesce ad annettersi la Crimea, regione a stragrande maggioranza russofona, mentre nella regione del Donbass si scatena una guerra a bassa intensità tra milizie filorusse, armate e finanziate da Mosca, e milizie ultranazionaliste ucraine, a cominciare dal famigerato battaglione Azov, una formazione neonazista. Quella guerra a bassa intensità, trascinatasi sino allo scorso mese di febbraio, provoca più di quindicimila vittime, in gran parte tra la popolazione russofona, nel totale disinteresse dell’opinione pubblica occidentale.
Cercare di analizzare le ragioni storiche, economiche, politiche che hanno portato a un conflitto evidenziando gli errori degli uni e degli altri serve per capire come si è arrivati alla crisi di questi ultimi mesi, altrimenti ci si accontenta delle spiegazioni fornite dalle rispettive propagande, per cui da un lato si racconta che Putin è pazzo e dall’altro che gli ucraini sono tutti nazisti.

La mossa sbagliata di Putin

L’aggressione russa all’Ucraina, pur avendo avuto una lunga gestazione, è stata un’azione unilaterale, ingiustificata e molto azzardata. Il bilancio per la Russia, sinora, è assolutamente fallimentare. Dal punto di vista militare si è rivelata un’operazione assolutamente sgangherata, basata sul presupposto che il governo e l’esercito ucraino si sarebbero dissolti in pochi giorni mentre la popolazione avrebbe accolto gli invasori con fiori e applausi: un incredibile errore di analisi. Il tempo non gioca a favore dei russi, più il conflitto si prolunga più le probabilità di vittoria si assottigliano. L’Occidente sta rifornendo massicciamente l’Ucraina di armamenti moderni, mentre i russi non hanno rincalzi sufficienti, stanno subendo perdite pesantissime di uomini e mezzi. Secondo alcuni analisti militari hanno consumato in poco più di due mesi di guerra un quarto del loro arsenale missilistico. Il che significa che se la guerra continuasse a questi ritmi tra sei mesi, finiti i missili, dovranno rispolverare le catapulte e cominciare a tirare i sassi.
Dal punto di vista economico le sanzioni occidentali stanno mettendo in seria difficoltà l’economia russa. I prezzi dei beni di prima necessità in pochi mesi sono triplicati, l’inflazione si avvicina al 20%, alcuni settori, come quello della produzione di auto e di veicoli, sono fermi sia per il crollo della domanda interna che per la mancanza di componentistica, che veniva importata dall’Occidente. Le prospettive economiche del paese sono fosche. I russi fanno i gradassi dicendo che il gas e il petrolio che i paesi europei non vorranno più lo esporteranno in altri continenti, ma l’operazione è tutt’altro che semplice. Occorrerà costruire nuovi gasdotti e ci vorranno anni, oltre al fatto che i maggiori consumatori al mondo di gas e petrolio sono, per evidenti ragioni, i paesi più industrializzati, che si trovano in buona parte in Europa. Certamente, se la Germania o l’Italia non ti comprano più il gas puoi rivenderlo alla Bolivia, al Camerun o allo Sri Lanka, ma ne vendi molto, ma molto meno.
Anche dal punto di vista politico la Russia si è ritrovata isolata. Quello che sembra il suo alleato più solido, la Cina, è tutt’altro che entusiasta. Il prolungarsi del conflitto causerà una recessione globale e la Cina, paese esportatore, ne sarà pesantemente penalizzato. Inoltre, paesi storicamente neutrali come Finlandia e Svezia, preoccupati dall’aggressività russa, hanno richiesto di entrare nella Nato che così si rafforza. Difficile rintracciare nella storia una decisione politica altrettanto balorda e autolesionistica come quella fatta da Putin lo scorso 24 febbraio, con l’attacco all’Ucraina.

Questo tragico conflitto dimostra che è difficile tornare a essere una grande potenza se non se ne hanno più i mezzi, né economici tantomeno militari. Le ingenti spese sostenute negli ultimi 15-20 anni per ammodernare l’esercito russo sono finite, in buona parte, nelle tasche di funzionari e generali corrotti. Secondo indagini giornalistiche dei media ufficiali russi, quasi un quarto del budget annuale per la difesa finisce in bustarelle, sprechi e ruberie varie. L’esercito russo fa una gran bella figura nelle parate con la banda che suona musiche patriottiche, ma sul campo di battaglia fa disastri: mancanza di coordinamento tra i reparti, carenze logistiche, disorganizzazione, scarso livello di addestramento, armamenti antiquati.

Ne valeva la pena?

Le sanzioni e il disaccoppiamento economico, tecnologico, politico, culturale dall’Occidente finiranno per impoverire la Russia mantenendola in una condizione di arretratezza, costringeranno la gran parte della popolazione a fare sacrifici e a vedere peggiorare significativamente le proprie condizioni di vita. In nome di che cosa?

In nome dell’idea, tanto vaga quanto velleitaria, di tornare a essere una grande potenza rispettata e temuta da tutti. Ma è difficile essere temuti dopo i pessimi risultati dell’esercito russo in Ucraina, ed è difficile essere rispettati dopo la scoperta delle fosse comuni, degli inutili massacri di civili inermi, dopo la devastazione altrettanto inutile di intere città. È difficile essere rispettati quando sostieni pubblicamente che gli ucraini sono un “popolo fratello” e poi lo aggredisci in maniera brutale. Solitamente sterminare la propria famiglia non è il modo più efficace per convincere i parenti delle proprie buone ragioni e della purezza dei propri sentimenti!

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