Muri non ponti, ecco cosa accumuna il mondo

Scritto da in data Agosto 25, 2018

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Ciò che accomuna il mondo intero: i muri. Dall’Ecuador al Cile, gli hermanos chiudono le frontiere e negano aiuto ai rifugiati venezuelani e nicaraguensi. A cura di Stefania Cingia

Improvvisamente ti rendi conto che davvero tutto il mondo è paese. E purtroppo te ne accorgi nel modo peggiore. Oscar Wilde diceva che “nella vita moderna niente è più efficace di un luogo comune: affratella il mondo intero”. Aggiungerei che anche le paure del diverso accomunano e quando sono lasciate libere di galoppare si arriva alla catastrofe (linguistica e non) della società. Parole come migrante, profugo, clandestino, immigrato, accoglienza, guerra, rifugiati, odio, via, a casa loro… risuonano nelle nostre vite tutti i giorni. Le parole sono importanti, costruiscono muri o ponti. Penso che niente come il fenomeno della migrazione che ha bisogno di tanti, tanti, tantissimi ponti (reali, sociali, culturali, personali), riesca a costruire muri. Muri in Italia, muri in Europa, muri in mare, muri in America Latina.

Le crisi che hanno generato lo spostamento massivo e forzato di venezuelani e nicaraguensi ci fa conoscere una triste verità: che l’America Latina è una regione xenofoba e violenta. E come spesso accade, sono i social i portatori di questa verità. Su Twitter e Facebook assisto, dalla mia pagina personale, a una divisione netta tra chi urla #fueravenezolanos a forza di hashtag e post e chi invece ha sul tema un’idea più morbida. Insomma, mi pare di vedere tra gli amici latini la stessa divisione tra gli amici italiani ed europei.

Muri, non ponti.

Pensare che i paesi dell’America, Stati Uniti compresi, sono stati in diverse epoche “creatori” di migranti e che gli stessi devono molto alle migrazioni.

Prendiamo l’Ecuador, per esempio. Vent’anni fa (ma anche meno) tantissimi ecuadoriani lasciavano i propri cari e partivano. Un fratello, una madre, una nipote, un cugino… è facile trovare famiglie che abbiano almeno un parente fuori dal paese. Chi restava pregava davanti alle candele accese che il proprio caro fosse giusto a destinazione. Sicuramente pregavano che non fosse rimasta vittima de La Bestia, il treno della morte in Messico. O che non fosse caduto nelle mani di qualche cartello della droga, o di qualche pandillas, le gang latine.

Le storie di emigrazione sono comuni a tutta l’America Latina: gli sfollati del conflitto armato in Colombia, quelli che sono fuggiti dalle violenze in Perù, chi è scappato dalla dittatura in Cile o in Argentina… esperienze comuni, quasi quotidiane.

E le rimesse che gli emigrati mandano alle proprie famiglie residenti nel paese di origine contribuiscono all’economia e al PIL.

La storia passata e del presente delle famiglie latine, accomunate da famigliari o amici emigrati, sembra cancellarsi davanti alle parole e ai fatti che stanno succedendo adesso in America Latina. Sabato 18 agosto in Costa Rica, organizzazioni contro gli immigrati hanno organizzato una marcia contro la presenza di cittadini nicaraguensi al grido di #fueranicas!. I tweet che incitano all’odio si sprecano.

Nella città di Pacaraima, nello stato di Roraima in Brasile, settimana scorsa un gruppo di brasiliani ha dato fuoco alle tende e ai beni personali dei rifugiati venezuelani che stavano negli spazi pubblici, spingendoli poi verso il confine cantando l’inno brasiliano e urlando “Fuera venezolanos”. Roraima ha chiesto la chiusura temporanea delle frontiere e la governatrice Suely Campos ha dichiarato: “Se mi devo occupare di questi venezuelani, i nostri cittadini brasiliani restano indietro”. Le proteste sono cominciate dopo che un commerciante della zona aveva denunciato di essere stato aggredito e derubato da un gruppo di venezuelani.

Si conta che ogni giorno entrano dalla frontiera 460 persone provenienti dal Venezuela. Quattrocentosessanta. Quattrocentosessanta su un territorio di 224.298 km2 nel solo stato di Roraima, 207 milioni di abitanti in tutto il Brasile.

Muri, non ponti.

Di fronte alle crisi del Venezuela e del Nicaragua, davanti agli hermanos e hermanas che scappano per i disordini, la fame, la crisi economica, la risposta dei paesi limitrofi è la violenza, l’odio, l’insensibilità, l’intolleranza, la xenofobia; qualcuno dice anche la aporofobia, la paura del povero in quanto tale.

Pressioni sul governo, marce contro i migranti, gesti estremi: lo stesso odio sta portando i governi di Ecuador e Perù a prendere delle decisioni incostituzionali, illegali e disumane come la richiesta del passaporto ai migranti venezuelani che passano la frontiera.

Muri, non ponti.

Si può invertire questa tendenza? Guillermo Rovayo, avvocato ecuadoriano per i diritti umani dichiara che: “Questo è il momento per recuperare la speranza e tornare a pensare alla nostra regione da un punto di vista umano ed empatico. Se voi avete la possibilità di aiutare un fratello o una sorella rifugiati, fatelo. Se potete condividere con ognuno di loro non solo un pranzo o dei vestiti, ma anche il tempo, le storie e gli affetti: fatelo. Questo è il momento di attivarsi. La differenza che possiamo fare oggi è grande. O restiamo nel pensiero isolante, xenofobo, riduttore e segregazionista o cominciamo a costruire una regione con forti intrecci di solidarietà e di azione collettiva ”. Credo vivamente che sia una richiesta che possiamo fare anche a noi stessi qui, in Italia. Se tutto il mondo è paese, che lo sia per la parte buona dell’umanità.

Ponti, non muri.

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