Nemici a confronto
Scritto da Giuliano Terenzi in data Maggio 3, 2020
È la partita di pallacanestro più discussa della storia. Il match più controverso che si sia mai disputato ai giochi olimpici in cui si affrontano gli avversari di una vita: lo Yin e lo Yang, il giorno e la notte, il comunismo e il capitalismo insomma è USA contro URSS.
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Monaco 1972
In piena guerra fredda, ai giochi Olimpici di Monaco ’72, le due superpotenze si trovano di fronte sul campo da basket, da sempre territorio fertile per gli USA i quali, da quando la pallacanestro è diventato uno sport olimpico, hanno sempre riportato a casa la medaglia del metallo più pregiato e non hanno mai perso neanche una partita: 63 vittorie 0 sconfitte; insomma a basket si è giocato sempre e solo per il secondo posto. L’URSS, che ha perso le precedenti finali, stavolta, ha messo su una buona squadra, fatta di veterani smaliziati che sono abituati a vincere. Piccola parentesi: all’epoca delle Olimpiadi di Monaco ’72, le selezioni nazionali di basket non possono essere formate da atleti professionisti, un po’ come avviene ancora oggi per il pugilato; quindi i giocatori dell’NBA, la più importante lega di basket del mondo, non possono, per regolamento, essere inclusi nella selezione nazionale. Il roster statunitense, quindi, è composto esclusivamente da giovani promettenti, che vogliono mettersi in mostra per essere selezionati da qualche squadra NBA; oltretutto non si conoscono neanche troppo bene tra loro, avendo giocato solamente 12 partite insieme, per giunta amichevoli. La rappresentativa sovietica, al contrario, è composta da atleti agguerriti e navigati, con esperienza nei campionati professionistici, ed è più di un anno che giocano e si allenano in funzione dell’olimpiade.
Ascolta anche la storia di Shaul Ladany, sopravvissuto all’attentato di Monaco 1972
Verso la finale
Team USA può contare su giocatori del calibro di Spencer Haywood, Dwight Jones e un giovane Doug Collins. Come da pronostico, gli statunitensi prima dominano il girone A, vincendo tutte e sette le partite, e poi, in semifinale, si sbarazzano agevolmente dell’Italia di Marzorati e Meneghin, arrivata seconda nel girone B, quello che l’URSS ha chiuso al primo posto senza difficoltà, vincendo tutte le gare, salvo poi soffrire, ma vincere, in semifinale contro Cuba.
La compagine sovietica, allenata da Vladimir Kondrašin, gioca una pallacanestro piuttosto essenziale che, però, sembra, anzi, non è che sembra, è appositamente costruita per mettere in difficoltà gli statunitensi. La stella dell’URSS è, senza dubbio, Sergej Belov, guardia tiratrice dotata di grande fantasia, cresciuto cestisticamente nel CSKA Mosca, e considerato il miglior talento del basket europeo. Belov ha già vinto 3 campionati sovietici e due coppe dei campioni in cui, entrambe le volte, è stato nominato MVP, ovvero miglior giocatore del torneo. A fargli da spalla c’è l’esperto Vol’nov, ala grande, anche lui in forza al CSKA di Mosca.
Prima di raccontarvi dell’incontro, permettetemi una piccola digressione: la settimana precedente la partita, a Reikiavik si è concluso il mondiale di scacchi che ha visto trionfare lo statunitense Bobby Fischer nel match contro il sovietico Boris Spassky, rompendo così l’egemonia dell’URSS che dal ‘37 aveva sempre vinto. Da un’egemonia caduta ad una che potrebbe cadere oppure confermarsi, permettendo agli Stati Uniti di affermare a gran voce la loro superiorità in quella che possiamo considerare, a tutti gli effetti, una “guerra fredda sportiva”.
La partita più discussa della storia
Il 9 settembre del 1972, alle 23:30, sul parquet della Rudi-Sedlmayer-Halle, si affrontano le rappresentative cestistiche di URSS ed USA.
I sovietici partono con le marce alte, vogliono far capire subito agli Stati Uniti che per loro non sarà una passeggiata: 7-0 dopo pochi minuti di gioco. Dopo un inizio in salita, la squadra americana si ricompatta e inizia a macinare gioco deliziando il pubblico di Monaco con giocate sopraffine ma comunque senza riuscire ad imporre il proprio stile di gioco. I sovietici sono tosti e riescono a mantenere la gara su ritmi bassi, a loro più congeniali, mantenendo invece molto alto il livello di agonismo. Quando suona la sirena dell’intervallo il tabellone recita 26-21 in favore dell’URSS. Nel secondo tempo gli Stati Uniti rientrano più motivati che mai ma la sfortuna sembra accanirsi sulla squadra di coach Iba che, prima perde per infortunio Brewer e poi deve fare a meno anche di Dwight Jones il quale, a dodici minuti dal termine della gara, risponde in modo eccessivo ai contatti e alle provocazioni sovietiche e viene quindi espulso, giustamente, dal fischietto brasiliano Righetto. Qualsiasi squadra andrebbe definitivamente al tappeto ma non gli Stati Uniti che cominciano ad alzare i ritmi di gioco con una pressione a tutto campo che costringe Belov e compagni a più di qualche palla persa, convertita in punti dagli statunitensi che, dopo essere stati sotto tutta la partita, rimontano 9 punti in un amen: 49-48 e palla in mano ai sovietici quando mancano 40 secondi alla fine della gara. Ora vanno fatte due considerazioni importanti: all’epoca, oltre a non essere ancora presente il tiro da tre punti, entrato in vigore nelle competizioni internazionali soltanto nell’84, rispetto ai 24 secondi di oggi, una squadra poteva tenere il pallone per massimo 30 secondi. Quindi con 40 secondi da giocare e senza il tiro da tre punti, ai sovietici basterebbe segnare per mettere una seria ipoteca sulla vittoria ma la squadra di coach Kondrašin pensa più a far correre il cronometro che a cercare il canestro e questo permette all’americano Collins di rubare il pallone; è lo stesso Collins a condurre la transizione e a tentare la penetrazione che porta al fallo di Belov il quale, nel tentativo di stopparlo, colpisce l’avversario sotto gli occhi del primo arbitro. Due tiri liberi a tre secondi dalla fine della gara.
Un finale concitato
La palla che l’arbitro consegna a Collins dev’essere stata un autentico mattone; d’altronde se la linea del tiro libero viene chiamata “linea della carità”, ci sarà pure un motivo. Collins, formatosi all’università dell’Illinois, però non si lascia condizionare dall’importanza del momento e mantiene la concentrazione: 2 su 2 e Stati Uniti avanti 50-49, per la prima volta nella partita, quando mancano tre secondi alla fine della partita.
I sovietici raccolgono immediatamente il pallone e fanno per eseguire la rimessa, il tempo sta per scadere e la palla ha appena superato la metà campo quando l’arbitro fischia per interrompere il gioco. Vuole concedere un time-out ai sovietici. In campo gli statunitensi sono increduli e subito si forma un capannello di giocatori e tecnici intorno all’arbitro. Teoricamente non avrebbero potuto concedere il minuto di sospensione, fatto sta che il gioco è stato ormai interrotto. Gli arbitri ci mettono qualche secondo a placare gli animi e alla fine non concedono il time-out alla squadra di coach Kondrašin che comunque ha approfittato dei secondi di scompiglio per dare indicazioni ai suoi. Si riparte con una rimessa da fondo campo per i sovietici che non riescono a far arrivare la palla vicino a canestro. Suona la sirena. È finita. Gli Stati Uniti hanno vinto ancora: un altro oro olimpico che dimostra la loro superiorità nel basket.
No, no, no. Non è così che andò quel giorno a Monaco. E non perché quello che vi ho appena raccontato non corrisponda a verità ma perché quella che sembrava la fine, con tanto di sirena che suona, invasione di campo e festeggiamenti vari non è effettivamente la fine.
Fa la sua comparsa in questa storia un personaggio cruciale: il britannico William Jones, il Segretario Generale della FIBA, la federazione internazionale di pallacanestro, il quale scende dalla tribuna e si avvicina al tavolo degli ufficiali di campo insieme agli arbitri. Jones chiede, anzi, forse in questo caso il verbo più corretto sarebbe pretende, che venga ripetuta per la terza volta la rimessa visto che quella appena fatta è, a suo dire, irregolare visto che sul cronometro, anziché esserci tre secondi da giocare, ovvero il tempo che mancava dopo che Collins aveva realizzato il secondo tiro libero, ce n’era solamente uno, ovvero il tempo che mancava dopo il fischio degli arbitri che volevano accordare il time-out ai sovietici.
A nulla valgono le proteste degli Stati Uniti: dopo due minuti passati a festeggiare si torna in campo. Il cronometro viene riportato a 3 secondi, ah, a proposito, il cronometrista di quella partita è un certo Joseph Blatter, si, quel Blatter che diventerà presidente della FIFA nel ’98 prima di dimettersi dopo lo scandalo del 2015. Non divaghiamo e torniamo sul parquet: il terzo tentativo a disposizione dei rossi di Kondrašin è quello buono: passaggio baseball di Edeško verso Aleksandr Belov che raccoglie il pallone andando più in alto di tutti, fa una finta e appoggia indisturbato al tabellone il pallone che vale un incredibile, insperato e rocambolesco oro olimpico. Dopo 36 anni di dominio incontrastato, dopo i tre secondi più lunghi della storia del basket, gli USA sono stati battuti.
Il dissenso degli USA
Gli Stati Uniti, per ovvie e condivisibili ragioni, non ci stanno: è proprio coach Iba che, nella notte di Monaco, va a consegnare il ricorso alle autorità competenti. La giuria, composta da Cuba, Italia, Porto Rico, Romania e Ungheria rigetta la richiesta: Italia e Porto Rico sono le uniche due a votare a favore del ricorso statunitense e, a voler pensar male, sono anche le uniche due a non essere “filosovietiche” tant’è che negli USA presero il verdetto come una presa di posizione di quella che definirono “lobby politica del blocco socialista all’interno della FIBA”. Oltre al danno anche la beffa per coach Iba che, tornando al villaggio olimpico è vittima del furto del suo portafogli in cui c’erano quasi quattrocento dollari. I giocatori americani non si presentano neanche alla premiazione e non ritirano le medaglie che ancora oggi sono in un caveau di una banca di Losanna, è un unicum nella storia delle olimpiadi. Non molto tempo fa, a distanza di più di cinquant’anni da quella partita, negli Stati Uniti si è riaperta la questione ed è stato deciso, comunque, di non ritirare le medaglie. Uno dei giocatori della selezione americana, Kenny Davis, ha dichiarato di aver scritto nel suo testamento che nessuno dei suoi eredi potrà mai ritirare la medaglia dopo la sua morte. Vi lascio con una frase di Doug Collins, il giocatore che segnò i tiri liberi che illusero gli Stati Uniti, e che diventò un grandissimo allenatore NBA:
“Ho avuto una vita felice. Ma se Dio mi concedesse di tornare indietro, per una volta, non avrei dubbi: chiederei di poter rigiocare una partita. Quella.”
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