Tornare in Venezuela

Scritto da in data Gennaio 14, 2019

Lo scarafaggio segue diligente una linea che sale lungo il muro scrostato dipinto di un verde ormai ingiallito dal tempo e dalla sporcizia. Le mattonelle del pavimento sono di ceramica con le fughe annerite, ciocche di capelli scuri e palline di polvere e briciole hanno trovato rifugio negli angoli. Qualcuno deve aver spostato il letto di qualche centimetro dalla parete per non permettere agli insetti di salire sulla branda di metallo. Sopra su un materasso troppo basso per essere comodo e lenzuola cambiate chissà quanto tempo fa, è seduta Marsela. Sta in ospedale da nove mesi e tutto quello che possiede è un aneurisma nel cervello e la lanetta nelle tasche.

Viene da lontano e farebbe qualsiasi cosa per tornare alla sua casa. Ma all’ospedale le hanno detto che è una mina vagante e che non se ne può andare. Le hanno anche detto che non la possono operare perché non ci sono i soldi. Né per le medicine, né per gli strumenti, nemmeno per il sapone asettico. Hanno anche cominciato a razionare l’acqua e l’elettricità va e viene. Non c’è anestesia e non ci sono abbastanza sacche di sangue. Anche il se sangue ci sarebbe, sgorga ogni giorno dall’agonia delle persone che vivono in questo paese dimenticato dalla fretta di chi non vuole guardare e dalla mancanza di voglia di prendere posizione.
Il mondo non vuole vedere perché toccherebbe agire. Il mondo non fa perché quando una crisi è politica costringe a confrontarsi con le proprie idee. Ma oggi a chi per mangiare scava nei cassonetti, le idee giuste o sbagliate non contano niente e i palazzi fatiscenti che sovrastano la capitale sono le cicatrici di un corpo morente come quello di Marsela, che vorrebbe andarsene ma non può farlo. La gente si sente come scarafaggi capaci di mangiare qualsiasi tutto, capaci di scavare tra le tombe del cimitero per estrarre ossa e fare riti o cercare l’oro di chi è morto quando quello era ancora un paese ricco.

Paulo ogni giorno gira per farmacie. Cerca l’insulina per la moglie diabetica, prima in farmacia, poi al mercato nero e se non la trova, niente. Sa che l’85 per cento dei medicinali sono introvabili eppure continua a cercare, è diventata la sua missione e la sua ossessione. Sa che il corpo di sua moglie non resisterà a lungo, si sentirà mancare, entrerà in coma e lui guarderà impotente morire l’amore della sua vita. Va anche dai preti perché è convinto che loro sanno e provano a fare, ma ultimamente non c’è nulla per nessuno. Arrivano medicinali di straforo, ma non sono mai abbastanza e mai per tutti. Paulo accarezza la moglie, quel braccio grinzoso che una volta, quando era giovane, era liscio e luminoso, quel braccio che lo afferrava un attimo prima che lui uscisse per stringerlo a sè, quando il Venezuela era una paese sprizzava musica e petrolio. Forse non era il paradiso se si è arrivati a questo punto, ma non si viveva aspettando di morire come ora.
Una ragazzina infila le braccia in un bidone, non ci arriva e si infila con tutto il tronco del suo piccolo corpo, sarebbe potuta diventare una bella ragazza, andare a scuola e avere una vita, ora tutto quello che conta è quella buccia di banana che ha trovato e che succhierà come se potesse dare sollievo alla sua intera esistenza. Ne infilerà tra le labbra un pezzettino alla volta per farla durare il più a lungo possibile anche se è sporca, un po’ secca e annerita. Le sembrerà di ricordare il gusto della sua torta di compleanno quando tutto era ancora normale, prima che sua madre le dicesse di andarsene perché lei era la più grande e poteva badare a se stessa, mentre le sorelline avevano ancora bisogno di lei. Più tardi avrebbe cercato un posto dove dormire sperando che qualcuno più povero, disperato e cattivo di lei, non se la prenda nella notte cieca e le ficchi dentro un bambino. Da piccola la madre le aveva detto che i bambini nascevano sotto l’albero dell’amore. Lo diceva una vecchia canzone. Ora sapeva che aveva mentito, che per fare un bambino non serve l’amore, basta qualcuno che ti tiene ferma e ti allarga le gambe. Se non resti incinta è come vincere alla lotteria, ti permette di pensare di avere il controllo della tua vita, ben sapendo che non ce l’hai.

Maria è una madre, una moglie e ha anche un lavoro. Non osa dirlo a suo marito, ma ogni giorno quando esce di casa il terrore le sale dalle caviglie, le attraversa le ginocchia, raggiunge il bacino e le esplode nello stomaco. Sente quel calore di cui sia convinta sia fatto l’inferno in cui è precipitato il suo paese. Lo ha vissuto 8 ore e 97 giorni fa quando tre uomini armati hanno fermato la sua macchina, l’hanno presa, rapita, tenuta e torturata per tre giorni rubandole tutto quello che aveva dalla meno importante, la macchina, alla sua dignità quando ha sentito la sua voce supplicare perché la lasciassero tornare dai suoi figli. D’allora ha paura ogni volta che esce e se potesse si costruirebbe una prigione intorno, si sistemerebbe in un angolo e guarderebbe il mondo dalle sue sbarre di cristallo perché sa che mai più sopravvivrebbe ad un’esperienza simile. Ma succede ogni minuto, ormai girare è diventata una roulette russa, non conosce nessuno che non sia stato rapinato, rapito o che si è visto puntare una pistola contro. Che vita è quando si ha paura di morire ogni momento che incontri qualcuno?

Manuel è in una cella della stazione di polizia di Chacao, intorno a lui in quattro metri quadrati ci sono 30 persone. Una appiccicata all’altra. Non sa più dove finisce la sua pelle e comincia quella dell’altro. Forse sente anche il dolore e la fame di chi gli sta accanto. Fanno pena anche ai poliziotti che però non sanno dove portarli perché le prigioni sono troppo piene e in quella cella dove si dovrebbe trascorre qualche giorno, Manuel è lì da due anni. Sa di aver sbagliato, ha rubato perché doveva comprare del cibo per la sua famiglia. Non dice di non essere colpevole ma solo che anche i criminali sono esseri umani. Fanno la pipì in bottiglie di plastica, si infilano delle palline di carta nelle orecchie per non fare entrare gli scarafaggi quando dormono. Ogni giorno scoprono nuove infezioni che li attaccano come se si fossero affezionati a quei corpi miserabili, come se loro non distinguessero i buoni dai cattivi, i belli dai brutti, i poveri dai ricchi.

Questo è il Venezuela un grande giacimento di dolore, di sofferenza, di povertà. Dove c’è ancora chi dice che va bene, che i bambini cullati dalle scatole di cartone negli ospedali che non hanno più incubatrici sono il futuro, e i ragazzi che manifestano per le strade invece sono la peste. Che le scuole funzionano e che tutti mangiano. Ma la verità non è quello che si dice, ma quello che si vede. E per vedere bisogna andare, bisogna esserci. Bisogna rimboccarsi le maniche e affondare nella melma di un paese malato e raccontarlo. Poi ognuno si farà la sua opinione, deciderà da che parte stare della Storia.

Ma per andare a in Venezuela e raccontare un paese che nessuno sembra volere guardare, serve il contributo di chi è pronto a vedere veramente e porsi delle domande anche quando è difficile e fa male. Il Venezuela è anche un pezzo di Italia e l’Italia è un pezzo di Venezuela, poche altre nazioni sono intrecciate alla nostra come questa, motivo in più per non dimenticarla. Bisogna raccontare una politica che arranca, una che non riesce a riscattarsi, la mancanza di unione, ma anche il grande cuore delle persone. Bisogna sapere che c’è chi comanda, chi arresta, chi tortura, chi diserta, chi pensa, chi lotta. Che ci sono poveri ma anche intellettuali. Che ci sono carnefici ma anche eroi e che chi resiste, se viene raccontato, non muore mai perché resterà nella memoria e nella coscienza di chi li ha conosciuti anche solo attraverso le parole di chi li ha ascoltati. Perché ora? Perché non sarà mai troppo presto per chi ha bisogno di essere riconosciuto. Anche questo fa il giornalismo.

Se volete sostenere una serie di reportage in Venezuela, potete andare sul nostro sito radiobullets.com/sostienici, e grazie.

Barbara Schiavulli


Opinioni dei Lettori
      • Radio Bullets   On   Gennaio 17, 2019 at 5:11 am

        Beh, già essere informati è un inizio. Il Venezuela è una delle storie come altre completamente trascurata, per questo vogliamo tornare e conntinuare a raccontare, questo popolo ha bisogno di essere raccontanto. Quindi puoi intervenire aiutandoci ad andare, oppure se vuoi essere più concreta ti consiglio l’organizzazione Ali Onlus che ha messo in piedi un’organizzazione e una rete incredibile per mandare le medicine in Venezuela attraverso canali privati e danno una mano un sacco di persone. Ma il primo passo è andare e vedere con i propri occhi. Più pressione si riesce a fare, più gli Stati si sentiranno in dovere di prendere posizione.
        Barbara Schiavulli

  1. Riccardo abate   On   Gennaio 14, 2019 at 8:00 pm

    Carissimi, sono giorni in cui sono sotto pressione per tutta una serie di questioni personali, di lavoro, ecc., nulla in confronto a quello che ho letto nel vostro articolo e che sta vivendo quella povera gente….fa veramente rabbrividire!!!
    un piccolo aiuto lo sottoscriverò senza dubbi !!!

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