Sentieri, veli da sposa e il centro dell’America Latina

Scritto da in data Novembre 7, 2019

 

Altri incontri: più difficili, più facili. Ogni relazione porta con sé qualcosa del luogo che andrò a visitare. Sono a Cuiabà, nel Mato Grosso, grazie a Gabriela, un’amica conosciuta a Londra. Non avrei mai trovato questa città tra i consigli di viaggio. Mi ha trovato una guida che non parla né inglese né spagnolo, per visitare la Chapada: un territorio sconfinato, fatto di formazioni rocciose modellate dall’oceano, dai venti, dalle piogge. 8 milioni di anni, mi dice la guida, per avere la struttura di oggi. Al belvedere rimango senza parole: un costone di roccia sulla valle, le rocce come canyon, la strada minuscola sotto di noi, il pulviscolo, l’aria secca e rarefatta. Sono insignificante e sono il re del mondo, al centro dell’America Latina.

João

Scendo da un autobus moderno con l’aria condizionata al massimo. Alla fermata ero stata accompagnata da Raphael, il compagno di Gabriela, un’amica brasiliana di Cuiabà conosciuta a Londra un paio di anni prima. Non mi lasciavano quasi mai da sola, creando intorno a me una nube di protezione e soffocamento. Cullata da questo contesto, approfitto per distendere i muscoli, riposare mente e corpo: il Brasile è semplice, per certi versi e alcuni viaggi dopo; in quel momento, è la meta più ostica di tutte.
Il bus mi porta direttamente in un punto in cui mi aspetta una guida e – in teoria – due giovani europei di 20 anni per visitare la Chapada dos Guimarães. In realtà c’è solo Joao: non parla né inglese né spagnolo, è stanco, fiacco. I suoi occhi si incurvano all’ingiù e la sua bocca non accenna a sorrisi. È un bell’uomo ma quelle spalle ricurve e la cadenza ciondolante mi fanno sentire fuori posto e a disagio. Nelle poche occasioni in cui riusciremo a parlare, in portoghese lui e in italiano misto a spagnolo io, mi dice di essere un giornalista che non ha avuto successo e di aver dirottato verso la carriera della guida freelance. Mi dice che è faticoso andare ogni giorno su e giù per sentieri e che si prende poco.
Dopo le presentazioni, mi comunica che – essendo sola – faremo solo due passi lì intorno. Insisto: vorrei vedere altro, sono qui e sto pagando. La sua auto, una Ford Fiesta nera, di mille anni fa, con la portiera a destra che non sta chiusa, senza airbag né aria condizionata e con una bombola rossa sotto al mio sedile, non può andare da nessuna parte se non alla cascata più famosa – Véu de Noiva – a un’altra più piccola dove posso fare il bagno e in due “mirantes”.

Trilha do Mel

Contratto un po’ e mi guadagno la Trilha do Mel: costa 100 reals e mi sta bene spenderli.
Salgo sulla caffettiera: borbotta, la portiera rimbalza sul metallo; ci pensa lui a chiuderla con un trucchetto. «Con questa» mi dice di nuovo «alla città di Pietra non ci arriviamo».
Sono tesa e in imbarazzo per via della lingua: sto spendendo 30 euro per una guida tutta per me, per tutto il giorno eppure non so comunicare con lei. Lo osservo, chiedendomi come possa attrarre clienti, se non quelli locali che, ahimè, non mi sembrano, in quel giorno, moltissimi. Mi dice che il sentiero che stiamo per fare è il migliore, più bello della città di Pietra. Ci fermiamo per far benzina, bevo un caffè, prendo dell’acqua e ripartiamo prima verso un “mirante” e poi diretti al sentiero.
Il sentiero inizia con un piccolo bazar che vende bibite, varie leccornie e acqua. L’uomo che lo gestisce mi mostra la merce, mi suggerisce cosa acquistare: la voce è squillante e lui saltella di qui e di là, come se fosse felice di vedermi. Pago 10 reals di ingresso al sentiero.
Sentiero? Quando arriviamo al suo “inizio”, un cartello di divieto ci accoglie. È scritto persino in inglese, con la parola “penalties” che cattura la mia attenzione. Non faccio domande, faccio spallucce e tra me e me decido di credere che quello sia la Trilha do Mel.
Pur dicendogli di spiegare in portoghese, che avrei provato a capire, le sue parole sono esigue: «un’ora e mezza ad andare e un’ora e mezza a tornare. Bevi. Seguimi. Stai attenta».

Rocce come sculture

Il percorso è una sorpresa continua: rocce enormi, piantate nel terreno quasi fossero alberi, ci sovrastano e si stagliano verso il cielo. Sono scavate, lavorate dall’oceano – prima presente in questa zona – e poi dal vento e dalla pioggia. Sembrano quei vasi d’argilla sul tornio prima che diventino vasi. 8 milioni di anni fa. Il colore è terroso, rossastro. La vegetazione è secca e in alcuni punti cresce sopra a queste immense formazioni rocciose.
Finalmente ascolta le mie domande: ha studiato tutti i sentieri della zona, conosce le rocce, ha nozioni di primo soccorso. Infelicemente non ha studiato né flora né fauna del luogo e non sa dirmi i nomi degli innumerevoli uccelli presenti in quel momento. Ne conosce solo uno, di cui io non ricordo più il nome. Non continua a parlare, senza le mie domande. Sul sentiero non ci sono altre persone oltre a me e a lui. A pranzo non parliamo e io, come la peggior turista, ne approfitto per mandare foto e usare internet.
Prima di pranzare e rientrare da quel sentiero, prima di qualsiasi domanda e qualsiasi risposta, sono stata là, ad ammirare da un costone roccioso la Chapada dos Guimarães. Da quel punto: un pezzo di roccia sospeso nel nulla, si vede tutta la valle. La strada è minuscola sotto di noi, seduti con le gambe quasi sospese nel vuoto. L’aria è secca, calda e il pulviscolo la rende simile a un deserto.
I colori ricordano un canyon: una terra rossastra, delle rocce rossastre e la mia sensazione di essere il re del mondo. L’orizzonte è vicino, la valle è aperta sotto di noi. In quel momento solitario, sembra che il turismo sia lontano, non ancora massiccio, perlomeno dall’Europa.
In realtà è un luogo che sembra piacere molto agli abitanti, soprattutto della città, come mi dice Gabriela: solitamente lì vanno a fare il bagno, feste, grigliate. Lei ha una casa lì, proprio come Joao, che lì ci abita e con soddisfazione mi mostra dove vive.

Una brasiliana a Montreal

Alla cascata più piccola incrociamo un padre e una figlia: lui ha sui 60 anni, lei poco meno di 30. Hanno un frigorifero da pic-nic, ma lui ha dimenticato un cucchiaio per mangiare la sua farofa. Mi offrono un succo e una mela che io accetto con piacere. La figlia vive a Montreal ed è tornata per le ferie a trovare il padre. Lei è una ricercatrice universitaria con un master ma sta ancora pensando se proseguire con il dottorato; lui un ingegnere ambientale. Le chiedo come si trova a Montreal e inizia un classico discorso da emigrata: la qualità della vita in Canada è superiore a quella del Brasile. «In Canada» mi dice «hanno davvero tutti le stesse possibilità senza vincoli economici o sociali. La gente è più uguale che altrove». Mi parla di scuola, servizi, salute: la scuola pubblica in Brasile lascia a desiderare. Poi parla di calore, amici e famiglia lasciati qui.
Ci salutano e se ne vanno. Io mi butto sotto alla cascata per rinfrescarmi un po’. La mia guida parla un po’ ancora con la ragazza, dicendole che non vuole portarmi in un altro posto perché è troppo caro e non vale così tanto. Io, mentre mi rinfresco, penso di quale brasiliano stesse parlando quando parlava di opportunità: quello ricco e colto che può andare in Canada? La famiglia povera della favela?
Il tour si conclude con un nuovo mirante, quello “geodesico”, dove si trova il centro dell’America Latina.
Al ritorno mi addormento sul bus. Mi attendono una serata con Gabriela e la sveglia all’alba per un nuovo volo.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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