Un cancello per la libertà

Scritto da in data Agosto 22, 2021

Domenica, esattamente una settimana fa, un messaggio ha sconvolto il mio mondo. Per tanti anni mi sono occupata di Afghanistan. Venti per l’esattezza. In alcuni periodi mi ci sono recata anche tre volte all’anno. Altri, come gli ultimi due di Covid, mai. Almeno fino a giugno scorso, quando grazie al sostegno di amici e lettori, amiche e lettrici di Radio Bullets sono tornata ad ascoltare le voci delle donne afghane in vista del possibile arrivo dei talebani. Erano tutti e tutte preoccupate, ma nessuno ci credeva veramente. Insomma, di nuovo i talebani al controllo dello Stato? Non era possibile. Avrebbero lottato. L’esercito sarebbe stato forte.

La caduta di Kabul

Invece, poi, tutto è successo e alla velocità della luce. Nel giro di poche ore le donne che avevo intervistato, con le quali avevo fatto amicizia e anche gli uomini che rappresentano la società civile, come artisti, scrittori, sportivi, giornalisti e attivisti, sono diventati un obiettivo. In realtà lo sono sempre stati, sono anni che tutti vivono sapendo di essere nel mirino, ma ora era diverso: prima erano vittime dei militanti talebani, dei terroristi. Ora lo sono del futuro governo, dello Stato, della loro terra che li inghiottisce.
Donne e uomini che sono andati underground mentre i talebani, che solo fino a qualche mese fa erano il nemico del mondo civile, ora si fanno selfie alla scrivania dell’ex presidente, scorrazzano per le strade dando interviste a tutti i giornalisti che trovano e se non li chiami, ti cercano loro, sciorinando una narrazione molto poco aderente alla realtà.

Di chi fidarsi? Delle donne e degli uomini che conosciamo da anni e ci dicono che non è tutto oro quello che luccica o dei barbuti che fino a una settimana fa mettevano bombe nelle scuole (o le lasciavano far mettere all’Isis), che compivano e rivendicavano omicidi mirati di persone che cercavano di costruire un paese diverso come i giornalisti, nonostante il pericolo, la corruzione, la povertà?

E già solo per questo è stato sconvolgente. Abbiamo creduto che prima o poi la situazione dovesse migliorare. Forse siamo troppo abituati ai film americani dal lieto fine: invece la sceneggiatura si è spezzata a metà, quando il nemico non solo non è stato sconfitto, ma il paese gli è stato consegnato dai paladini dell’esportazione della democrazia, tutto il paese. Ma come, fino a qualche giorno fa li bombardavate e ora gli parlate? Mi sono persa un pezzo?

“Pronto? Devo chiederti una cosa”

Ma ancora non è abbastanza. Dicevo che domenica ho ricevuto un messaggio, una persona che conoscevo, non ci eravamo mai incontrate ma in qualche modo ci siamo sempre sfiorate. Mi dice che sta preparando una lista per far uscire donne in pericolo. Bum. Penso che tutte le donne sono in pericolo, ma è vero alcune lo sono di più: attiviste, operatrici umanitarie, giornaliste, artiste. E da quel momento in poi tutto diventa frenetico e mentre si scrivono pezzi nel tentativo di far capire il paese, si fanno incontri magici come quello con lo scrittore Ali Ehsani, o il ristoratore veneziano, si cercano nomi. Che arrivano da ovunque: ci sono quelli che conosciamo ma anche quelli di colleghi e colleghe che hanno lavorato con loro, o amici afghani in Italia che temono per le loro famiglie. Persone da far fuggire perché altamente a rischio. Una vera e propria esfiltrazione.

Con le meravigliose amiche di Nove Onlus diventa una corsa contro il tempo. Documenti, nomi, telefoni, garanzie. Persone che stanno nascoste, che non hanno da mangiare, incinte, che rischiano e che sono terrorizzate, persone che piangono, pregano, supplicano e per un momento temi di avere le loro vite nelle tue mani. «Dici ci provo, ma non posso assicurare niente, stiamo facendo del nostro meglio». Noi siamo qui che combattiamo con il telefono e il mondo che non capisce bene quello che sta succedendo, e loro cercano di sopravvivere.

Lotta contro il tempo

Le immagini all’aeroporto non aiutano. Sono ore di tensione e di adrenalina pura. Sarebbe perfino stato pericoloso farle andare in aeroporto. E qualcuno le avrebbe accolte? Sarebbero riuscite ad avere i cellulari carichi qualora le avessero chiamate con l’elettricità che va e viene?

«Una non mi risponde», mi dicono. Bum. I nostri cuori cominciano a battere. Se non risponde perderà l’aereo. Il loro terrore è il loro, ma anche il nostro. Non vogliamo uccidere un’altra speranza ma è veramente una cosa difficile, anche perché in Italia è agosto, la politica è in vacanza, e davanti a un’emergenza internazionale, bivacca come se queste vite non fossero il risultato degli ultimi 20 anni di nostra presenza, dove l’occidente ha detto che le donne avevano dei diritti, avevano un futuro, che le porte di casa erano spalancate verso qualsiasi possibilità, mentre ora stanno in cantine presidiate da padri e fratelli pronti a difenderle con la vita. E le chiamate di aiuti si susseguono in una carrellata di dolore e paura.
Otto giorni in cui tra le mille cose da fare, inghiottire la delusione e il senso di colpa di non essere lì per essere più utile, che è inimmaginabile per chi non ha vissuto e non si è lasciato pervadere da un posto come l’Afghanistan. Otto giorni tutti trascorsi con il cuore in gola.

Aeroporto Odissea

Arrivano all’aeroporto per la terza notte consecutiva, sono state picchiate, schiacciate, qualcuna è finita in ospedale, qualcuna ha creduto di non farcela, si sono inventante stratagemmi quando i talebani le hanno fermate, per poter passare i posti di blocco. Ma non hanno mollato: 140 donne sono arrivate nella parte civile (che è diventata completamente incivile) presidiata dai talebani, cercando inutilmente di passare per ben tre volte in quella militare, con quel cancello controllato dagli americani che rappresenta la vita. Una vita che potranno scegliere.

Ci vogliono ore per passare quel maledetto cancello, interviene la politica, i diplomatici, stressati dalle organizzazioni e da chi ha compilato quelle liste della speranza. Si susseguono telefonate, lacrime di tensione, quelle donne le conosciamo, non è un volo qualunque, è il volo con i nomi che abbiamo dato. Donne che abbiamo ascoltato in questi giorni, consolato mentre se ne stavano barricate in cantina, abbiamo mostrato i loro appelli disperati, coi i visi nascosti da veli e burqa.

Poi il messaggio: «Sono entrate, sono in aeroporto. Dalla parte giusta». Non ci sono tutte, ma ci stanno lavorando.

E per la prima volta dopo tante lacrime di tensione, ce ne concediamo qualcuna di gioia. Con le donne di Nove ci siamo sentite tanto che mi sembra abbiano abitato con me in questi giorni: che fossero le due del pomeriggio o di notte, non c’era più il senso del tempo, solo di quello che si doveva fare. E ci sono riuscite. Ci siamo riuscite. Chi mettendoci la faccia e chi lavorando nelle retrovie. Perfino una benefattrice, Giovanna Foglia del Trust Nel Nome della donna, ha fornito un aereo che ha fatto da ponte con i militari.

Un lavoro di squadra contro il tempo. Politica e diplomazia, ma sono stati i militari che han fatto la differenza. Come gli uomini del Tuscania, che a un certo punto sfidando l’arroganza degli americani che non lasciavano entrare nessuno, sono usciti a prendere le ragazze. Una a una, con Amina di Nove Onlus che con loro, cercava le altre come un segugio.

militari all'aeroporto di kabul

La tensione si scioglie e ci riga i volti. È una cosa potente, che ti sovrasta. Queste ragazze hanno una possibilità. Lo sa chi mi conosce, che nei 25 anni ho visto e raccontato il male del mondo. Ma è diverso quando ti sembra che qualcuno dipenda da te. Quando si aspetta qualcosa da te. La rete delle persone che si è data da fare ha funzionato, nonostante il caos, la confusione, i talebani e gli americani. Superare la burocrazia, i pericoli, gli ostacoli e poter dire ci siamo riuscite, ti fa esplodere l’anima.

Forse è semplicemente fortuna, trovarsi al posto giusto al momento giusto. Forse è il premio più bello che abbia mai ricevuto, sapere che queste persone sono in salvo. Forse bisognava trascorrere un vita intera per arrivare a questo punto. In questo esatto momento. Dove le parole non contano quanto le azioni.

Ma anche se il momento è bello, non c’è un lieto fine vero: stiamo parlando di qualche centinaio di persone, tutte le altre restano lì dove sono, molte persone restano inchiodate in un regime dal quale non si potrà svuotare il paese. La nostra è stata solo una briciolina in un mare di dolore e ingiustizia, ma – lasciatemi essere felice per cinque minuti – gioire con tutti quelli che si sono dati da fare e con voi a cui lo sto raccontando, e aspettare che atterrino a Roma dove non si sa bene cosa accadrà, ma non sarà mai peggio di quello che rischiavano stando a Kabul.

Perché sono donne e uomini istruiti, con un lavoro, con figli che vanno a scuola. Perché ci sono cooperanti, attivisti, intellettuali. Persone che per noi, se solo saremo in grado di ascoltarle, rappresentano una risorsa per capire e cambiare quel paese.
È come se avessimo estratto un pezzo di Afghanistan, quello della società civile, per tenerlo, prendercene cura fino a quando potrà rientrare nel corpo malato. Spero che l’Italia rispetti ognuno di loro come spesso non fa con altri stranieri fuggiti da situazioni terribili e che avrebbero bisogno di pace e non di insulti.

Non dimentichiamo

Oggi tiriamo un sospiro e domani riprendiamo a lottare per tutte e tutti gli altri. Perché quando i riflettori dei media internazionali si spegneranno, e lo sappiamo tutti che accadrà, tra dieci giorni l’Afghanistan non sarà più in prima pagina, ma in ventesima, non sarà più nei titoli dei telegiornali e finiremo per pensare che la situazione si è stabilizzata. Ma non sarà così: quello che sta accadendo in Afghanistan è la tragedia del secolo, come lo è lo Yemen, il Venezuela, la Siria e tanti altri posti di cui non si parla e non si fa mai abbastanza. E non penso solo alle donne, ma anche agli sfollati, ai bambini, agli uomini.

Penso a tutti quelli che non volevano che questo accadesse. Penso anche a chi è stato abbandonato ed è ancora frastornato. Penso a quelle donne che hanno dovuto dire addio ai propri genitori, ai mariti, e viceversa. Famiglie spezzate perché uno stato, come in altri posti dove ci sono dei regimi, vuole liberarsi di chi dice no, di chi ha idee, di chi vuole essere.

La nostra promessa è che continueremo a raccontare, non spegneremo le voci, non dimenticheremo. Noi ci saremo. Stasera respiriamo. Tra una manciata di ore un manipolo di ragazze arriva in Italia e saranno le voci di tutte le altre. Noi le proteggeremo con le nostre parole. Con i nostri sforzi, con la nostra testardaggine. Una briciola ripeto, ma è la nostra briciola. E la condividiamo con voi.

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