19 settembre 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Settembre 19, 2025

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“Se non c’è lotta, non c’è progresso.

Coloro che professano di essere a favore della libertà e tuttavia deprecano l’agitazione sono uomini che vogliono raccolti senza arare la terra.

Vogliono pioggia senza tuoni e fulmini.

Vogliono l’oceano senza il fragore delle sue possenti acque”.

Sono le parole pronunciate da Frederick Douglas, abolizionista americano, fuggito dalla schiavitù, in un discorso del 1857.

Nessun progresso, senza lotta, sosteneva Douglas.

Nonostante il prezzo altissimo che in troppi sono, sono stati costretti a pagare, per un futuro migliore del presente.

In troppi, in Africa.

Ed è all’attivismo che dedichiamo oggi il nostro notiziario.
A chi viene ucciso, imprigionato, torturato, e a chi inventa nuovi modi per cambiare il mondo.

Andremo in Costa d’Avorio, in Tanzania, in Kenya, in Tunisia e nel Sudafrica che riapre l’inchiesta per la morte di Steve Biko.

E infine in Nigeria, per ricordare che l’attivismo e la lotta per i diritti in Africa hanno radici antiche.

Oggi, 19 settembre 2025.

Costa d’Avorio

Ibrahim Zigui è un ragazzo di 26 anni, un tiktoker.

È stato portato via in piena notte, all’inizio di settembre, dalla sua casa ad Abidjan, in Costa d’Avorio.

Per giorni nessuno, neppure la famiglia, ha saputo nulla della sorte del giovane vicino al partito di opposizione PPA-CI, guidato dall’ex presidente Laurent Gbagbo.

«Individui armati non meglio identificati si sono introdotti a casa di mio figlio, hanno rubato varie cose tra cui denaro e televisione, hanno preso tutto e hanno anche filmato la scena» aveva dichiarato la madre.

All’origine dell’arresto potrebbe esserci un video che invitava i cittadini ivoriani a seguire la diffusione della lista dei candidati alle elezioni presidenziali di ottobre, che vede il presidente in carica Alassane Ouattara presentarsi per la quarta volta, esortandoli a “riempire ogni spazio pubblico” in segno di protesta, come riporta Ifex, organizzazione per la difesa della libertà di espressione.

“L’arresto di Ibrahim Zigui, influencer da quattro anni, preoccupa la società civile.

Fa emergere il clima di forte tensione che precede le elezioni e mostra quanto le autorità stiano controllando le dichiarazioni dell’opinione pubblica.

Chi non condivide la visione del potere in carica, vive con una certa paura” sostiene una fonte di Africa Rivista.

“All’inizio di quest’anno, l’oppositore Dr. Boga Sako è stato costretto all’esilio dopo aver criticato l’intenzione del presidente Alassane Ouattara di candidarsi per un quarto mandato” aggiunge Ifex.

Se l’appuntamento con le urne sembra segnare una stretta sulle libertà individuali, le violazioni dei diritti non sono una novità in Costa d’Avorio.

«Nei prossimi cinque anni, il presidente dovrebbe affrontare le violazioni dei diritti alla libertà di espressione, di associazione e di riunione pacifica.

Dovrebbe porre fine agli sgomberi forzati e sostenere le persone colpite, garantire il rispetto del diritto alla verità, alla giustizia e alla riparazione per le vittime di violenza elettorale, proteggere i diritti delle donne e dei bambini e il diritto a un ambiente sano» ha dichiarato Marceau Sivieude, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa occidentale e centrale.

«Il Codice Penale criminalizza la diffusione di “false informazioni” e prevede pene detentive per gli organizzatori o i partecipanti a proteste non dichiarate.

Queste disposizioni vengono spesso utilizzate per mettere a tacere le voci critiche.

Inoltre, le autorità possono attualmente sciogliere le organizzazioni con un semplice decreto, senza possibilità di appello» scrive Amnesty international in documento che fa il punto sulla situazione dei diritti umani in Costa d’Avorio, e in cui chiede modifiche alle leggi, inclusa la revisione del codice penale.

Tanzania

Edgar Mwakabela è conosciuto come Sativa.

A giugno è stato rapito in Tanzania, nella città di Dar es Salaam.

Racconta di aver rischiato la morte, lo fa alla BBC.

Ma è sopravvissuto.

A pochi, nel suo paese è andata così.

Secondo le Nazioni Unite, dal 2019 al giungo di quest’anno, sono sparite circa 200 persone, come anche noi avevamo raccontato.

Ammanettato, bendato, picchiato, colpito alla testa, alla schiena, alle gambe, Mwakabela è stato interrogato in un angolo remoto del paese, nella regione del Katavi.

I rapitori “volevano sapere chi stava facilitando il suo attivismo e perché stava criticando il partito Chama Cha Mapinduzi (CCM), al potere dal 1977” scrive la BBC.

Lui crede che a rapirlo siano stati agenti di polizia o comunque agenti dell’autorità.

“Poi, è arrivato l’ordine agghiacciante urlato da un veicolo dietro di loro: ‘Sparategli!’.
E hanno premuto il grilletto.

Un proiettile gli ha attraversato il cranio. La sua mascella, frantumata” scrive la testata britannica.

L’hanno lasciato lì, credendo fosse morto.

Le autorità hanno sempre negato di prendere di mira gli oppositori, ma i rapimenti sono sempre più frequenti tra chi prova a criticare il governo, che a fine ottobre dovrà affrontare le elezioni generali.

La lista di chi è sparito è lunga.

Tra loro, Shedrack Chaula, 25 anni, l’artista che in un video ha bruciato la foto della presidente Samia Suluhu e Ali Kibao, funzionario dell’opposizione della cui sparizione e uccisione della cui tragica fine avevamo riportato lo scorso anno.

Non c’è mese senza che qualcuno scompaia o venga ucciso.

“Alcune non vengono mai ritrovate, altre riappaiono con inquietanti resoconti di violenza o tortura, e alcune sono state trovate morte” riporta ancora la BBC.

Kenya

In Kenya, a poco più di un anno dallo scoppio delle proteste scatenate dalla riforma fiscale voluta dal governo di William Ruto, il movimento della Generazione Z mostra tutta la sua capacità di resistere.

Alle morti, alla brutalità delle forze dell’ordine, alle intimidazioni, ad una sempre più aggressiva ondata di violenze online.

Le armi della repressione oggi sono gli hashtag, branditi contro gli attivisti che per primi hanno usato la rete per la mobilizzazione e l’organizzazione del movimento #RejectFinanceBill2024.

#PaidActivism, #CommercialActivismKE, #ShunFakeActivismKE, #ToxicActivists.

Slogan di “campagne coordinate di disinformazione online”, secondo l’inchiesta condotta da France24.

Rose Njeri è stata arrestata per aver creato uno strumento pro-democrazia per aiutare il movimento.

“È presa di mira da una campagna diffamatoria online” scrive France 24.

Ed è “l’ultima vittima di un sofisticato apparato online.

… Sebbene l’arresto di Njeri a maggio abbia suscitato indignazione e scatenato un’ondata di solidarietà sotto l’hashtag #FreeRoseNjeri su X, alcuni di questi post affermavano falsamente che Njeri si fosse addestrata in “hacking etico” in Estonia e la collegavano a un gruppo russo di cyber-operazioni” racconta l’inchiesta.

Un altro hashtag, #DogsOfWar, accusava gli attivisti di essere una rete coordinata digitalmente e finanziata dall’estero, da George Soros.

Alphonce Shiundu, redattore per il Kenya di Africa Check, scrive France24, ritiene che dietro ci sia lo Stato.

«Il gioco più vecchio del copione autoritario» secondo Irungu Houghton, direttore esecutivo di Amnesty International Kenya.

«La disinformazione è progettata per screditare i difensori dei diritti umani e distrarre dalle preoccupazioni che sollevano.

Definire gli attivisti come “pagati” ne erode l’autenticità e definirli “anarchici” li inquadra come distruttivi» ha detto Houghton all’AFP.

Violenze reali, invece, quelle subite dagli attivisti a giugno di quest’anno, nel primo anniversario delle proteste.

Eppure, «un anno dopo, la rivolta della Generazione Z in Africa è ancora più incoraggiante.

Nonostante la brutale repressione, l’ondata di movimenti guidati dai giovani esplosa lo scorso anno in Nigeria e Kenya ha dimostrato una notevole resilienza» scrive Obiora Ikoku, giornalista e attivista nigeriana su “Waging non violence”, news oultet dedicato al racconto dei movimenti sociali nel mondo.

«Da giugno ad agosto di quest’anno, il movimento è tornato a crescere, con decine di migliaia di persone scese in piazza….

Queste rivolte della Generazione Z, organizzate digitalmente e decentralizzate… stanno rimodellando il panorama dell’impegno civico, mettendo in luce l’incredibile potere e dinamismo dei giovani africani.

Ciò è evidente nell’enorme portata dell’affluenza alle proteste, nel coraggio dimostrato di fronte a una repressione agghiacciante e nell’uso dei social media come strumento di organizzazione per il cambiamento sociale» scrive Ikoku. Inizio modulo

Ed è sempre in Kenya, quest’anno, a luglio, che ha iniziato a farsi sentire la voce degli studenti dei licei.

Hanno cominciato alla Tambach Boys High School, nel Kenya occidentale, abbandonando il campus, scioperando per protestare contro la “scarsa preparazione accademica per i loro imminenti esami nazionali”, racconta Dawson McCall su “Africa is a Country”.

Una protesta che si è allargata, in città grandi e piccole, ed è arrivata fino a denunciare gli abusi sessuali degli insegnati, la cattiva alimentazione, la scarsa offerta formativa che di fatto riserva la migliore istruzione solo ai ricchi.

Anche questa volta, la risposta del governo è stata violenta.

Una storia lunga, quella degli scioperi studenteschi, che risale addirittura al primo decennio del Novecento, racconta McCall.

Sia allora che oggi, «tali azioni… sono radicate nella profonda e ardente speranza di molti kenioti che le scuole, nonostante i loro difetti, abbiano il potenziale per offrire una via al successo individuale e alla trasformazione sociale” scrive.

Tunisia

Ghofrane Heraghi resiste.

Usa la cultura per non lasciar svanire il sogno di una generazione, quella figlia della rivoluzione del 2011.

Percorre la Tunisia con un camion cinematografico.

Il 2011 è stato il tempo del “risveglio civico”, come lei lo chiama nel racconto che di questa donna in controtendenza rispetto al tempo di oggi, tempo del disingaggio dei giovani dalla politica, fa Radio France Internationale (RFI).

Aveva 22 anni quando decise di sospendere gli studi e impegnarsi nel movimento, battersi per i diritti delle donne, lavorare con i giovani, usare la musica e la cultura per animare anche le comunità periferiche.

Lo scorso anno, Ghofrane ha fondato CinémaTdour, un cinema mobile da 100 posti che si sposta nelle regioni più isolate come nei sobborghi della capitale, e che nel 2025 è divento anche un progetto all’aperto.

«Programmiamo film mainstream, ma anche opere che affrontano temi importanti: ecologia, salute, diritti dei cittadini» racconta.

“Ogni tappa è anche un’occasione per riunire artisti, rapper e personalità desiderose di riconnettersi con la popolazione” scrive RFI.

Una popolazione “parzialmente indebolita dopo quindici anni di disillusione politica”.

Madre di due figli, Ghofrane, “come molti della sua generazione, si chiede se partire o restare di fronte alle difficoltà economiche e politiche della Tunisia” racconta la testata francese.

«Non vedo il periodo attuale come una parentesi, ma piuttosto come una tappa di un processo che stiamo costruendo a lungo termine, con i suoi alti e bassi» conclude Ghofrane.

Sudafrica

«La società sudafricana è fuggita all’idea di assumersi la responsabilità del nostro passato violento e brutale».

Nkosinathi Biko aveva sei anni quando suo padre, Steve, venne ucciso, 48 anni fa.

Sulla morte dell’attivista anti-apartheid, fondatore del Black Consciousness Movement, è stata aperta una nuova inchiesta.

Nkosinathi ha dichiarato alla BBC che la famiglia ha fiducia che questa volta si arriverà all’incriminazione dei responsabili.

«Abbiamo ben chiaro cosa è successo e come hanno ucciso Steve Biko» ha detto Nkosinathi dopo la prima udienza.

«Non si può vivere il trauma che abbiamo avuto noi, il sangue nelle strade orchestrato da uno Stato contro un popolo, e poi uscirne con meno di una manciata di procedimenti giudiziari portati a termine con successo» ha aggiunto.

Steve Biko aveva trent’anni quando venne arrestato ad un posto di blocco insieme a Peter Jones.

Arrestato per aver violato un ordine restrittivo che lo confinava a King Williamstown.

Morì quasi un mese dopo, il 12 settembre del 1977, mentre era in custodia della polizia per una lesione cerebrale, dopo essere stato torturato e incatenato.

Arrivò all’ospedale di Pretoria, a 1.200 chilometri di distanza, quando era ormai troppo tardi.

La polizia sostenne che aveva sbattuto la testa, poi, quasi vent’anni dopo, l’ammissione: Biko fu aggredito.

“Il caso di Biko fu discusso presso la Corte per la verità e la riconciliazione (TRC), dove i poliziotti coinvolti ammisero di aver rilasciato false dichiarazioni 20 anni prima, ma non furono perseguiti” ricorda la BBC.

Studente di medicina, Biko voleva mobilitare la popolazione nera urbana, voleva scardinare, combattere il senso di inferiorità dei sudafricani generato dall’essere stati sottoposti tanto a lungo al dominio della minoranza bianca, voleva che la popolazione sentisse di avere potere.

La sua morte sconvolse il mondo, ma “Tre decenni dopo la fine del dominio della minoranza bianca, il Sudafrica è ancora alle prese con crimini irrisolti commessi durante l’apartheid”.

“All’inizio di quest’anno, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha istituito una commissione giudiziaria” per capire si ci sono state interferenze per “impedire le indagini o il perseguimento dei crimini commessi durante l’apartheid” scrive l’agenzia Reuters.

Africa Occidentale

Francis P. Fearon era un commerciante di Accra, la capitale del Ghana che alla fine dell’Ottocento, si chiamava Costa d’Oro ed era una colonia inglese.

Fearon denunciò la schiavitù in cui ancora la popolazione nera era costretta.

La Lago Auxiliary era una colazione di avvocati, giornalisti e religiosi nigeriani che portò avanti una campagna per l’abrogazione della Native House Rule Ordinance nel 1914, legge che consentiva di mantenere la schiavitù nella regione del delta del Niger, “imponendo a ogni africano di appartenere a una “Casa” sottoposta a un capo.

Le loro storie sono state sudiate da Micheal Odijie, dell’Università di Oxford.

“Quando gli storici e il pubblico pensano alla fine della schiavitù domestica nell’Africa occidentale, spesso immaginano i governatori coloniali che emanano decreti e i missionari che lavorano per porre fine al traffico locale di schiavi.

Due delle mie recenti pubblicazioni raccontano un altro aspetto della storia” scrive Odijie su The Conversation.

Odijie ha condotto ricerche sulle idee e le reti antischiaviste in Africa occidentale.

Nonostante la schiavitù venne formalmente abolita nel 1934 in tutto l’impero e in Nigeria nel 1901, mentre la Costa d’Oro venne annessa nel 1874 proprio con l’obiettivo di combattere la schiavitù, “le amministrazioni coloniali continuassero a consentire la schiavitù domestica nella pratica e che gli attivisti africani si opposero a questo fenomeno” scrive.

Usavano lettere, la stampa, i loro network: “I metodi sperimentati da Fearon e dalla Lago Auxiliary i Lagos sono ancora importanti perché dimostrano come le comunità emarginate possano costringere i detentori del potere a colmare il divario tra leggi e realtà vissuta.

Ci ricordano che testimonianze locali ben documentate, amplificate a livello transnazionale, possono ancora ribaltare le narrazioni ufficiali, imporre cambiamenti politici e mantenere le istituzioni oneste” aggiunge.

“Gli studi contemporanei sull’abolizione della schiavitù si stanno gradualmente spostando dal chiedersi ‘cosa ha fatto la Gran Bretagna per l’Africa’ all’esaminare il ruolo svolto dagli africani nel porre fine alla schiavitù.

Molti abolizionisti africani che hanno combattuto e perso la vita nella lotta contro la schiavitù sono rimasti a lungo sconosciuti.

Questa situazione sta iniziando a cambiare” conclude Odiie.

Foto di copertina: Joshua Quaye – Unsplash

 

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