Ritorno a Kabul

Scritto da in data Settembre 16, 2021

L’impatto è stato forte. Quando ci si guarda le spalle per 20 anni, quando per il mondo e chi fa la guerra loro sono il nemico, vedere la bandiera dei talebani che sventola sull’aeroporto di Kabul, è una sensazione forte. Via il nero, il verde e il rosso, via le guardie sbarbate, via le donne in divisa o con i veli colorati. C’è molto più silenzio rispetto a due mesi fa. È come se qualcosa di spesso fosse calato sulla città. Loro sono dappertutto. Agli incroci, per le strade, sui mezzi militari, ai posti di blocco. Evitano gli sguardi delle donne, ma controllano che i veli siano bene in testa.

L’entrata nel paese che ha smesso di far volare gli aquiloni o di ascoltare la musica, o di fare sport se non sei un uomo, avviene dall’Uzbekistan, un paese all’apparenza ordinato, pulito, in netto contrasto con quello che si trova dall’altra parte quando si attraversa il Ponte dell’Amicizia, lo stesso che vide centinaia di mezzi che, in senso contrario, rappresentavano la ritirata dei russi alla fine degli anni Ottanta. Il caldo è intenso, sotto l’ombra o il sole che sia. Ma anche se oltre il confine afghano c’è confusione, di fronte al cancello c’è un caffè dove il proprietario fa segno di entrare per ripararsi del caldo, accende la ventola e dice di sedersi fino a quando non arriva la macchina che andrà a Mazar Sharif, dove aspetta un altro aereo per Kabul. L’ospitalità afghana non è cambiata, pronti a farsi in quattro quando c’è bisogno di aiutare qualcuno.

Nel paesino di confine ci sono donne solo con i burqa che fanno la spesa o camminano spedite verso casa. A Mazar e a Kabul sono meno, non sono più abituate alla lunga copertura integrale azzurra, ma sono aumentati i niqab neri che sembrano cuocere sotto il sole. Il lungo viale dell’aeroporto, ormai tristemente conosciuto, una volta costeggiato dalle bandiere del vecchio Afghanistan, che tanto vecchio poi non era, sono state tutte sostituite con quella bianca con la scritta nera dell’Emirato talebano. Qualcuno deve aver pensato e progettato di sostituirle tutte, sventolano come schiaffi sulla vita della gente, mentre sono spariti anche i murales che rallegravano per quanto possibile i muri di protezione, ora ci sono scene di militari, scritte religiose, sempre le enormi bandiere bianche che non segnano la resa ma la presa di un potere che hanno cercato per 20 anni. Non ci sono più i ritratti di George Floyd, i murales che parlano di pace degli street artist, molti dei quali hanno già lasciato il paese.

Fa impressione vedere i talebani che siedono coperti di armi e in divisa come prima di loro erano quelli dell’esercito afghano e prima ancora i loro addestratori americani: stessi mezzi, stessi posti di blocco, stessi controlli. Fa strano vederli mettere timbri sul passaporto con quella barba nera che sembra quasi tinta, gli occhi non convinti di chi sembra voler essere in qualsiasi altro posto pur di non stare in una stanzetta a segnare nome per nome di chi attraversa il confine.

Borbottano alla vista di una donna che gli parla, voltano lo sguardo. Come hanno sempre fatto. Niente di nuovo anche se tutto lo è. Sembrano pietre davanti a un sorriso stanco. Le mascherine che a giugno si vedevano qua e là, soprattutto sulle bocche delle forze dell’ordine, sono completamente sparite.
Sono ancora poche le ore trascorse a Kabul, eppure sembra già tutto così diverso, con questa presenza ingombrante che controlla e schiaccia una calma apparente.

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Opinioni dei Lettori
  1. Rosa   On   Settembre 17, 2021 at 6:23 pm

    Buonasera, ho scoperto Radiobullets da poco e mi sono subito appassionata! Complimenti per il coraggio e la professionalità con la quale racconta questa situazione così complessa.
    Rosa

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