Le prime tappe

Scritto da in data Gennaio 9, 2020

Chi non conosce il Cammino di Santiago? Esploso come successo italiano negli ultimi cinque anni, probabilmente grazie alla sua economicità, al contatto con la natura e – infine – al carattere spirituale, il Cammino è ormai ovunque ed è facile trovare informazioni per partire. Nel 2014, quando ho deciso di cimentarmi nell’esperienza, facevano capolino i primi siti – pochi – e c’era un tenace gruppo su Facebook. Qualsiasi sia la preparazione con cui si parte, il Cammino si fa camminando.

I tuoi piedi sono bellissimi

A metà strada lungo il cammino francese verso Santiago si trova Fromista. Una tappa per me emblematica sia per le Chiese di San Martín e di San Pedro, dense e ricche di fascino e spiritualità, sia per le mesetas che l’hanno preceduta e per un’indomita voglia di camminare e pensare solo ai bisogni primari. Fromista ti spinge quasi senza volerlo a stilare bilanci, tracciare una mappa mentale di ciò che è avvenuto fin lì e di quanta forza ancora ti resta per raggiungere Santiago. Lì, nella chiesa di San Pedro, alle 20.00 – e suggerisco di farci un giro – ho ricevuto in dono uno dei tanti incontri speciali tipici del Cammino: questa volta con le suore Clarisas Franciscanas di Palencia. Sul Cammino ho capito quanto poco importante sia avere o non avere fede, essere o no cattolici. «I tuoi piedi sono bellissimi, ma come hai fatto?» mi dice una suora italiana. «Nemmeno una vescica. Sei luminosa», poche parole, ma per me così fondamentali per spronarmi ad avere fiducia o fede.

La paura dell’inizio

Abbandoniamo Fromista, senza perderla come punto di riferimento, per ripercorrere le prime tappe di questo mio pellegrinaggio, diverso da quello di qualsiasi altro viandante. Si potrebbero, infatti, scrivere articoli tanti quanti sono i pellegrini, sia per la scelta delle tappe, sia per gli incontri e gli acciacchi da sopportare, ma soprattutto per ciò che si impara e per come si torna. Io ho deciso di partire da Saint Jean Pied de Port, in Francia, per superare i Pirenei e giungere a Roncisvalle. Le paure della partenza si sciolgono appena si muove il primo passo, alle 6.30 del mattino, lungo la stradina quasi fiabesca che attraversa Saint Jean. La sensazione di aver portato troppo o troppo poco scompare, il timore di non essere abbastanza allenati diventa irrilevante. Qui ho conosciuto le prime pellegrine che mi avrebbero accompagnato per una parte consistente del Cammino, due donne ungheresi, Lili e Gyöngyi, rispettivamente di 31 e 48 anni. Grazie a loro ho imparato – da viaggiatrice solitaria – ad ammansire le mie insofferenze e a comprendere che una risata insieme o un atto di condivisione valgono ben più di un’attesa di qualche minuto per una sosta che io non vorrei fare. Ho imparato a dire no e a chiedere di camminare sola per esigenza e necessità.

Una famiglia improvvisata

Dopo aver esagerato già al secondo giorno, la squadra improvvisata, composta da tre donne troppo determinate e motivate da spinte differenti, ha scelto l’umiltà, riconoscendo la necessità del corpo di abituarsi gradualmente a questo continuo movimento in avanti, un po’ in salita e un po’ in discesa. La Navarra e la Rioja sono due regioni aspre, addolcite da girasoli e immensi campi biondi. La partenza non dà il tempo di rendersi conto di ciò che stiamo facendo: duro è l’inizio, l’attacco. Iniziano i primi dolori, le prime vesciche, si sistema lo zaino per ore per capire quale sia la posizione più confortevole. Dopo dieci giorni, quello stesso zaino farà così parte di te da sentirti come frugata dentro quando qualcuno, su tua richiesta, ci mette le mani per cercarti qualcosa – l’acqua, una mela, un fazzoletto di carta – mentre lo hai sulle spalle. Ci sentivamo bisognose le une delle altre in quei primi giorni e ci consideravamo già una vera e propria famiglia. Poi Gyöngyi si è staccata seguendo il suo ritmo, ma non l’ho mai persa nelle soste o a fine tappa. Il secondo giorno ci siamo mangiate Zubiri, gridando al miracolo per la voglia di camminare che ci spingeva oltre il limite, e siamo approdate con fatica e dolore a Trinidad de Arre. Anche a Los Arcos, qualche giorno dopo, siamo arrivate arrancando, per la prima volta del tutto sole e separate.

“Lily Albergue Austria Eleonora”

Pensavo che fosse necessario, che fosse la cosa giusta, ma dentro mi mancava quella compagnia: non ero mai partita sola. All’arrivo – dolorante e sudata, ripetendomi nella mente la necessità e il dovere di fermarmi – ho visto un cartello bianco appeso a un garage. Recitava così: “Lily Albergue Austria Eleonora”, seguito da una freccia. Ci ho messo qualche secondo a capire che quella ero proprio io, e che qualcuno mi cercava e mi stava aspettando. Quel giorno lo ricordo con l’emozione di una bambina che pensa che nessuno l’accuserà di non aver avuto coraggio se all’asilo cerca l’amichetto e corre tra le braccia della madre al termine di una lunga giornata. Lo ricordo come il giorno della pausa, del riposo, della sangria e del pranzo-cena alle 16.00, della preoccupazione per il mio metatarso, dell’ascolto ossessivo del corpo: “sono solo i primi 5 giorni, non posso stare male, è troppo presto”. Piano e con delicatezza s’impara a prendersi cura di se stessi: con massaggi, creme, con gli alimenti più adeguati. Si ascolta davvero. Non ho mai messo così tanta crema, né desiderato così tanta frutta, né dormito così tante ore. Se si vuole arrivare a Santiago, se si vuole raggiungere un obiettivo, ci si deve curare, amare, si deve riposare e scegliere il momento e il modo per superare i propri limiti, considerando che questi cambiano ogni giorno, a ogni allenamento.
Dopo Los Arcos ho smesso del tutto di avere paura: anche quel briciolo che ne era rimasto, quell’ansia da perfezione e da prestazione tipica del nostro vivere quotidiano. Mi ricordo tappe pessime, come Narajera, piene di fatica e di malumore, ma sempre con un ringraziamento negli occhi, anche quando l’albergue non era proprio all’altezza della nostra stanchezza. O Logroño, subito dopo la bellissima Viana, dove ho acquistato un vestito verde per il riposo serale e il plantare per attutire il fastidio dato dalle rocce.

Il pane si compra cantando

La tappa che ha definito per me un vero cambiamento nel Cammino è stata sicuramente Grañon, dove consiglio di fermarsi scegliendo l’albergue parrocchiale che condivide con la Chiesa una parete intera. Anche se non siete cattolici, quella serata potrebbe essere davvero la più ricca di tutto il Cammino. Ho dormito per terra, su un materassino da palestra con il mio sacco a pelo ed è stata la notte di sonno più profonda e protetta. Al rientro a casa ho subito notato che dormivo meglio quando ero là, tra tante persone che russavano, su letti a castello poco confortevoli o addirittura su materassini. In quell’albergue abbiamo cenato e insieme ci siamo diretti in panetteria, dove il pane per i pellegrini si acquista con una moneta insolita: il nostro canto. Italiani che hanno intonato “Volare” insieme a olandesi, spagnoli, tedeschi che a turno hanno scelto la melodia che più li rappresentava. Insieme abbiamo lavato piatti e pentole unte, con un sistema ingegnoso quanto semplice e con tanti catini pieni di acqua. A tavola i brasiliani parlavano portoghese, e io – che non so una sillaba di quella lingua – ridevo alle loro battute. La babele linguistica sembrava irrilevante, almeno per me, seduta a tavola tra idiomi con un suono familiare. Per il resto era sufficiente un pizzico di inglese, senza pretese. A partire da quella sera le mie finestre interne si sono spalancate per lasciare che luce e aria si accomodassero come meglio potevano. Chiusure e preconcetti stavano facendo fagotto per creare spazio alla fiducia.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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