Viaggio a Chernobyl

Scritto da in data Aprile 26, 2021

Com’è oggi la Zona di esclusione di Chernobyl, tanti anni dopo l’esplosione? Radio Bullets compie il viaggio nel passato e visita i villaggi abbandonati, entra nelle scuole, case e asili nido, fino ad arrivare nel cuore della Zona, la città fantasma di Pripyat.

Julia Kalashnyk da Chernobyl, Ucraina.

PHOTO CREDITS: Julia Kalashnyk 

Più di 30 anni dopo

Nell’immaginario collettivo, il paesaggio di Chernobyl dopo il disastro nucleare è dipinto di colori grigiastri e neri. Solitamente si immagina una landa desolata dove non è rimasta nemmeno una briciola di vita. Oggi, invece, è un territorio di vegetazione florida, abbondante di foglie e ceppi di rose selvatiche.

Un autobus colmo di turisti stranieri, desiderosi di visitare la mecca del nucleare, corre lungo le strade ancora assonnate di una domenica mattina. Irina, la guida, una donna sulla cinquantina con un ottimo inglese, impartisce le istruzioni su come comportarsi nella Zona. Non si può toccare nulla, mangiare all’aperto, sedersi, girare con le parti del corpo scoperte. Da Kyiv al punto di frontiera “Dytyatki”, dove si passano i controlli per entrare nella Zona, si arriva in due ore. Una marea di turisti attende impaziente di passare i controlli e addentrarsi in territorio proibito. Si riparte. Dal finestrino scintillano i colori della tipica vegetazione di Polesia, una zona ricoperta di immense paludi e grandi foreste, divisa tra la Bielorussia, l’Ucraina e una parte della Russia. È un territorio suggestivo, molto antico. Il verde spicca rigoglioso e sembra che la natura si stia riprendendo questo territorio molto velocemente. Per noi umani questo posto è perduto per sempre: la Zona è assolutamente inadatta alla vita e rimarrà tale almeno per qualche secolo. Irina ci racconta che la Zona d’esclusione è diventata una vera riserva. Orsi e bisonti, ci sono lupi e linci, cinghiali e cavalli Przhevalsky.

Zalissya

L’autobus attraversa il piccolo fiume Uzh, che viene regolarmente usato dagli stalker – membri del movimento di un’intera sottocultura di turismo illegale nella Zona di esclusione di Chernobyl – per spostarsi sul territorio. Il fiume divide la Zona in due parti, e per gli stalker è un Rubicone che, una volta attraversato, permette di addentrarsi nelle parti precluse ai turisti.

La prima tappa è un villaggio che si chiama Zalissya, si trova vicino alla città di Chernobyl a 4 chilometri di distanza. Una volta era abitato da circa 3.000 mille persone, ora completamente abbandonato, qualche abitazione comincia già a incrinarsi. Si entra in una piccola casa di maternità, si può ancora percepire l’atmosfera che regnava in quel lontano 1986. Il suolo è sprofondato in molti punti, la vecchia vernice sui muri è come se si squamasse. Su una panchina un registro nascite ingiallito, impolverato, custodisce ancora nomi: una madre di nome Maria, 45 anni, un padre di nome Viktor e di anni ne ha 19. Un piccolo dramma di quei tempi, forse. Se si prosegue oltre, si può visitare qualche abitazione privata. Muri scrostati, averi personali sparsi per terra, pezzi del giornale sovietico Selskaya gizn (Vita da villaggio) ovunque. In una di queste case il fiorello di plastica che indossavano gli uomini sposi nei tempi sovietici, buttato per terra e schiacciato dalla polvere trentennale.

Kopachi

Poi si prosegue fino al villaggio di Kopachi, un posto che in realtà non esiste. Prima dell’evacuazione lì abitavano un po’ più di mille persone, adesso sono rimasti solo i tumuli di case sepolte, un lungo cimitero di case con i segni delle radiazioni al posto delle croci. Dopo l’incidente il villaggio si è ritrovato nella zona della cosiddetta “scia occidentale”. È da lì che la nube radioattiva dalla centrale nucleare passò a ovest, verso l’Occidente. I livelli di radiazione erano così alti che le autorità hanno dovuto sotterrare l’intero villaggio. L’unica struttura rimasta è un asilo nido. L’edificio è di mattoni e non di legno, come lo era il resto delle abitazioni. Il legno non si poteva “ripulire” dalla radiazione, il mattone invece, sì. Un paesaggio macabro: tumuli di case sepolte e l’asilo nido abbandonato.

Sul lato della strada che costeggia Kopachi oggi il livello di radiazioni rimane ancora molto elevato. Basta avvicinarsi alle cosiddette “macchie radioattive” e il dosimetro ce lo comunica subito con un suono assordante. Quella è la voce della radiazione. All’interno dell’asilo ci sono giocattoli sul pavimento, negli armadietti aperti si intravede qualche scarpetta. Tanta polvere sparsa, sul pavimento ci sono libri e quaderni, pantofole per bambini. File di lettini di ferro con qualche bambola sopra. Le porte delle stanze sono spalancate, pero è da più di trent’anni che qui non si sentono le voci dei bambini. Qualche giocattolo e libro sono messi in evidenza, forse per creare le scenografie per i turisti curiosi.

Subito dopo il villaggio, proseguendo sulla strada, si oltrepassa la “foresta rossa”, una pineta adiacente alla centrale. Quella notte, il 26 aprile 1986, questa pineta che separa la centrale nucleare e la città di Pripyat, è stata la prima a subire l’attacco radioattivo. Ha ricevuto una dose così elevata di radiazioni che gli alberi sono morti all’istante, divenendo di color rame. Su un tratto di strada il dosimetro segna 9,95 µSv all’ora (Microsievert all’ora) rispetto a 0,23 µSv registrati all’entrata nella zona.

Pripyat, la città del futuro ferma nel passato

L’autobus si ferma all’ingresso alla città di Pripyat, vicino a un’insegna monumentale con la data della sua costruzione: 1970.

Pripyat era una delle nove “atomgrad”, una di quelle città sovietiche costruite per servire le centrali nucleari. Una città modello, un posto dove avrebbe voluto vivere qualsiasi cittadino sovietico. Costruita nelle vicinanze della centrale nucleare di Chernobyl, offriva ogni comfort e stipendi più elevati ai tecnici della centrale e alle loro famiglie. A Pripyat c’era tutto: centri commerciali, cinema, complessi sportivi, un Palazzo della Cultura, presente in ogni città sovietica, un albergo, scuole, ospedali, asili nido. La città modello dello sviluppo urbano sovietico, un posto superiore alle principali città del paese: Pripyat aveva perfino il suo yacht club. Poi l’incidente nucleare ha interrotto per sempre la vita in quella città del futuro sovietico. Circa 50.000 persone sono state evacuate il giorno dopo l’incidente nucleare.

Oggi Pripyat è un luogo dove il tempo si è fermato. Visitarla è come viaggiare indietro negli anni, tornare nel 1986. Il primo posto che si incrocia è una caffetteria, omonima della città, che custodisce i frantumi delle maestose vetrate ricoperte di mosaico ucraino di tempi sovietici. Splendore di colori inaspettati, che risveglia l’ambiente interno fatiscente. A poco più di dieci metri dal bar si scende nell’area portuale. Da lì una volta partivano i traghetti per Kyiv, portando le famiglie in gita nella capitale dell’Ucraina sovietica. È impossibile capire immediatamente che si tratta di un porto: folta vegetazione ha preso il sopravvento sul luogo, il molo è stato divorato dalla ruggine e dall’oblio. All’uscita del porto i resti di vecchie macchinette per l’acqua gassata da strada, quelle che avevano i bicchieri di vetro e il sistema di lavaggio integrato. Bastava girare il bicchiere in giù nell’apposita fessura e lavarlo. Uno degli oggetti indelebili nella memoria collettiva sovietica. Strade abbandonate, finestre come orbite vuote, la vegetazione sprigionata ha inghiotto la città. Si può solo intuire il suo volto e ciò che poteva essere.

Ancora oggi le strade di Pripyat, scomparse nel folto della foresta, conservano le tracce della grandezza sovietica. Le luminarie delle strade con la falce e martello comunista. Una cabina telefonica di color giallo con la vernice sgretolata, leggermente incrinata dal peso del tempo. Accanto alla piazza centrale, ricoperta dagli alberi, si intravede la sagoma di un edifico a 16 piani con lo stemma dell’URSS. Qui si trova anche il maestoso albergo Polissya, in perfetto stile sovietico, con ancora delle file di lucine sulla struttura, e il Palazzo della Cultura Energetik. Tutto sommerso nel verde, che, al contrario dell’uomo, è riuscito a conquistare questo territorio contaminato. Non lontano si trova il parco dei divertimenti con la leggendaria ruota panoramica, il simbolo di Pripyat. La ruota panoramica è enorme, dipinta di giallo. Il dosimetro segna il livello di radiazione più elevato anche qui, vicino alle giostre. L’inaugurazione ufficiale del parco dei divertimenti era prevista per il primo maggio 1986, tuttavia a causa dell’incidente la ruota non ha mai portato nelle sue cabine gialle nessun piccolo abitante della città.

E poi si giunge alla scuola numero tre, protagonista indiscussa delle foto arrivate in ogni angolo del mondo. Quella è una tappa obbligatoria se si visita Pripyat, uno dei luoghi più stridenti. Qui l’impotenza degli umani è messa a nudo e il tempo qui si è fermato più che in qualsiasi altro luogo della Zona. Nelle stanze vuote dell’edificio ci sono le tracce dell’improvvisa fuga della gente. Giocattoli sparsi, libri aperti, magari con letture non finite. E poi migliaia di maschere antigas sparse sul pavimento, ovunque. Libri, banchi, maschere antigas. In questa scuola non suonerà mai più un campanello, gli insegnanti non verranno alla lezione, e gli ultimi appunti nei quaderni porteranno per sempre la data del 26 aprile 1986.

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