24 ottobre 2024 – Notiziario Africa
Scritto da Elena Pasquini in data Ottobre 24, 2024
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- Ruanda: processo a nove attivisti e oppositori politici
- Mozambico: due omicidi nelle fila del partito d’opposizione
- Etiopia: scontri tra le forze governative e i miliziani Fano, vittime soprattutto tra i civili
- Africa: rallenta il percorso verso il buon governo
- Burkina Faso: artisti da tutto il mondo attratti da blocchi di granito vecchi di miliardi di anni
Questo e molto altro nel Notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini
“Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare” scriveva Nelson Mandela nella sua autobiografia.
Il lungo cammino di Mandela sembra essere il lungo cammino dell’Africa, l’Africa che oggi continua ad avere di fronte a sé alte, e nuove, montagne da scalare ma che continua a non esitare, a marciare, a sfidare regimi e chiedere diritti, come in Ruanda dove inizia il nostro notiziario, con il processo a nove attivisti e oppositori politici.
Poi, torneremo in Mozambico che s’infiamma dopo due omicidi nelle fila del partito d’opposizione.
Racconteremo di un continente dove la democrazia è sempre più fragile, dell’Etiopia in guerra, del Ghana senza un parlamento ma infine di un museo di granito a cielo aperto nel cuore del Burkina Faso. Oggi, 24 ottobre 2024.
Ruanda
Sono passati tre anni prima che nove persone incontrassero il loro giudice. Tre anni di prigione in attesa di giudizio per aver fatto circolare un libro che spiega come usare “pudding di riso o pupazzetti lego” per resistere all’autoritarismo.
Siamo in Ruanda, davanti all’Alta corte di giustizia.
L’accusa è aver “diffuso informazioni false o propaganda con l’intento di alimentare un’opinione internazionale ostile al governo” e può costare agli imputati fino a quindici anni di carcere.
Il libro è “Blueprint for revolution” dell’attivista e politico serbo Srdja Popovic ovvero come usare “tecniche non violente per galvanizzare comunità, rovesciare dittatori o semplicemente cambiare il mondo”.
Accusati anche, riporta il sito Jambonews, di “aver partecipato ad un training online guidato da due attivisti serbi su tattiche di resistenza, come proteste, boicottaggi e promozione della consapevolezza dei cittadini sui loro diritti”.
“Al di là di questo caso specifico, il clima politico del Ruanda rimane profondamente preoccupante. Negli ultimi anni si è assistito a una crescente repressione nei confronti dei media indipendenti, dei partiti di opposizione e dei difensori dei diritti umani” scrive Prudence Nsengumukiza, giornalista che vive in esilio, su Jambonews.
Processo preliminare, per ora, a porte chiuse: via reporter e osservatori.
Una fonte ha detto all’agenzia di stampa AFP che i detenuti avrebbero richiesto la libertà su cauzione, ma l’accusa si sarebbe opposta sostenendo che i nove potrebbero fuggire.
Tra loro, Theoneste Nsengimana, che conduce un popolare canale Youtube, Umubavu TV, fortemente critico con il governo.
Su di lui il giudice dovrebbe pronunciarsi domani, per gli altri tutto rinviato a novembre.
Gli altri sarebbero affiliati al partito di opposizione Dalfa Umurinzi, guidato da Victoire Ingabire, che però non è mai riuscita ad ottenerne la registrazione legale del suo movimento.
“L’arresto di individui legati a un partito politico non registrato, combinato con la criminalizzazione della lettura di un libro, invia un messaggio inquietante: qualsiasi forma di critica o organizzazione politica potrebbe essere percepita come una minaccia per le autorità al potere e avere gravi conseguenze” aggiunge Nsengumukiza.
Ad aprile di quest’anno, il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite “ha affermato che l’arresto violava i loro diritti e costituiva una ‘privazione della libertà’” ricorda ancora AFP. Un arresto che contraddice le stesse leggi ruandesi che sulla carta prevedono non si possa restare in carcere senza processo per più di sei mesi o che sanciscono diritti come la libertà di espressione.
Se il tentativo delle autorità di limitare la diffusione dei discorsi d’odio come quelli che alimentarono il genocidio del 1994 dove morirono almeno 800 mila persone può trovare un fondamento nella drammatica storia di questo piccolo Paese, per le organizzazioni dei diritti umani, ciò che sta accadendo in Ruanda è bene oltre l’accettabile.
“Stato di diritto, partecipazione attiva dei cittadini, istituzioni indipendenti e profondo rispetto per i diritti umani”: questi dovrebbero essere i principi su cui si fonda una democrazia, scrive l’attivista Denise Zaneza su African Arguments.
Ma nel paese guidato da trent’anni da Paul Kagame, “la realtà sul campo contrasta nettamente con questi ideali. Il Ruanda offre un esempio inquietante in cui l’apparenza di progresso e di governance democratica maschera un regime profondamente repressivo”, aggiunge Zaneza che racconta altre storie di repressione ed abusi.
Quella di Diane Rwigara, attivista e imprenditrice che dopo aver annunciato la sua candidatura nelle elezioni del 2017 è sottoposta ad una campagna diffamatoria, incarcerata per essere poi assolta dopo il voto.
O di Chrisopher Kaymba, fondatore del quotidiano online The Chronicle e di un movimento politico, accusato di stupro, detenuto per diciassette mesi, poi assolto ma la cui voce non si è mai più sentita nel dibattito pubblico.
Boniface Twagirimana, del partito di opposizione FDU-Inkingi, “misteriosamente scomparso da un carcere di massima sicurezza nel 2018, con le autorità che sostengono sia scappato. Ad oggi non si sa dove si trovi e molti credono sia stato ucciso mentre era in custodia” racconta Zaneza.
Kizito Mihigo, popolare cantante gospel, “arrestato nel 2020 con l’accusa di aver tentato la fuga dal Paese e poco dopo trovato morto nella sua cella in prigione. Le autorità hanno affermato che si è trattato di suicidio, ma la mancanza di un’indagine approfondita e indipendente non fa altro che sottolineare la cultura dell’impunità che prevale in Ruanda” prosegue.
E ancora, la stessa Victoire Ingabire, arrestata nel 2010 e condannata a quindici anni, scontati più della metà, con l’accusa di aver messo in pericolo la sicurezza nazionale.
Lo scorso anno, l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch, ai cui ricercatori il Ruanda nega da oltre sedici anni di operare nel Paese, denunciava nel rapporto “Join Us or Die”, contestato dal governo di Kigali, esecuzioni sommarie e sparizioni di oppositori, mentre è recentissima una nuova indagine, sempre di Human Rights Watch, che punta il dito sugli abusi, le torture e i crimini commessi nelle carceri del Paese.
“In Ruanda, il potere giudiziario, il parlamento e l’esecutivo sono profondamente intrecciati e funzionano più come strumenti dell’élite al potere che come istituzioni indipendenti che sostengono lo stato di diritto. Piuttosto che agire come controlli sul potere, servono a rafforzare la presa autoritaria del presidente Paul Kagame” scrive ancora Zaneza.
Secondo Freedom House, il Fronte patriottico ruandese che governa il paese dal 1994 se “da un lato ha mantenuto la stabilità e la crescita economica, dall’altro ha anche represso il dissenso politico attraverso la sorveglianza pervasiva, l’intimidazione, la detenzione arbitraria, la tortura e sospetti omicidi di dissidenti in esilio”.
Mozambico
Elvino Dias era un avvocato e il consulente di Venacio Mondlane, candidato dell’opposizione per la presidenza del Mozambico. Paulo Guambe era invece membro e portavoce della giovane formazione politica, PODEMOS, che ha sostenuto Mondlane.
Era notte fonda a Maputo quando hanno sparato ad entrambi.
Erano in auto tra venerdì e sabato della scorsa settimana in una delle grandi vie della capitale di questo Paese che il 9 ottobre è andato al voto e ancora attende i risultati ufficiali.
Risultati dall’esito che sembra scontato: in testa ci sarebbe Daniel Chapo che corre con la Frelimo, il Fronte della Liberazione per il Mozambico al comando dall’indipendenza dal Portogallo nel 1975.
Risultati che Dias era pronto a contestare davanti al Consiglio costituzionale, e l’opposizione a sfidare con uno sciopero generale.
Ora però, Maputo, è in fiamme.
O meglio, è una città sotto shock, dopo che lunedì, la polizia ha soffocato una manifestazione dell’opposizione che contestava i risultati elettorali – denunciando irregolarità, per altro constatate anche dalla missione degli osservatori dell’Unione Europea – e sfilava contro quello che Adriano Nuvunga, il direttore dell’organizzazione mozambicana per i diritti umani “Centro per la democrazia e lo sviluppo”, ha definito “assassinio politico”, come riporta Associated Press.
“Sono stati brutalmente assassinati in un omicidio a sangue freddo” ha aggiunto in una conversazione telefonica con l’agenzia Reuters.
“Gli indizi dicono sono stati sparati dai dieci ai quandici colpi, e che loro sono morti istantaneamente” ha aggiunto.
Secondo Nuvunga l’omicidio sarebbe un “messaggio” ai dimostranti dell’opposizione che pianificavano di scendere in piazza.
“Le forze di difesa e sicurezza del Mozambico hanno commesso questo atto”, ha detto Mondlane. “Ne abbiamo la prova. Ora scorre il sangue di due giovani! Tutti noi, scendiamo per strada. Lo dimostreremo con i nostri cartelli”.
Il direttore del programma Africa presso il think tank per gli affari internazionali Chatham House, Alex Vines, ha definito l’omicidio una “grave escalation”, riporta Radio France Internationale.
Tensioni crescenti da quando l’opposizione ha iniziato a protestare contestando i risultati provvisori che mostravano Chapo in testa.
Le organizzazioni per i diritti umani avevano già denunciato il clima di violenza e repressione.
“Basta sparare ai raduni politici pacifici” scriveva venerdì scorso Amnesty International.
C’era stato un ferito, due giorni, prima durante una manifestazione nella città di Nampula, e l’arresto di David Calisto Bandeira, musicista e supporter di Podemos.
“Indipendentemente da chi vince le elezioni, la polizia mozambicana deve rispettare il diritto delle persone a riunirsi pacificamente. Sparare proiettili veri contro una manifestazione politica pacifica e detenere arbitrariamente sostenitori dell’opposizione costituisce una grave violazione sia del diritto mozambicano che di quello internazionale sui diritti umani” aveva detto Khanyo Farise, vice direttore regionale per l’Africa dell’Est e meridionale di Amnesty International.
“La società civile e la stampa indipendente mozambicana non hanno dubbi: si è trattato dell’ennesimo assassinio di regime, portato a temine dai cosiddetti ‘squadroni della morte’ che da anni agirebbero all’interno delle forze dell’ordine e dei servizi di intelligence mozambicani, con l’obiettivo di eliminare personaggi ritenuti scomodi” scrive Luca Bussotti su Nigrizia, ricordando altri omicidi, quello di Carlos Cardos, giornalista, assassinato nel 2000 o Gilles Cistac, professore di diritto ucciso a Maputo.
“Di questi omicidi, come di altri, i colpevoli non sono mai stati identificati, o sono soltanto stati arrestati gli esecutori materiali: i mandanti, probabilmente politici o addirittura istituzionali, dormono ancora sonni tranquilli” scrive ancora Bussotti.
Un Paese fragile e ricchissimo, soprattutto di gas naturale, quello che vale più di “diritti umani e democrazia”.
È questa la denuncia che arriva dagli “Indignados”, gruppo della diaspora che ha condiviso con l’agenzia italiana Dire una lettera-appello.
“Da qualche anno a questa parte assistiamo ai viaggi in Mozambico di dirigenti italiani di spicco, come Matteo Renzi, Luigi Di Maio, Sergio Mattarella e da ultimo Giorgia Meloni; la ragione è il gas naturale, ma conoscendo l’Italia crediamo che si interessi di ciò che accade nel Paese…. Considerando ciò, ci appare paradossale la vostra latitanza in momenti come questo” scrivono.
“A ogni occasione di incontri e aggregazioni in forma pacifica il governo invia l’esercito che si avventa sui partecipanti usando gas lacrimogeni e sparando pallottole e uccidendo manifestanti” aggiungono.
“È giunta l’ora che l’Italia, l’Europa e la comunità internazionale siano a conoscenza di questi fatti e prendano una posizione netta”.
Etiopia
Si è combattuto ancora nella regione etiope Amahra.
Un fine settimana di guerra vicino alla città di Debark, come riporta l’Addis Standard.
Quante le vittime e quali i danni, impossibile saperlo.
Testimoni sentiti dalla testata etiope raccontano di scontri che persistono da tempo tra le forze governative e i miliziani Fano. Vittime sempre, soprattutto, i civili.
Un’operazione che sarebbe stata condotta dall’Ethiopian National Defense Force per “neutralizzare i leader e i membri del gruppo di terroristi, insieme al sequestro di armi” si legge sulle pagine Facebook dell’esercito.
E che è solo l’ultimo atto in una lunga catena di violenze.
La scorsa settimana, il servizio della BBC in amarico, raccontava di questa terra travagliata: solo nel distretto di South Mecha sarebbero almeno cento le persone che hanno perso la vita dall’inizio di ottobre.
“Le famiglie e i residenti delle persone decedute hanno affermato che anziani e giovani, compresi i bambini, sono stati uccisi da droni e attacchi indiscriminati” scrive la BBC.
Morti su cui sta indagando la commissione etiope per i diritti umani.
Droni, ancora, per giorni su Gerchech, dall’11 al 14 di questo mese, colpita anche una struttura sanitaria.
Le università della regione denunciano la crescita delle violenze sessuali e di genere.
Ne parla The Reporter Ethiopia. Sarebbero state almeno 5000 le vittime che hanno chiesto aiuto alle strutture sanitarie.
“Ma questo numero rappresenta solo una frazione del totale degli incidenti nella regione, che è in preda a un conflitto tra gruppi armati e forze di sicurezza federali dall’agosto 2023” avverte il Forum delle università.
“Tafre Melaku, segretario generale del Forum, ha dichiarato ai media che il conflitto in corso ha interrotto in modo significativo i servizi essenziali. I frequenti blocchi stradali, le restrizioni alla circolazione e gli attacchi alle strutture sanitarie hanno gravemente ostacolato il trasporto di forniture mediche e altri aiuti umanitari” si legge sul The Reporter Ethiopia.
Secondo l’organizzazione, sarebbero 969 le strutture medico sanitarie colpite, molte delle quali costrette ad interrompere le attività, “lasciando milioni di persone senza accesso all’assistenza di base” si legge ancora.
Melaku aggiunge che negli ultimi 14 mesi sono 1116 gli operatori sanitari dispersi o uccisi.
Un conflitto armato che vede l’uno contro l’altro esercito e milizie, nella seconda regione più popolosa del Paese, che avevano combattuto da alleati nella guerra del Tigray, dal 2020 al 2022.
Un’alleanza crollata quando il governo federale e i leader tigrini hanno firmato l’accordo di pace ed è iniziato il disarmo delle milizie, che ora contestano il “controllo federale su buona parte della regione” scrive l’International Crisis Group.
Una dopo l’altra, rivolte e guerra, dal Tigray, all’Oromia, all’Amhara. Un “groviglio di crisi sta corrodendo le relazioni interetniche e ponendo minacce alla stabilità del Paese” si legge ancora.
Buon governo, i passi indietro
L’Africa sta rallentando sulla strada del buon governo, secondo l’ultimo rapporto pubblicato dalla Mo Ibrahim Foundation, l’Index of African Governance 2024.
Il deterioramento della sicurezza e della democrazia “stanno minacciando i sostanziali progressi nello sviluppo umano ed economico” del continente.
Una tendenza che emerge dall’analisi di 96 indicatori, 322 variabili, su 54 Paesi per il decennio 2014-2023.
I progressi nel buon governo si sarebbero arrestati nel 2022 a causa dell’“aumento dei conflitti e dell’insicurezza, nonché per la riduzione dello spazio democratico”.
Poco più della metà della popolazione africana, il 52,1%, ha visto migliorare la situazione e solo in 33 Paesi, per il resto tutto in peggioramento rispetto al 2014.
L’indice “2024 è un promemoria che fa riflettere sulla minaccia che l’aggravarsi della crisi della sicurezza e il restringimento dell’ambiente partecipativo rappresentano per il progresso del continente.
Naturalmente, riflette anche la crisi globale.
L’escalation dei conflitti e la crescita della sfiducia nelle istituzioni e nei valori democratici non sono specifici dell’Africa; lo vediamo in tutto il mondo” ha detto Mo Ibrahim, fondatore e presidente della Fondazione.
“Ma è particolarmente preoccupante in Africa perché minaccia il nostro progresso nello sviluppo economico e sociale, così come i progressi che dobbiamo ancora raggiungere.
Ma non riassumiamo troppo velocemente il panorama della governance africana sotto un’unica media.
Il nostro è un vasto continente composto da 54 Paesi, con tendenze molto divergenti, alcune con traiettorie di sorprendente successo, altre con preoccupanti segnali di allarme.
Preoccupano infatti i peggioramenti in Sudan, nei Paesi del Sahel, nella RDC, in Tunisia e a Mauritius.
Tuttavia, i notevoli progressi registrati da Paesi come Marocco, Costa d’Avorio, Seychelles, Angola e Benin, e in alcuni settori chiave, come le infrastrutture e l’uguaglianza delle donne, dovrebbero offrire speranza su ciò che può essere raggiunto”.
A livello nazionale, solo 13 Paesi – tra cui Egitto, Madagascar, Malawi, Marocco, Costa d’Avorio, Togo e Somalia – riescono a seguire un percorso di successo nel progresso della governance complessiva nel corso del decennio, accelerando addirittura il miglioramento a partire dal 2019” sostengono i ricercatori della fondazione.
“Se c’è un deterioramento della governance, se c’è corruzione, se c’è emarginazione… la gente prenderà le armi”, ha detto ancora Ibrahim in un’intervista all’agenzia Reuters.
Ghana
Il Ghana non ha di fatto più un Parlamento.
A meno di due mesi dalle elezioni previste per il 7 dicembre, l’Assemblea nazionale martedì ha sospeso i lavori a tempo indeterminato.
La ragione? Una controversia legale che però ribalta la maggioranza.
È iniziato tutto perché la legge vieta ai parlamentari di cambiare casacca, ovvero passare da un partito all’altro, durante il mandato.
Quattro parlamentari avrebbero annunciato di lasciare le loro rispettive formazioni politiche per correre come indipendenti alla ormai prossima tornata elettorale.
Alban Bagbin, il presidente del parlamento ha deciso dunque di dichiarare i loro seggi vacanti, decisione contestata dal partito di maggioranza, l’NPP che ha portato la questione alla Corte Suprema e che accusa il presidente Bagbin, membro del partito di opposizione, NDC, di parzialità per aver stravolto gli equilibri e aver con questa scelta portato il suo movimento ad avere il controllo della camera.
Una questione di leggi, cavilli che però rischia di avere pesanti conseguenze su questo Paese che sta attraversando una grave crisi economica e che potrebbe non vedere approvata neppure la legge di bilancio.
È un Paese che vive una drammatica emergenza ambientale: il disastro ecologico generato dalla corsa all’oro, dalle miniere illegali che avvelenano la sua terra ricchissima e le sue acque con un massiccio uso di mercurio.
L’organizzazione WaterAid l’ha chiamato “ecocidio”.
Ad ottobre, la popolazione è scesa in piazza nella capitale Accra per chiedere al governo di fermare l’attività estrattiva illegale e per tutta risposta il governo ha arrestato più di dieci manifestanti.
“La devastazione è stata causata dal fatto che la natura dell’attività mineraria illegale è cambiata: in precedenza, i giovani disoccupati scavavano con picconi e pale, o a mani nude, per cercare l’oro.
Si affidavano anche al… lavaggio dei sedimenti attraverso un setaccio in modo che l’oro si depositasse sul fondo” spiega un servizio della BBC.
In quella che in epoca coloniale era chiamata, Costa d’Oro, sono “gli uomini d’affari cinesi, che si trasferirono per la prima volta in Ghana circa 18 anni fa”, ad aver fatto mutare volto all’industria, si legge ancora, e sono accusati di non preoccuparsi delle conseguenze ambientali.
“Si sospetta che alcuni uomini d’affari e politici locali si siano uniti a loro in quella che è stata soprannominata ‘la folle corsa all’oro’, comprando le piantagioni di cacao e trasformandole in siti minerari illegali.
Sono stati anche accusati di ricorrere all’intimidazione se un agricoltore si rifiuta di vendere, scavando sentieri e costringendolo alla fine a cedere la terra” spiega ancora il reportage della BBC. Sarebbero circa 4.726 gli ettari di terreno andati distrutti.
Burkina Faso
Nel piccolo villaggio di Laongo, poco lontano da Ouagadougou, blocchi di granito vecchi di miliardi di anni sono la ragione per cui artisti da tutto il mondo raggiungono questa terra remota e tanto travagliata.
Dal 1989, da quando Ky Siriky, artista burkinabè, rimase incantato da questo unico fenomeno geologico e decise di farne museo a cielo aperto, luogo dove gli artisti potessero lasciare la loro traccia indelebile, da qui sono passate decine di scultori che hanno creato circa duemila opere.
Sono arrivati anche quest’anno, ad ottobre, per la 14a edizione biennale del Simposio internazionale della scultura di granito.
“Entrare nella boscaglia, incontrare affioramenti di granito e lasciare la nostra impronta su di essi per le generazioni future è stato, per me, come una missione” afferma il fondatore del simposio, Siriky Ki, come riporta Africanews.
“Oggi, Laongo è diventata una destinazione turistica che riceve visitatori tutto l’anno” aggiunge.
Sono diciassette gli artisti africani ed europei, tra loro la maliana Independance Dougnon, giovane artista, designer e stilista, presidente del collettivo Sanou’Art, che partecipa per la prima volta:
“Il mio lavoro riguarda la convivenza, rappresentata attraverso due personaggi di sesso opposto che sono intimamente legati. È fondamentale seminare amore ovunque. È una grande esperienza per me poter incontrare altri artisti e scambiare idee” racconta sempre ad AfricaNews.
Foto in copertina: Contaminazionivisive – Pixabay
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