Palestina: I partigiani della terra
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 8, 2024
Se gli ulivi conoscessero le mani che li hanno piantati, il loro olio diverrebbe lacrime.
Mahmoud Darwish, poeta palestinese (1941 -2008)
SAWIYA (Cisgiordania) – La stagione della raccolta delle olive – da ottobre a metà novembre – è il momento più bello per gli agricoltori. Le famiglie allargate si riuniscono, si trascorrono le giornate insieme, mentre gli uomini lavorano, le donne preparano da mangiare e i bambini giocano e scorrazzano tra le piante. Quello che raccolgono servirà per produrre quell’olio che permetterà di vivere il resto dell’anno.
Il 27 ottobre scorso Bilal Saleh, 40 anni cercava di essere di buon umore in vista di quella che sarebbe stata una faticaccia, ma che aveva sempre avuto il sapore di una festa, vero era, che le notizie che arrivavano da Gaza, a 20 giorni dall’inizio dei bombardamenti israeliani sulla Striscia, preoccupava tutti e li teneva incollati al televisore.
Ma le olive non aspettano e bisognava andare. Fu un venerdì tranquillo, Bilal era un uomo gentile, un gran lavoratore, una persona di quelle che amava trascorrere le giornate tra gli ulivi e sentire l’odore della terra che lo circondava. Era di suo padre quella terra, e prima ancora di suo nonno, e prima ancora del padre del nonno. E gli ulivi per lui erano come le persone che sono cresciute insieme lui, li ha trovati quando è arrivato al mondo e li avrebbe visti l’ultimo giorno della sua vita.
Il giorno dopo sono tornati, c’erano tutti, la moglie, i bambini, il fratello, il cognato con i bambini, una gran bella compagnia che aveva voglia di stare insieme. Era anche sabato, giorno di festa per gli ebrei, quindi avrebbe dovuto essere anche più tranquillo. Invece, è bastato un attimo perché una giornata normale, si trasformasse in una tragedia. Sono stati i bambini a vederli arrivare per primi.
Un gruppo di circa 80 uomini, armati di armi automatiche, a bordo di macchine hanno invaso il terreno e si sono diretti verso la famiglia di Bilal che ha cercato subito di raccogliere le proprie cose, prima di tutto i bambini e correre verso le macchine. Bilal si era dimenticato il telefono dove avevano organizzato il picnic e ha detto alla moglie che sarebbe tornato a prenderlo e poi di corsa da lei.
“Sono state le ultime parole che mi ha detto”, ci racconta Ikhlas, 34 anni, moglie di Bilal e madre di 4 figli. Gli occhi le si riempiono di lacrime, mentre stringe uno dei bambini. Poco dopo hanno sentito degli spari e hanno tutti pensato che i coloni israeliani avessero sparato in aria come facevano spesso per spaventare e molestare gli agricoltori.
Bilal invece era a terra, con una grande macchia rossa in mezzo al petto. “Era morto. Non c’era nulla che potessimo fare”, incalza Hazam, il genero di Bilal che trasuda rabbia e dolore.
Siete andati alla polizia? “Alla polizia israeliana? Certo che siamo andati, ma solo dopo che la storia è uscita sui giornali, noi siamo palestinesi e per noi la polizia israeliana non fa nulla, anzi peggio, i coloni fanno tutto sotto gli occhi dell’esercito israeliano che li protegge. E se uno di noi insiste, ti arrestano e dici che hai tirato delle pietre. Per noi non c’è giustizia”, mormora Hazam.
La maggior parte dei villaggi, ma soprattutto delle terre dei coltivatori palestinesi fanno parte della cosiddetta area C, che secondo gli accordi di Oslo sono sotto la tutela militare e amministrativa israeliana. Quindi l’Autorità palestinese non ha alcun potere su decine di migliaia di persone e soprattutto sulle loro terre.
L’obiettivo dei vari governi israeliani, ma soprattutto degli ultimi formati dal premier israeliano Benyamin Netanyahu, è stato quello di rosicare terra, pezzo per pezzo e annetterlo agli insediamenti dove oggi vivono circa 700 mila coloni la maggior parte armati e con chiare intenzioni di mettere le mani su ogni grumo di terra che riescono a strappare ai contadini e gli allevatori che non hanno nessun reale potere per contrastarli, se non quello di continuare a proteggere gli appezzamenti con tutta la pazienza che di cui sono capaci.
I coloni si muovono insieme, hanno gruppi su whatsapp, prima del 7 ottobre si portavano dietro bastoni e spray al peperoncino, dopo oltre ad aver moltiplicato gli attacchi, girano pesantemente armati. Di fatto il governo di estrema destra, dove uno dei ministri, quello delle finanze è un colono, hanno sdoganato la violenza e quello che il cuore della questione palestinese, la terra, è diventata un’operazione di espropriazione su larga scala. Mentre a Gaza si bombarda, in Cisgiordania si ruba.
I coloni che vivono negli insediamenti, vere e proprie città fortificate e costruite in barba delle leggi internazionali, inquinano le acque scaricando le loro fogne nella terra palestinese, danno fuoco ad ulivi centenari, picchiano e a volte uccidono, i contadini. Rubano le pecore agli allevatori. Fanno tutto quello in loro potere per spaventarli e farli andare via.
“Ero con un poliziotto quando è passato un colono e mi ha sputato in faccia – racconta Ikhlas – e quando gli ho chiesto perché lo permetteva, ha alzato le spalle”. Accanto a lei siede il piccolo Musa, ha 8 anni e non si capacita di quello che è successo. “Ogni giorno corre ai piedi del nostro villaggio e aspetta che suo padre torni e nessuno osa dirgli che non accadrà mai più”.
Nel villaggio di Sinjel, raggiunto dopo ore di viuzze perché bisogna evitare posti di blocco ed entrate serrate dai soldati israeliani, Mrawe Abdudalak, 70 anni, ci mostra il braccio che è stato rotto dai coloni dopo averlo picchiato brutalmente. 40 coloni hanno invaso la sua terra, gli hanno rubato l’attrezzatura e lo hanno picchiato mentre l’esercito stava a guardare.
“Non è stata la prima volta e non sarà ultima, ma nessuno può mandarci via dalla terra dove siamo nati. Per me è come una figlia. Non posso lasciarla. Voi abbandonereste un vostro figlio?”. Mrawe ha rughe profonde, le mani inspessite dal lavoro, un cappellino pigiato sulla testa e lo sguardo più dolce del mondo.
“Ti dico un segreto, io ballo con i miei ulivi. Ogni giorno vado a controllare la mia terra e parlo con le mie piante. Mia madre mi ha partorito sotto uno di quegli alberi ed è qui che ho vissuto ed è qui che morirò”. Non sarà, dice, un giovane venuto da chissà quale parte del mondo a toglierli la cosa più importante della sua vita. Delle loro vite.
Perché la questione palestinese si chiama terra. La terra che coltivano, che fanno produrre, che amano. Che mantiene intere famiglie da generazioni. “Guardaci amica mia, abbiamo trascorso tutta la vita attraverso difficoltà, umiliazioni, ci hanno sparato, picchiato, minacciato, ma siamo sempre qua. Come mi puoi chiedere di vivere in pace con qualcuno che mi vuole portare via la cosa più importante che ho, che uccide la mia famiglia, i miei amici. Ogni volta che mi fa male il braccio penso a quello che me l’ha rotto, e penso che dio voglia che non dimentichi”.
Rubhi Jafri, 67, ha sempre vissuto nella terra che coltiva, così come suo padre e suo nonno. “Gli attacchi dei coloni ci sono sempre stati, già dal 2000, hanno provato di tutto per prendermi la terra, botte, minacce, a loro è tutto permesso. Dal 7 ottobre la situazione è peggiorata, gli attacchi sono aumentati in modo esponenziale, e dalle minacce sono passati ai mitra. Ma questa è la mia terra, per quale motivo dovrei andarmene?”.
Quest’anno la raccolta delle olive era nel pieno della guerra a Gaza. Mentre tutti gli occhi erano puntati sul massacro della Striscia, gli agricoltori sono stati così pesantemente attaccati che il 50 per cento della produzione è andata perduta. Alcuni non hanno raccolto niente, perdendo l’unica entrata che possiede la famiglia.
“Io dal 7 ottobre non posso entrare nelle mie terre”, ci dice Muntasser El Melky, 50 anni che ci spalanca le porte di casa sua nel villaggio di Kufar Al Malik. Lui ha terra e animali, ma i posti di blocco israeliani hanno isolato la sua terra e non sa cosa troverà quando potrà tornarci. “Mi restano 65 pecore perché le altre ho dovuto venderle perché non potevo sfamarle, e non potevo sfamarle perché non mi permettono di fare il mio lavoro sulla mia terra”, ci spiega Muntasser che ha 6 figli. Può andare avanti ancora un anno, senza raccolto, poi non sa.
“L’unica soluzione possibile è che i coloni e l’esercito se ne vadano e che si possa vivere in pace come qualsiasi altro contadino al mondo. Vorrei essere solo una persona normale, mentre qui niente lo. È possibile che possa essere ucciso solo perché voglio coltivare la mia terra? Ma quale nazione al mondo lo permette? Fanno passare noi per criminali, quando sono loro quelli che con questa terra non c’entrano niente. Non voglio soldi dalla comunità internazionale, ho bisogno di protezione e che nessuno mi aggredisca”.
All’ultima famiglia che incontriamo vicino a Taibe, è andata nel modo peggiore possibile. Vivono l’incubo di ogni contadino della Palestina. Ci hanno chiesto di non fare i loro nomi per motivi di sicurezza e perché hanno paura che i coloni possano attaccarli, è evidente che sono sotto shock, ma le condizioni in cui sono costretti a vivere non gli aiuta.
Il 26 ottobre scorso, l’edificio in cui abitava la loro famiglia allargata, circa 40 persone tra bambini e genitori, fratelli e sorelle è stata attaccata dai coloni. 4 degli uomini di famiglia sono stati arrestati dall’esercito e agli altri, è stato detto di andare via. Senza niente. Con i figli e con le poche pecore che sono riusciti a portarsi dietro, che in realtà sono scappate con loro.
Ora un altro proprietario terriero gli ha dato un pezzo di terra rocciosa per sei mesi. Tre sono passati. Loro hanno un piccolo container, una tenda dove dormono tutti insieme, e finora il clima è stato clemente, ma tra un paio di giorni le temperature caleranno e comincerà a piovere. Non hanno elettricità, hanno un bidone per l’acqua, la gente gli ha regalato qualche sedia, materasso, vestiti. Ma i bambini che ora sono nel pieno delle vacanze invernali, settimana prossima non potranno tornare a scuola.
“Non so che ne sarà di noi”, dice il padre, 30 anni, alzando gli occhi al cielo. “Sono tornato a casa, hanno distrutto tutto, la tengono sotto controllo. Erano più di 50 persone armate, eravamo già stati attaccati, ma mai così.
E appena abbiamo tentato di difenderci, quattro di noi sono stati arrestati”, e per essere rilasciati devono pagare una multa di 6000 shekel, circa 1600 dollari. Suo padre e il fratello sono rimasti dentro un mese perché non avevano i soldi.
“Un’altra volta durante un altro attacco ci hanno rubato 28 pecore, quando abbiamo chiamato la polizia, ci hanno detto che non c’era modo di distinguere quale fossero le nostre da quelle dei coloni e se insistevamo avrebbero detto che lanciavamo pietre e ci avrebbero arrestato”.
La moglie ci guarda sconsolata. “Avevamo una casa e ora non abbiamo neanche un bagno. Non siamo abituati a vivere così, i bambini hanno bisogno della loro casa e delle loro cose, mi chiedono perché non torniamo a casa, ma come possiamo spiegare loro tutto questo?”.
Abbas Melhem è il direttore del sindacato degli agricoltori, 25 mila iscritti, la più grande delle unioni in una nazione dove vivono 170 mila tra agricoltori e allevatori. È un signore accogliente, schietto, che ogni giorno con il suo staff cerca di dare un senso alle cose, in una terra dove niente sembra averlo, da una parte le leggi palestinesi in chi vive nelle aeree A, sotto la tutela dell’autorità palestinese, e dove quindi si cerca di cambiare, emendare o creare nuove leggi a favore dei loro assistiti.
Altra parte del loro lavoro è aiutare le persone sotto attacco, fornire semi per chi perde il raccolto, macchinari, o come nel caso della famiglia cacciata anche da mangiare se necessario. Una terza parte è riservata a far sapere al resto del mondo che cosa accade. “Se la gente non sa, non può aiutarci. Invece c’è bisogno di fare tanta pressione sui vostri governi perché lo facciano su Israele”.
Tutto questo conflitto gira intorno alla terra e i contadini sono icone della causa palestinese. Sono i guardiani della terra. “È difficile spiegare il nostro rapporto con la terra, è fatto di connessione e dignità, nessuno di noi prenderebbe un qualsiasi pezzo di terra da qualsiasi altra parte del mondo. Ovunque siamo, questa è la nostra terra ed è qui che si torna sempre. Le piante hanno bisogno del nostro respiro per vivere”.
Forse per capirla, bisogna vivere questa terra, bisogna mangiare il pane, il formaggio e le olive, assaggiare l’olio che ti danno i contadini con le loro mani rugose segnate dal lavoro e da una vita difficile.
Forse bisogna affondare nelle loro storie, per capire perché questa gente si sacrifica tanto per un pezzo di terra, a volte rocciosa, non sempre perfetta, e, soprattutto martoriata.
È quando ci si lascia accogliere dalla forza semplice, dalla pazienza genuina e dalla rigogliosa determinazione di queste persone che diventa tutto chiaro: non si sacrificano, non subiscono attacchi, non si lasciano picchiare perché aspirano a morire, o a vivere una vita malsana, è esattamente l’opposto, se si arrendessero anche solo per un minuto, perderebbero la dignità e il rispetto della loro terra e di se stessi. E questo nessun uomo o donna onesta che sia, può permetterselo.
E così non gli resta che ballare con gli ulivi e attendere tempi migliori. Loro in ogni caso, saranno sempre qui.
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Le foto di Bilal e dei coloni son per gentile concessione della famiglia Saleh, tutte le altre di Barbara Schiavulli. La foto di copertina: Foto di Kamil Szumotalski su Unsplash
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