Pietra che canta

Scritto da in data Dicembre 12, 2019

 

I primi giorni in Brasile sono densi tra turismo, geopolitica, ambientalismo e incontri. Sono in una zona delicata come tutte le zone di confine: Paraguay, Argentina e Brasile. Tre Paesi che condividono parti di fiume, dighe, commerci illegali, cascate e la loro bellezza. Qui incontro Viviene – una donna di 28 anni che tenta di andarsene da San Paolo cercando di entrare nell’azienda della diga di Itaipù – Luiz, il gestore dell’ostello e un tassista che supplisce alla mancanza di bus e mi racconta quello che sa.

L’arrivo a Foz do Iguaçu

Le paure si dissolvono negli incontri e più ti senti consapevole e sicuro, meglio vivi il viaggio. È come cambiare mente, visuale, prospettiva. Comprendi che sono proprio il momento che vivi e l’ignoto che si fa noto a darti forza. La forza è adrenalina, la forza ti emoziona, ti riempie e ti fa apprezzare ogni cosa. Sono felice quando vedo, capisco, faccio e trovo ogni passo semplice e naturale. Certo, qui è tutto turistico, nella mia prima tappa a Foz do Iguaçu, ma ciò non toglie che il divenire e il concretizzarsi mi piacciano molto.
Sono arrivata il 14 agosto, dopo un volo preso il giorno precedente: ero euforica, per nulla stanca dal viaggio e dai due cambi, uno in Europa e uno a San Paolo. Sono felice quando trovo dove dormire, improvvisando, a intuito, e lo sono ancora di più se è una camerata a prezzo ridicolo, semplice, essenziale, dall’atmosfera hippie. Luiz, l’uomo alla reception, è amichevole e sopporta le mie domande continue su cosa vedere e come farlo. Mi ha chiesto dove fossero i miei bagagli: un complimento, quando con orgoglio gli mostro i miei 8,5 chili di essenzialità.
Complice il fuso orario – ma anche il concetto di viaggio – il tempo si dilata, si amplifica e si fa immenso. Ci sta ogni cosa perché sono tesa al momento presente, al passo e alla singola azione puntuale e contingente. Semplici gesti scevri da preoccupazioni lavorative e quotidiane. La mia mente e il mio corpo hanno sentito subito la differenza: entusiasmo, decisione e pulizia mentale. Corpo che risponde. Non sono mai sola, ma viaggiare sola mi dà così tanto di più da farmi mancare quasi respiro e parole. Accanto a me, in aereo, un argentino. Stava tornando a casa dopo un anno in Germania per studiare ingegneria. Felice della sua esperienza, portava a casa anche il tedesco appreso.

Viviene e la diga

Nella stanza c’è una brasiliana di San Paolo, Viviane, mi rivolge subito la parola, proprio come quella signora sull’autobus – tutta cordialità e preoccupazione da madre – che mi ha detto di stare attenta agli uomini. Viviane è giovane e non mi rivolge simili frasi compite e attente. Domenica avrà un test alla diga Itaipù (pietra che canta) per lavorare nel settore della comunicazione. Non solo è una grande impresa brasiliana, una delle più importanti anche perché bi-nazionale – con Paraguay –, ma si trova anche in una cittadina tranquilla e lontana dal caos della metropoli di Viviane. Il suo volto si spegne per un istante, il tempo sufficiente a farsi carico di una qualità di vita che non le appartiene.
Il mio pomeriggio trascorre lento e pigro alle cascate dal lato brasiliano, dopo essermi congedata da Viviane, lasciandomi alle spalle l’ostello appena trovato. La potenza di quel luogo è stata l’accoglienza di cui avevo bisogno: mi riappacifica al tutto. La voglia di urlare è immensa, quando arrivo sotto le cascate, bagnata fradicia e con il frastuono dell’acqua che cade.
Mentre scrivo, una lieve salsa in sottofondo mi strappa un sorriso. Viviane chiacchiera ancora, e mi fa piacere. Ha 28 anni, è giornalista e ha un cugino che si occupa di viaggi e avventure. Lei ha voglia di lavorare, di immergersi nel mondo. Mi racconta che Itaipù è la seconda centrale idroelettrica più grande al mondo, superata solo da quella cinese. Fornisce energia per il 90% al Paraguay e per il 20% al Brasile. I lavori – dice come una scolaretta, sapendo di avere l’esame per il posto di comunicatrice tra due giorni – sono iniziati nel ’74 accompagnati da numerose morti bianche. Osteggiata per aver distrutto le cascate del Paraguay e modificato il corso del Paranà, nonché flora, fauna e abitanti, oggi l’azienda ha una politica di comunicazione che punta sull’impatto dell’energia pulita e di ciò che c’era prima: le coltivazioni indiscriminate. Un’altra opera in progetto – sembra – ma più piccola, verrà costruita senza modificare il corso del fiume.

Una domenica e quattro tappe

Due giorni dopo, quindi dopo aver visto il lato brasiliano e quello argentino delle cascate, quella diga sarà una delle mie quattro tappe di una pigra domenica in attesa di ripartire per Cuiabà, insieme alla moschea più grande per numero di abitanti, al tempio buddhista cinese che ha diciannove anni e sul quale non si sa granché e infine al punto dei tre confini dove Paraguay, Argentina e Brasile si toccano: il fiume Paranà – confine naturale tra Brasile e Paraguay – incontra il fiume Iguaçu.
Alla diga ci arrivo con un taxi, dopo aver fallito nel tentativo di prendere un autobus. Prima, però arrivo a piedi alla moschea – chiusa – che riesco a fotografare grazie a una guardia gentile. Il tassista mi porta prima al tempio buddhista e poi a Itaipù, dove visito un meraviglioso ecomuseo caratterizzato da una gestione impeccabile e da un’ottima comunicazione: la mostra è curata così bene che viene voglia di saperne di più. Non è solo una diga, non è solo la più grande al mondo – probabilmente dopo quella cinese – ma è un vero e proprio trattato geopolitico che unisce due fiumi appartenenti a due Paesi dell’America del Sud. Ogni elemento è – ovviamente – di propaganda e rafforza la storia raccontata da Viviane: l’azienda ha bisogno di ripulirsi dalle morti bianche e dalle accuse di deturpare ambiente ed ecosistemi. Secondo loro, l’impatto ambientale non c’è, anzi: hanno piantato alberi creando un corridoio per gli animali da lì fino al Pantanal, hanno creato un canale alternativo per la migrazione dei pesci e salvato il territorio da un pericolo ben maggiore e più reale: le coltivazioni estensive di soia per le quali i terreni venivano disboscati e deforestati in modo selvaggio. Ora le coltivazioni devono seguire uno schema ben preciso. Diga e turismo, qui, hanno dato vita alla città: una città brutta, senza carattere ma ricca di risorse e quindi di possibilità. Solo all’esame di ammissione al quale ha partecipato Viviane erano in dieci mila candidati.

Il tempio buddhista

Dopo la moschea a piedi e prima della diga, fermo un tassista, nonostante tutta la comunità si fosse allertata per aiutarmi a prendere un bus. Mi parla in portoghese e spagnolo: mi racconta che qualche arabo traffica in Paraguay per evitare le imposte. È uno Stato famoso per la tecnologia a basso prezzo: il ponte dell’Amistad collega proprio il centro dello shopping paraguaiano a Foz do Iguaçu. Il punto dei tre confini è una zona semplice, dove in realtà non c’è “niente” se non un simbolo, confini naturali e la solita forza che si sprigiona da questi luoghi. Mi ricorda Kanyakumari, in India, il punto più a sud, dove tre oceani si incontrano. Il tempio buddhista – seconda tappa dopo la moschea – è esattamente come me lo aspetto: kitsch, quasi finto, molto diverso da quelli asiatici. È un vero tempio buddhista e lo si comprende da una sola caratteristica: la quiete. L’alone di rarefazione al suo interno, la sospensione del tempo. Le piante sembrano quasi avere la capacità di annullare rumori molesti dell’esterno, caos e confusione. Dall’alto voci concordi ripetono un mantra che i turisti trovano scritto prima dell’ingresso al tempietto. Mi gusto l’atmosfera e leggo con gratitudine le frasi dei maestri riportate sui muri. Non è possibile salire al piano superiore, riservato alla funzione, ma avrei potuto partecipare alla preghiera dall’inizio alla fine se avessi prenotato. Prendo un libretto di meditazione e mi dirigo all’uscita: il tassista mi dice che si conoscono poche cose su quel tempio e mi ripete che quella zona è davvero pericolosa. Favelas, dice. Dice solo quello: come se fosse una sorta di parola magica o in codice. Non serve altro: basta dire favelas e il turista capisce. Inizio quindi a osservare con più attenzione e vedo un po’ di degrado e povertà, una zona rude, senza molta fantasia: polvere, case piccole e basse, qualche persona che si trascina qui e là. In una via laterale intravedo un manipolo di gente riunito: non riesco a scoprire né a chiedere di cosa si tratta. Al ritorno vedo un’auto ferma, con il cofano aperto. Uomini, donne e bambini sono lì fuori, mezzi nudi a giocare: un uomo cerca di arrampicarsi su un albero, una donna tiene in braccio il più piccolo dei bambini. In città, mentre procedo a piedi, mi passa accanto anche una coppia incontrata al punto dei tre confini: si muovono lentamente nella loro auto che sa di lamiera e calore. Al punto dei tre confini ho incontrato una coppia italiana in visita a parenti in un piccolo paesino dell’entroterra: il vero Brasile, mi dicono. Mi incammino veloce verso l’ostello, dove ho voglia di tornare per vedere Viviane e Luiz: quella sera andremo tutti e tre al supermercato insieme, per aiutare Luiz con la spesa per l’ostello. Io ceno da sola in una churrascheria turistica, poi li raggiungo per un mate, la caipirinha e qualche chiacchiera. Scopro il cuore di pollo: buonissimo.
Viviane inizia a parlarmi di San Paolo, della mancanza di acqua, che potrebbe essere risolta grazie all’acquifero Guaranì, il bacino d’acqua più grande al mondo e che si trova proprio sotto Foz do Iguaçu, dell’istruzione pessima, della siccità, della gestione politica. Il livello culturale è basso, l’educazione dei bambini sottovalutata e così si sacrifica la scuola, tenendo gli insegnanti per mesi senza stipendio. Amarezza e passione si scontrano sulle sue labbra, anche quando mi parla della corruzione, delle false promesse dei mondiali e dell’aumento delle temperature.
La serata scorre più leggera verso la salsa, il sertanejo e la cucina brasiliana: è felice di avermi incontrato perché all’ostello si sentiva sola. Mi indica la tv posta in alto. Il bianco è ovunque, reso più vivido da luci forti al neon. Quella è una trasmissione spazzatura, mi dice, e le sorrido pensando alle nostre. Mi dice che l’esame consisteva in traduzioni di documenti e stesura di mail. Alza le spalle, ci spera.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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