Sopravvivere in Afghanistan
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 30, 2022
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KABUL − Sono trascorsi quasi sei mesi dalla presa del potere da parte dei talebani. E l’Afghanistan è precipitato in un baratro economico, sociale e umanitario che ricorda molto gli anni Novanta. Il 97% della popolazione al di sotto della povertà, 9 milioni di bambini sull’orlo della fame. Società civile cancellata e le donne trascinate fuori da ogni esercizio civile, riportate con la forza tra le mura delle loro case. Niente più musica, sport, scuola. Niente più lavoro. Le donne devono fare bambini e farli crescere secondo le regole rigide che impongono i talebani, interpreti di un Islam fatto a loro uso e consumo. Ora viaggiano, si fanno i selfie, parlano con l’Occidente, e d’altra parte sono i vincitori di una guerra che gli americani e i loro alleati non hanno saputo gestire. Perché gli americani, e chi con loro, in venti anni non sono mai riusciti a conoscerli.
Ora si può viaggiare perché i talebani controllano il territorio, la corruzione è scomparsa perché ancora non sono stati sommersi dai soldi che l’amministrazione precedente aveva avuto, almeno per il momento. Non è diminuito il traffico di droga e neanche la criminalità. I talebani si impongono con i kalashnikov che spaventano un popolo stanco da decenni di guerra e che ha imparato ad adattarsi piuttosto che a ribellarsi. Si vive, ormai da troppo tempo, il giorno per giorno, per poter pensare al futuro in modo costruttivo. Pensano al cibo, alle medicine, ad avere un posto caldo dove passare il rigido inverno e ai soldi per poter fare tutto questo. Sono tornati alle basi della sopravvivenza, perché è qui che gli interessi di altri li hanno spinti. E dove si ha fame e non si studia, controllare un popolo diventa facile.
La comunità internazionale sta dibattendo tra il parlare con loro e le immagini delle persone sopraffatte che vivono in questo paese. Ancora una volta colpevoli di aver chiuso all’improvviso i rubinetti che sfamavano questo popolo, perché in vent’anni non sono stati capaci di renderlo indipendente. Le sanzioni non servono a niente, ci ha detto chiaramente una fonte di alto livello dell’Unione Europea che, nel frattempo, ha riaperto l’ufficio diplomatico come altri, che ci sono ma preferiscono muoversi nell’ombra come se non avessero una nazione a cui rispondere. La mancata circolazione del denaro impedisce alla gente di percepire gli stipendi, di dare e trovare lavoro, di comprare da mangiare o di curarsi. E in un paese dove ci sono altissime percentuali di vedove, ora che non possono più lavorare se non a casa o in situazioni che non prevedono l’interazione con gli uomini, sono costrette a fare l’elemosina o a prostituirsi.
Eravamo qui a settembre a raccontare lo shock iniziale di questo popolo, siamo tornati ancora per capire come ci si aggiusta in un paese che non ha molti margini di movimento. Le professioniste, le attiviste, le giornaliste più esposte continuano a sentirsi in pericolo, qualcuna sparisce, qualcuna tenta di uscire dal paese sperando ancora nella possibilità di una vita migliore. Altre cercano di raggirare le regole e di farsi furbe, attiviste che usano uomini che le sostengono per scavalcare il sistema. Altre si sono lasciate andare alla depressione, soprattutto le giovani i cui i sogni sono stati spezzati.
In queste settimane siamo andati ad ascoltare la gente, gli ultimi, quelli che non avevano, e ora anche meno, voce. Tutti dicono che la situazione anche dei più poveri è peggiorata. E per loro è irrilevante di chi sia la colpa, vivono della condizione in cui si trovano. Il bando delle ragazze oltre i dodici anni dalle scuole aumenterà l’analfabetismo, e anche la mancanza di soldi che costringe le famiglie a usare i minori per i lavori più semplici, come raccogliere la plastica nelle discariche, fare l’elemosina, non le aiuta; l’aumento dei matrimoni di giovanissime e il farle sposare pur di avere una dote che sfami gli altri figli, aiuta ancora meno. Qualcuno ha venduto i figli per poter sfamare gli altri. E i figli, in un paese dove ogni donna ne fa almeno sei, sono il bene più prezioso.
Siamo andati nei campi degli sfollati, abbiamo parlato con uomini e donne disperati in luoghi dove ci sono bambini senza scarpe che arrancano nella neve e nel fango. Abbiamo cercato famiglie grazie ad associazioni amiche come Nove Onlus e alla federazione donne per la pace di Padova, l’Unicef e Msf, e le abbiamo raccontate e aiutate in alcune occasioni. Siamo andati in orfanotrofi per disabili, istituti dove rinchiudono i malati di mente. Siamo andati sotto i ponti a cercare i tossici con i loro cani drogati, dove l’oppio, l’eroina e l’anfetamina li trasporta lontano da una vita che per loro non ha più significato. Vi abbiamo portato in un centro di riabilitazione per tossicodipendenti uomini, una sorte di lager dove non c’è abbastanza da mangiare e soprattutto medicine per trattare l’astinenza, e in uno per donne dove ci hanno raccontato che la maggior parte si droga perché costretta dal marito o da un membro della famiglia, per tenerle buone. Abbiamo raccontato dei centri antiviolenza chiusi, delle donne maltrattate tornate dai loro carnefici. Perché il posto delle donne è a casa a qualunque costo, e in posti ancora più conservatori come Khost o Khandahar finiscono in prigione se osano scappare o se il marito ha deciso che non sono mogli abbastanza docili. Siamo andati a Khost a visitare l’ospedale di Medici Senza Frontiere dove nascono duemila bambini al mese e loro possono trattare solo i casi difficili. Dove le donne gioiscono per la nascita di un figlio e piangono per quella di una figlia, dove ti dicono che odiano il burqa ma che non c’è nulla che possono fare, inchiodate in una mentalità che le vede al sicuro e protette solo tra le mura domestiche. I talebani non capiscono come le donne non possano essere felici del rispetto che loro hanno per loro, tenerle a casa non è una punizione ma un upgrade per la loro sicurezza. E gli occidentali non capiscono che imporsi metterà tutti sulla difensiva, in Afghanistan bisogna insinuarsi, bisogna sapere a chi dare e a chi togliere, viverlo come un paese semplice è l’errore più grande che gli americani hanno fatto.
Molti ci hanno chiesto come fare ad aiutarli. Ci sono diverse vie, intanto far sapere alle donne che sappiamo come stanno, continuare a parlarne, ma la nostra indignazione deve portarci a fare pressioni sui nostri governi perché gestiscano meglio i talebani. Non li si mette su un jet privato per andare a Oslo, cosa che li ha fatti sorridere molto. Gli si fa comprare i biglietti e ci si siede a un tavolo normale, li si tratta per quello che sono e per quello che capiscono. Bisogna che alcuni diritti non siano trattabili, come quello all’istruzione e al lavoro delle donne. Ma la cosa più importante da capire è che le donne devono poter scegliere, i talebani pensano cosa sia meglio per loro e, nostro malgrado, lo fanno anche gli occidentali. È invece un lungo processo che parte dall’istruzione, dal diritto alla vita, ma anche dal lavorare sulla mentalità degli uomini che sono schiacciati dalle tradizioni in cui talebani si sono inseriti con molta più scaltrezza.
Abbiamo cercato di raccontare questo paese nel modo più corretto possibile, senza tralasciare la bellezza dell’Afghanistan con i suoi panorami mozzafiato, l’ospitalità e la gentilezza della gente che, anche se povera, ti apre la porta della casa o della grotta in cui sta e ti offre un angolo in cui sederti. Non siamo stati sempre oggettivi, di fronte alla sofferenza e alla disperazione ci siamo indignati, ma abbiamo anche cercato di essere concreti. Difficile essere obiettivi di fronte alla segregazione di genere ma soprattutto alla frantumazione dei sogni. Peggio di uccidere, c’è solo prendere l’anima di una persona e farla in mille pezzi.
Abbiamo cercato dei sorrisi, li abbiamo trovati tra le giovani giocoliere che non si possono più esibire, tra i bambini che hanno stretto tra le mani un gioco o una mela. Abbiamo abbracciato donne che ci sono venute incontro perché si sono sentite ascoltate. Il giornalismo non è solo raccontare quello che succede, ma attraverso le storie a volte piccole, far capire a chi sta molto lontano che bisogna esserci per raccontare, che bisogna sapere per fare la differenza, che bisogna arrabbiarsi per cambiare le cose. E che ci vuole pazienza e determinazione per migliorare il mondo. Non tutto è politica, molto è anche umanità, e speriamo, noi di Radio Bullets, di avervela raccontata.
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