L’invenzione della pubblicità
Scritto da Alessio Sartore in data Giugno 29, 2018
La pubblicità, ovvero per avere in mano la propria vita, occorre controllare la quantità e il tipo di messaggi a cui si è esposti. A cura di Alessio Sartore su Radio Bullets
Henry Ford dice: le anatre depongono le loro uova in silenzio, le galline schiamazzano impazzite. Qual è la conseguenza: tutto il mondo mangia uova di gallina.
Questo è il modo semplice e perentorio che ha l’inventore della famosa Ford T, la prima automobile per tutti, o meglio, per molti, per definire la pubblicità. Ma non si ferma qui. Ford conosce bene l’importanza degli slogan: uno slogan è un modo veloce, democratico e standardizzato di dire una bugia. Per farsi pubblicità inventa molti slogan. Sono efficaci, memorabili, subito comprensibili. Gli slogan funzionano. La pubblicità è fatta di slogan o con un termine più preciso, pay-off. Ancora sulla pubblicità Henry ford dice:
Chi smette di fare pubblicità per risparmiare soldi è come se fermasse l’orologio per risparmiare il tempo.
È una frase senza alcun senso logico, ma funziona. Sono i primi del Novecento. Henry Ford impersonifica la quintessenza della rivoluzione industriale moderna. Prende la teoria taylorista del lavoro, quella per cui il lavoratore compie soltanto un pezzo del processo produttivo in una catena di montaggio, e la applica a un’idea tanto avanguardista quanto quasi impossibile: chiunque sarà padrone di un’automobile – in un tempo in cui la maggior parte della popolazione non aveva nemmeno la bicicletta.
Eppure ce la fa. Fabbrica automobili e le persone cominciano a comprarle. Sono persuasi dalla forza della sua visione e soprattutto dalle sue pubblicità. Henry Ford fa pubblicità, tanta. Racconta come si poteva vivere il sogno americano con un nuovo strumento: l’automobile.
Ford dice: Tutti avranno a casa un’automobile.
E i suoi ingegneri e amministratori chiedono: Ma signore, come facciamo a venderla a prezzi così bassi?
Lui risponde: Servono costi bassi: gli operai saranno pagati poco e il prodotto sarà soltanto uno.
Cos’altro serve signore?
Serve produttività: le persone si specializzeranno nella produzione di un piccolo pezzetto dell’intero ciclo produttivo.
E cos’altro signore?
Servono uova di gallina.
Uova di gallina, signore? Chiedono loro.
Avete capito benissimo! Tuona Henry Ford.
In una pubblicità a stampa del 1924, il prodotto, la Ford T, è mostrata in primo piano con un uomo al volante e una donna che acquista della frutta da un contadino lungo la strada. Il testo che accompagna l’immagine non parla delle caratteristiche fisiche del prodotto come la potenza, i cavalli, il tipo di ruote. Ma della possibilità di “get the most out of life”, vivere appieno la vita. Nella pubblicità si legge: La Ford ti dà possibilità illimitate. Puoi farti un giro diverso ogni giorno, un picnic o un’uscita rinfrescante la sera per gustarti la campagna o andare a trovare gli amici. Questi vantaggi, continua la pubblicità, ti permettono di godere di più la tua vita, ti fanno rilassare e riposare ad un costo così basso che ti sorprenderà. Acquista la tua Ford. Comincia con i tuoi pagamenti settimanali.
E qui si trova un altro punto delicato ed essenziale: il credito. Come scrive Serge Latouche, la società dei consumi ha bisogno di tre ingredienti: la pubblicità, che crea il desiderio di consumare. Il credito, che ne fornisce i mezzi. L’obsolescenza accelerata e programmata dei prodotti, che ne rinnova la necessità.
Il sistema del consumo compie questo giro: primo: produce più del necessario; secondo: aumenta la domanda con la pubblicità; terzo: fornisce il credito alla domanda per acquistare i prodotti e i servizi dell’offerta; quarto e ultimo: grazie alla pubblicità rende necessario un nuovo acquisto.
La magia è nascosta nella forma di questa struttura: non è un cerchio ma una molla orizzontale. Il giro è infinito perché la filosofia che sta dietro ai consumi è quella positivista: avanti è meglio. Mai stare fermi o tornare indietro e se torni indietro è solo per avanzare in seguito con una maggiore spinta.
Henry Ford intuisce con quarant’anni di anticipo la grande rivoluzione nella pubblicità: in un mercato sempre più competitivo per vendere non basta mostrare le caratteristiche del prodotto ma creare il sogno che quel prodotto può farti raggiungere. Questa rivoluzione nella comunicazione pubblicitaria arriva negli anni 50 e 60 negli Stati Uniti con i famosi Mad Men. Ma questo lo vedremo più tardi. Prima facciamo un passo indietro e vediamo dove nasce la struttura su cui si appoggia la pubblicità come un’ape si appoggia ad un fiore. La metafora dell’ape non è involontaria. La fiaba delle api è una storia satirica pubblicata dall’olandese Bernard Mandeville nei primi del Settecento, duecento anni prima di Ford.
Nella fiaba delle api, Mandeville scrive che l’unico modo per uno stato per essere florido e in pace è quello di consumare cose inutili. Frutti esotici o precoci, nuovi abiti e cappelli eccetera. “È impossibile, scrive Mendeville, che la virtù renda una nazione celebre e gloriosa. Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare”. L’intento di Mendeville è satirico: stava denunciando la proto-società dei consumi. Il grande Rousseau ci crede e invita a vivere come si fa nei paesini delle sue alpi svizzere. C’è chi invece nella Fiaba delle api c’ha visto la mappa per il tesoro dell’imminente rivoluzione industriale. Cent’anni più tardi, nelle capitali europee e del nordamerica, la società dei consumi è già ben avviata. Grazie a cosa? Grazie al cambiamento di un paradigma fondamentale: prima si produceva quanto serviva: la domanda e l’offerta erano in un certo equilibrio. con il cambio del paradigma delle api si comincia a produrre molto più di quello che viene richiesto.
Ma se l’offerta eccede di molto la domanda, quali sono le conseguenze? Se dispongo di una grandissima quantità di fragole per fare il gelato e ne produco molto di più di quello che vendo di solito, cosa devo fare? Cercherò di aumentare la domanda. Perché tanto di diminuire l’offerta, in un mondo positivista come il nostro, non ci pensa nessuno.
Allora come faccio ad aumentare la domanda? Qual è quello strano e magico meccanismo per cui un istante prima non ho bisogno di niente e un istante dopo ho bisogno di qualcosa? Perché fino a ieri facevo benissimo a meno di quella cosa e oggi mi è diventata indispensabile? Come si creano i bisogni? I bisogni si creano con la pubblicità.
La pubblicità serve a questo: a farti sentire il bisogno di un prodotto o un servizio di cui fino a prima non ne sentivi il bisogno. La pubblicità infatti è indissolubilmente legata a tre concetti chiave: scontentezza, desiderio, necessità. Quanta energia in queste tre parole. Scontentezza, desiderio, necessità.
La pubblicità prima ti rende scontento di non possedere qualcosa e te lo fa desiderare, di solito mostrandoti quanto bene si stia o quante cose si possano fare con quella cosa. Poi, e qui sta la vera magia, ti persuade al punto da convincerti che quella cosa è ormai una necessità. Tu ne hai assolutamente bisogno.
La persuasione è talmente forte che nasce lo shopping, quella sensazione di benessere provocata dal possedere quella determinata cosa. E altre ancora. Lo scrisse Mandeville nei primi del Settecento.
Ma non finisce qui. Una volta che ti ho persuaso che tu hai bisogno di quella cosa, ti ho dato il credito per comprarla, hai assaporato quel fugace momento di felicità del possederla, arriva il trucco finale, ovvero: ti lascio un po’ di tempo per godere del tuo nuovo prodotto e fra poco te ne mostro un altro di nuovo e migliore. E tu lo vorrai. Qui riparte la molla, e così all’infinito. Un meccanismo di aggiunta, di immissione, di novità. Continuiamo a produrre, a connettere, a inserire, a mettere una cosa sopra l’altra. E raramente a togliere, a disconnettersi, ad alleggerire.
La conseguenza è la distrazione. E qui sta un paradosso della pubblicità: continua a comunicare, ad aggiungere contenuto ben sapendo che produce una diminuzione di attenzione. L’unica soluzione, dicono i pubblicitari, sta nel coinvolgimento. Occorre coinvolgere il consumatore. E come lo coinvolgi uno che viene quotidianamente inondato di messaggi? Con le storie.
Gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento vedono una trasformazione radicale dello stile pubblicitario: le aziende cominciano a raccontare storie. è il periodo dei famosi Mad Men di Madison Avenue, New York, e le agenzie di pubblicità sono vere e proprie aziende di centinaia di dipendenti e i pubblicitari vivono nel lusso della Quinta Strada a Manhattan. Creativi e imprenditori come David Ogilvy, che inventa il concetto di brand o marca. Bill Bernbach, da tutti considerato la figura più influente della pubblicità del Ventesimo secolo. Mary Wells Lawrence, che fonda l’agenzia wells rich greene, ed è la prima volta che un’azienda quotata a wall street ha una donna come amministratore delegato.
I Mad Men non vendono il prodotto, vendono l’emozione e i valori che quel prodotto o servizio veicolano. Ci aveva pensato anche Ford, ma dagli anni Sessanta la pubblicità diventa un vero e proprio strumento di comunicazione. La pubblicità si aggancia non solo alla politica e all’attualità, ma sempre di più alle emozioni e soprattutto al sogno. Le aziende diventano marche, le marche sono trattate come persone con caratteristiche psicologiche archetipali e tipiche. Le pubblicità sono storie che come sogni derivano dall’inconscio collettivo, i consumi creano le identità delle persone che diventano infine consumatori.
Attraverso un gesto così semplice come l’acquisto, tu consumatore puoi essere qualcuno. E spesso si tratta di qualcuno cui aneli. Vorresti possedere quella caratteristica psicologica, come fare? Acquisti un prodotto di un brand che veicola quella caratteristica psicologica.
Coca-Cola, la spensieratezza e lo stare bene insieme. Chanel, la passionalità. Mulino Bianco, la famiglia felice. Apple, la creatività. Ikea, l’indipendenza dai genitori. Ogni brand un valore. La tua personalità scandita dai prodotti della marca che decidi di acquistare. Il prodotto perde il suo valore funzionale e acquista un valore simbolico e segnico.
Ma nel tempo la scala di questo fenomeno va fuori controllo perché più pubblicità significa più domanda, e più offerta significa più concorrenza e prezzi sempre più bassi. Vince la standardizzazione e la quantità, e si depaupera il valore artigianale, il pezzo unico, il fatto a mano, la bellezza e l’unicità dell’errore. Sparisce il riuso e il saper riparare. Abbondano i consumi e le novità. Sono gli anni Ottanta, gli anni più positivisti della Storia recente.
È il terreno fertile per l’arrivo della globalizzazione, il motivo per cui, come scrive Freeman, il mondo si è appiattito: ora non ci sono più confini. Non c’è più diversità. La pubblicità può essere replicata in tutto il mondo. La standardizzazione è la regola. Anni Novanta e Duemila. e poi internet. Pubblicità digitale quindi misurabile, i banner, le storie, la multimedialità. Pubblicità ovunque, nello smartphone, su Facebook, sui siti di notizie, sull’app del meteo per non pagarla. Completamente avvolti dalla pubblicità, come se la pubblicità fosse il contenuto e il vero contenuto fosse solo il contorno.
Oggi la pubblicità nel mondo è un business da 560 miliardi di dollari (di cui 190 solo negli Stati Uniti). Lo stesso intero prodotto interno lordo di una nazione come l’Argentina con i suoi 45 milioni di abitanti.
La pubblicità ha anche un lato positivo, è creatività, è uno dei pochi modi oggi in cui puoi vivere quasi solo di creatività. Soprattutto per chi scrive. Forse l’unico. È il modo in cui la creatività e a volte addirittura l’arte viene pagata, ha mercato.
Il problema non è nella pubblicità in sé ma nell’uso che se ne fa oggi. Siamo circondati, accerchiati dai messaggi pubblicitari. Sapete quanti? La maggior parte delle ricerche recenti sono concordi nel dire che un americano riceve mediamente circa quattromila messaggi pubblicitari al giorno. Quattromila messaggi pubblicitari al giorno. Fai che per un europeo la media si dimezzi a duemila. Sono duemila messaggi pubblicitari al giorno. E quanti di questi ti coinvolgono, ti fanno emozionare, ti fanno ridere, piangere, ti insegnano qualcosa, sono memorabili? E quanti sono solo rumore di fondo? Quanti di questi sono, come scriveva George Orwell parlando di pubblicità, “rumore di un bastone in un secchio di rifiuti”?
L’invenzione della pubblicità ha bisogno di una reinvenzione della pubblicità. Serve una ecologia della pubblicità.
Chuck Palahniuk dice bene: per avere in mano la propria vita, si deve controllare la quantità e il tipo di messaggi a cui si è esposti.
Meno pubblicità, meno social network, meno prodotti, meno distrazione. E un po’ più di tempo.
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Radio Bullets On Giugno 29, 2018 at 1:36 pm
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